GASTRONOMIA (gr. γαστήρ "ventre, stomaco" e νόμος "regola")
È il complesso delle regole e delle usanze relative alla preparazione dei cibi: regole e usanze di carattere prevalentemente empirico, e perciò diverse dalle norme che si riferiscono all'alimentazione (v.) scientificamente intesa.
L'uomo preistorico si nutrì di quanto la natura gli forniva: l'arte della cucina progredì variamente a seconda del vario modo di vivere degli uomini e dell'ambiente in cui si trovarono. Insieme con l'agricoltura, la pastorizia, ecc., si sviluppa l'arte della cucina; la quale però è anche, almeno tendenzialmente, scienza, perché l'uomo civile volle sapere perché un cibo meglio gli convenisse di un altro e come meglio gli fosse opportuno avvalersene. Il chimico, il fisiologo, il medico e l'igienista hanno tutti contribuito a determinare la composizione degli alimenti, come essi agiscano, quali convengano e quali nuocciano in casi speciali. (v. alimentazione; dieteticoterapia). Qui però si considera la gastronomia solo come l'arte di ben approntare e cucinare i cibi.
Cenni Storici. - Ebrei. - Il pane di frumento o di orzo era il precipuo alimento del popolo e si faceva lievitare, salvo in caso di fretta, in cui si . cuoceva in forma di focaccia sotto la cenere (v. azimo). Le focacce si rendevano dolci col miele, uva passa, e fichi secchi. Oltre che di pane, gli Ebrei si nutrivano di varî legumi (fave, lenti, ecc.) nonché di frutta (uva, fichi, melagrane, mandorle, mele). Il miele serviva a indolcire i cibi e il vino. Non di tutte le carni si potevano cibare; erano esclusi: il porco e tutti gli altri non ruminanti dal piede bisulco; i ruminanti solidungoli; i pesci non squamosi; tutti gli animali apodi o comunque reptanti; e infine tutti i morticini (suffocata) il cui sangue cioè non fosse uscito completamente dal corpo. Le carni preferite erano l'agnello, il montone, il vitello, il bue, talora anche il capro; tra i volatili le tortore e i piccioni. La carne veniva o arrostita o lessata. Il brodo non si gustava, ma misto a erbe serviva come intingolo. L'olio era il principale condimento.
Come bevanda avevano il vino o di uva o di altre sostanze fermentate (sicera) quali l'orzo, il miele, le mele.
Antichità classica. - a) I cibi. - Lo studio dei cibi usati dagli antichi dà risultati che sorprendono: il pane, come lo mangiamo noi, è stato per molto tempo un cibo di lusso e invece l'uso del cacio grattugiato è antico quanto Omero; inoltre il gusto degli antichi (come si può affermare soprattutto per i Romani) era tanto diverso dal nostro, che i più ghiotti manicaretti di allora sarebbero attualmente immangiabili.
Gli antichi ebbero una conoscenza relativamente limitata delle risorse che la natura, specie quella vegetale può offrire all'alimentazione e al gusto umano. Tutti sanno che nell'antichità non v'erano patate; è dubbio se si conoscessero i tartufi; certo non si consumava né tè, né caffè, né cioccolata; non si sapeva distillare i liquori; lo zucchero, noto solo come medicinale, non aveva ancora sostituito il miele nella pasticceria. L'unico eccitante di cui si facesse uso era il vino, di cui nell'età ellenistica vi era grande smercio nei bar (thermopolia), allora, come oggi, numerosissimi. Ogni età ha i suoi sistemi di alimentazione. Semplice è il cibo degli eroi: nei loro banchetti mangiano pane e carne arrostita; ma da menzioni incidentali si ricava che essi conoscevano altri cibi, come legumi, pesci, ostriche e l'uso di lessar la carne e di far salsicce. Delizia degli eroi di Omero è il ciceòne, bevanda che si preparava con un vino speciale (vino prammio), farina, cacio di capra grattugiato e miele. Per gustare questo buon beverone ci si mangiava sopra una cipolla.
