GENIO (Genius)
Divinità degli antichi Romani, pertinente al culto domestico. Il suo nome si riconnette evidentemente con la radice di gignere; e pertanto il Genio non fu in origine che il simbolo della virtù generativa e procreatrice dell'uomo e prese a rappresentare l'essenza stessa dell'individuo, la potenza creatrice della sua personalità, di cui resta poi come il divino rappresentante. Il Genio è dunque l'espressione della virilità, intesa nel più alto e più largo senso della parola; esso è il nume che preserva e protegge: e perciò, prima e al disopra d'ogni altro, si venera il Genio del pater familias, che dà al padre di famiglia l'energia e la capacità di conservare e accrescere la sua discendenza; esso è, dunque, il nume tutelare della famiglia stessa. Insieme col Lare familiare e coi Penati esso forma il piccolo ma importantissimo consesso delle divinità domestiche, centro del culto privato di Roma antica, il quale fu parte essenziale della pristina religione romana e sul quale si modellarono non poche e non le meno importanti forme del culto pubblico (la supposta identità del Genio e del Lare familiare è contraddetta dalle testimonianze più autorevoli).
Al Genius degli uomini corrisponde, in uno stadio più avanzato della religione romana, la Iuno delle donne: poiché la dea Giunone (v.) ebbe sotto la sua protezione la donna e tutte le manifestazioni del suo sesso, così essa finì col rappresentare in certo modo l'anima muliebre, e, sotto l'esempio e sotto l'influsso dei Genî degli uomini, si produsse uno sminuzzamento della figura divina di Iuno in tante singole Iunones. Come ogni uomo nel Genio, così ogni donna trovò allora nella sua Iuno il proprio nume tutelare, e l'indigitazione e il culto delle Iunones furono modellati su quelli dei Genî: originariamente, però, non ci consta che sia esistita una speciale divinità tutelare delle singole donne, come esisteva un nume protettore d'ogni uomo.
Ogni uomo dunque ha il suo Genio, che con lui è nato, con lui vive e che - se, in una concezione più antica, moriva con lui - gli sopravvive, quasi come una continuazione della sua personalità nell'oltretomba (si ricordino le numerose dediche funerarie al Genio o alla Iuno dei trapassati). In ogni casa si venera il Genio del pater familias, il quale ha la sua sede e viene invocato presso il talamo nuziale (lectus genialis), si festeggia nei giorno natalizio del suo protetto - giorno di festa per tutti i membri della famiglia, liberi, schiavi, liberti - e gli si offrono allora libazioni di vino, focacce, incenso; per esso giurano tutti gli appartenenti alla casa. Animale caro e sacro al Genio era il serpente, che fu perciò usato a rappresentarlo simbolicamente (si ricordino le varie leggende di uomini famosi nati dalla congiunzione del Genio stesso, in forma di serpente, con la mater familias: così per Scipione Africano, in Gellio, Noct. Att., VI, 1, 3; Livio, XXVI, 19, 7).
Sviluppo e significato speciale prese, nell'età imperiale, il culto del Genio dell'imperatore, riguardato, in certo modo, come il pater familias di tutto lo stato; a esso si rendevano in pubblico quegli atti di ossequio che, nel culto domestico, si prestavano al Genio del capo di casa, e per esso si giurava: un vero e proprio culto del Genius Augusti fu istituito con un senatoconsulto del 29 a. C., il quale prescriveva che in tutti i banchetti pubblici e privati si offrissero a esso determinate libazioni.
In progresso di tempo, il concetto di Genio acquistò sempre maggiore estensione: esso ci appare dovunque si desidera sentire la presenza d'una potenza che custodisca e protegga; e vi furono non soltanto Genî dei singoli uomini e delle singole famiglie, ma anche ogni comunità, ogni gente, ogni luogo, lo stato stesso ebbero il proprio Genio. Sono specialmente le epigrafi che ci testimoniano l'esistenza e la venerazione di Genî così molteplici e anche ormai così disformi dall'aspetto originario di questa figura divina: in questi casi il Genio non ci si presenta ormai più come simbolo dell'anima virile, ma semplicemente come il nume tutelare di un'associazione civile o militare (si ricordino, per es., i Genî delle singole legioni), di una colonia, di un municipio, perfino di un'istituzione o di un edificio (Genius theatri, Genius scholae, Genius macelli), oppure dei singoli luoghi (Genius loci; onde, nel rituale, l'invocazione: deus, in cuius tutela hic locus est). Perfino le divinità, in quanto possono esplicare una speciale funzione protettiva, ebbero il proprio Genio, il quale rappresentava appunto questo aspetto della loro attività sul mondo dei mortali; e quindi troviamo un Genio non solo delle divinità maschili, ma anche di divinità femminili (per es.: Genius Victoriae, Genius Iunonis Sospitae).
Un altro aspetto del culto del Genio lo troviamo nella venerazione che tutti gli abitanti dell'Impero prestarono al Genius populi romani o Genius urbis Romae: una figura divina di cui il sesso stesso rimase indeterminato, come dimostra l'iscrizione che si leggeva su uno scudo conservato sul Campidoglio (Genio urbis Romae sive mas sive femina). Nel culto ufficiale, non vi fu mai alcuna festa fissa per il Genio del popolo romano; gli fu però eretto, verso la fine della Repubblica, un sacrario presso il Tempio della Concordia, ove, il 9 ottobre di ogni anno, gli si sacrificava. Nel sec. IV s'istituirono in suo onore dei giuochi (Ludi Genialici) che si celebravano l'11 e il 12 febbraio.
Iconografia. - I Genî personali, così quelli di privati cittadini come quello dell'imperatore, sono rappresentati generalmente da una figura virile togata, recante, per lo più, la cornucopia (genialis copia), attributo veramente caratteristico e distintivo del Genio; spesso si rappresentava il Genio anche in figura di sacrificante, con l'estremità della toga tirata sopra la testa e con la patera da libazioni nella mano destra. Il Genio del popolo romano, come apparisce spesso sulle monete, anche d'età repubblicana, è invece di solito rappresentato da un uomo barbato (in età più tarda, anche da un giovane), qualche volta coperto da un mantello, con la cornucopia nella mano sinistra e la patera da libazionni nella destra. In sì fatta guisa vennero anche rappresentati i Genî di città, su rilievi o su monete; così troviamo raffigurato, su un rilievo di Capua, anche il Genius theatri; e di tal foggia sono anche le rappresentazioni di Genî militari, di luoghi di collegi, ecc.
Bibl.: A. De Marchi, Il culto privato di Roma antica, I, Milano 1896, p. 69 segg.; Th. Birt, in Roscher, Lexicon der griech. u. röm. Mythol., I, col. 1613 segg.; L. Cesano, in De Ruggiero, Dizion. epig. di antichità rom., III, p. 449 segg.; W. F. Otto, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VII, col. 1155 segg.; G. Wissowa, Religion u. Kultus d. Römer, 2ª ed., Monaco 1912, p. 175 segg.
Storia della filosofia. - Dato il particolare concetto che i Romani si facevano del Genio, inteso (v. sopra) come divinità tutelare che accompagnava l'uomo per tutto il corso della sua esistenza sovrintendendo alle sue azioni, era facile che fossero attribuiti al Genio specialmente quegli atti, in cui sembrava si manifestassero funzioni superiori alle normali capacità dell'individuo; allo stesso modo che i Greci le avevano talora ascritte a un "demone" (δαίμων), o in genere a una divinità che intervenisse nell'opera dell'uomo. Ma uno dei casi in cui più tipicamente si poteva vedere tale divina possessione era quello dell'entusiasmo artistico (che, per es., per Platone, nell'Ione, era "divina follia", inconsapevole ossessione creatrice): di qui il passaggio alla concezione del Genio come organo dell'arte e in genere d'ogni attività che nettamente soverchiasse il limite delle possibilità umane (trasferendosi invece il concetto di ingenium, che per gli antichi significava pure l'innata e specifica capacità intellettuale dell'individuo, alla designazione di quelle facoltà che, pur nel loro vario valore, non superassero tale limite). L'intellettualistica estetica aristotelica, dando dell'arte un'interpretazione gnoseologica, fece passare nell'ombra il concetto di genio; il quale invece risorse quando, nel Sei e Settecento, l'attenzione tornò variamente a convergere sul carattere irrazionale, alogico, sentimentale dell'arte. Per Kant il genio era la facoltà delle idee estetiche creante con spontaneità naturale i modelli dell'arte; per Schiller era il principio dell'arte "ingenua", contrapposta alla "sentimentale". D'altronde, l'esaltazione romantica del genio, che si perpetuava anche nella prima metà dell'Ottocento e finiva con l'estenderne la funzione a ogni forma di attività superiore ed eccezionale dell'uomo, faceva venire insieme in luce il carattere di "abnormità" (già manifesto in alcuni rilievi di Platone e di Seneca, e riaffermato in età moderna specialmente da Schelling e da Schopenhauer) che a esso competeva in quanto non v'era genio senza assoluta prevalenza di alcune facoltà spirituali su altre: secondo un'osservazione esagerata poi fino al limite della caricatura dall'accostamento positivistico (Lombroso, ecc.) di genio e degenerazione.
Bibl.: Larga serie d'indicazioni per la storia del concetto in R. Eisler, Wörterbuch d. philos. Begriffe, I, 4ª ed., Berlino 1927, pp. 503-06. Tra gli scritti storici, v.: H. Wolf, Versuch einer Geschichte d. Geniebegriffs i. d. deutschen Aesthetik des 18. Jahrh., I, Heidelberg 1923; G. Zilsel, Die Entstehung des Geniebegriffs, Tubinga 1926; id., Die Geniereligion, I, Vienna 1918.