I Greci dell'età classica si nutrivano soprattutto di cereali. Le qualità del pane venivano distinte secondo il tipo di farina con cui era fatto - la più usata era quella di frumento (ἄλευρα) o d'orzo (ἄλϕιτα), ma si faceva anche il pane di miglio, di panico, di riso - e secondo il modo di fabbricazione. Il pane di grano (αρτος) era il tipo più fine; ma più che del pane si faceva uso della μᾶλα, cioè d'una pasta di farina d'orzo, lavorata molto semplicemente e fatta asciugare in forno entro delle forme. Prima di mangiarla si inumidiva in modo da fame una specie di pappa. Del pane vi erano due specie, quello lievitato (ζυμίτες) come lo mangiamo noi, e la galletta: l'uso del primo era più diffuso in terra di barbari che in Grecia. Si cuoceva il pane mettendolo in forno o arrostendolo al fuoco infilato in uno spiedo (ὀβελίας ἄρτος). Unendo alla pasta del pane miele, cacio e altri ingredienti, si facevano delle focacce molto saporite (πέμματα, πλακούντες), che si cuocevano in forno. Il mondo animale offriva come cibo ai Greci carni ovine, bovine, suine, pollame (ignoto al mondo omerico), selvaggina e pesci. Il pane di tipo più rozzo, i vegetali comuni, insalata, ceci, lupini, cavoli e piceoli pesci conservati sotto sale (τάριχος) erano il cibo usuale della povera gente. Mangiar carne era, anche per i ricchi, far rialto. La carne più pregiata era quella di porco; ma il popolino si adattava anche a mangiare carne d'asino, così almeno è attestato per Atene, dove ce n'era uno spaccio.
In Egitto, regione ricca di grano e con acque pescosissime, gli abitanti, in epoca ellenistica, consumavano in massima parte pane e pesce (fresco, secco o in salamoia). La conservazione del pesce sotto sale alimentava un'industria fiorente in varie parti dell'Egitto; anche le famiglie ne preparavano per usi domestici. Limitato invece era l'uso della carne nonostante che nei grandi centri ve ne fosse un certo smercio, particolarmente nell'età romana e bizantina, per il rifornimento degli eserciti. Oltre agli animali che sono ancor oggi di consumo usuale, si macellavano asini, cammelli, gazzelle. Abbastanza largo era anche il consumo del pollame, nonostante il prezzo relativamente alto.
Fra i Romani l'uso del pane divenne generale solo al principio del sec. II a. C.; prima si cibavano soprattutto di farro (v.) che, ridotto in farina, serviva a formare la puls (pappa), loro cibo nazionale. Si faceva il pane anche con farina d'orzo, spelta, ecc.; ma il pane d'orzo non era cibo così diffuso come fra i Greci. Dei legumi, i più usati erano le fave, le lenti e i ceci; degli ortaggi, le lattughe, il cavolo e il porro, questo usatissimo negli antipasti, nei quali si faceva anche gran consumo di erbe lassative, come la malva e la bietola, che si credeva disponessero lo stomaco alla digestione. (Per le frutta usate dagli antichi v. frutta). I Romani, come già gli Etruschi, erano molto più carnvori dei Greci. Oltre che carni di animali che son cibo comune anche fra noi mangiavano carne di cervo, di asino selvatico, di ghiro e di uccelli, come il fenicottero, lo psittaco, la tortora e il pavone. Grande trasporto avevano i Romani per il pesce, dai pesciolini (gerres, maenae) sotto sale, alimento del popolo, alle qualità più fini di pesce fresco.
b) I cuochi e l'arte della cucina. - Sulla culinaria degli antichi abbiamo una quantità di notizie conservateci in massima parte per i Greci da Ateneo, per i Romani soprattutto da Marziale e Petronio e da un ricettario gastronomico attribuito a M. Gavio Apicio (v.).
Nel mondo omerico manca un'arte della cucina: i cibi vengono preparati dalle donne di casa. Dare una mano alla preparazione del pranzo non sembra sconveniente neanche ai guerrieri e ai figli di re. Il primo accenno all'arte culinaria si trova nella Batracomiomachia, attribuita a Omero ma specchio di una civiltà più tarda. Vi si trova un accenno a leccornie di complicata fabbricazione (schiacciate condite con salsa di sesamo e cacio, fegatelli avvolti nella rete, dolci col miele) e all'uso di "ingredienti di ogni specie". Nell'età attica (secoli V e IV) la culinaria è già arrivata a un alto grado di perfezione; ma non sembra che ai progressi di quest'arte nuova Atene contribuisse molto: rinomati invece sono i cuochi e la culinaria della Sicilia; anche in età romana le Siculae dapes erano proverbiali. Ma non vi era - o era raro - l'uso di tenere fra gli schiavi un cuoco incaricato solo di far da mangiare. I cuochi di regola sono uomini liberi, che prestano per mercede i servigi della loro arte a chi ne ha bisogno: stanno nell'agorà e attendono che chi vuol far rialto li venga a cercare. Nella commedia attica il cuoco era un tipo: pieno di pretensione, fiero della sua arte, si recava con tutto l'armamentario del suo mestiere nelle case dove si faceva il banchetto; e poiché in Atene i cuochi più fini venivano dal di fuori, per il personaggio del cuoco vi erano due maschere, il cuoco paesano (μαίσων) e il cuoco venuto di fuori (τέττιξ). L'arte culinaria ebbe poi uno sviluppo anche maggiore nell'età macedonica. Ma il massimo del suo raffinamento lo raggiunse fra i Romani dell'età imperiale. I Romani del buon tempo antico, anteriori alla seconda guerra punica, erano uomini di vita semplice; non tenevano cuochi, e incaricavano della cucina l'uomo addetto alla fabbricazione del pane (pistor); quando, poi, avevano bisogno di un cuoco, se ne procuravano uno al mercato. (La notizia è in Plinio; ma è probabile che egli scambi per antichi costumi romani usi greci trapassati nella commedia plautina). Durante l'Impero, invece, in tutte le famiglie signorili vi era un certo numero di addetti alla cucina: gli uomini di fatica che attendevano al forno (fornacarii) e alla pulitura delle stoviglie e degli utensili, gl'incaricati delle spese (opsonatores), i cuochi (coqui) che, se abili, erano comprati a prezzo altissimo, i pasticcieri (dulciarii, crustularii, placentarii), tutti sotto l'alta direzione del capo-cuoco (archimagirus).
Per ben fornire la loro cucina i Romani non badavano a spese: nelle villae si curava l'allevamento razionale dei pesci e della selvaggina; si era riusciti a ingrassare le lepri, i ghiri, persino le ostriche. E da tutte le parti del mondo venivano a Roma le più prelibate leccornie. La tecnica degli antichi era assai diversa dalla nostra. Greci e Romani consideravano come scopo della culinaria più raffinata riunire in una stessa pietanza i sapori più disparati, amavano perciò gl'intrugli dove fossero mescolati odori acuti (menta, ruta), spezie di ogni genere (pepe, senapa, silfio), sostanze acide e sostanze dolciastre, come il miele, il mosto cotto, i datteri e le frutta spiaccicate. I Romani, poi, aggiungevano a ogni pietanza una certa quantità di garum (v.).
Medioevo ed età moderna. - La cucina dei Barbari, contrastante in parte con quella romana, ebbe la caratteristica della grossolanità, se non quella della parsimonia: abbondantissimi erano i pasti e i banchetti dei Visigoti, degli Unni, dei Vandali; ma di gastronomia vera e propria non si può parlare: alcuni piatti romani si protraggono per un certo tempo, poi scompaiono. La tendenza al mangiar molto anziché bene dura sin dopo il 1000, ostacolata solo in parte dall'influenza del cristianesimo: nei conventi, dopo una prima fase di quasi ascetismo, l'arte culinaria riprende gradatamente a fiorire secondo un indirizzo più sano, tendendo a rendere gli alimenti appetitosi e ben digeribili, introducendo in maggior quantità la verdura e la frutta. I monaci posero nella preparazione e nella cottura dei cibi una cura particolare, mostrando una conoscenza dei principî dell'alimentazione assai più sviluppata che non quella propria ai manipolatori dei grandi banchetti delle corti o dei castelli. Non è a dire, peraltro, che nell'alto Medioevo nulla s'innovasse in materia gastronomica. Sotto i Merovingi, p. es., s'introducono nuove salse, si serve il formaggio aromatizzato col finocchio, si fanno conserve di rose e di violette. Sotto i Carolingi si vedono i primi pasticci all'uovo, di pesce, torte di carne, ecc.
Dopo il 1000 si ha un breve periodo di arresto, anzi di regresso, dovuio alle penose condizioni economiche, ma poi i piaceri della mensa riprendono i loro diritti. Caratteristica della cucina europea nei secoli XI-XIV è la grande quantità di cibo che vien consumata ai pasti (specialmente carni arrostite) e l'uso smodato delle spezie (importate dall'Oriente). Ginepro, cannella, cardamomo, zafferano, garofano, pepe e noce moscata vengon profusi largamente nelle carni e nel vino. Verso la fine del sec. XIV i mercanti di aceto, mostaru̇a e droghe furono in più luoghi, data la loro accresciuta importanza, riuniti in corporazioni di mestiere.
Sulla cucina italiana del Trecento e del Quattrocento abbiamo alcuni documenti assai noti, relativi a banchetti celebri (v. anche banchetto), quali quello di nozze offerto nel giugno 1368 a Milano, nel palazzo dell'Arenga, da Galeazzo II, al quale prese parte il Petrarca; quello dato dal cardinale Riario il lunedì di Pentecoste 1473; quello offerto dal maresciallo Trivulzio in occasione delle sue nozze con Beatrice d'Avalos d'Aquino, ecc. Varie notizie ci restano poi, in particolare, intorno alla cucina della corte di Ferrara nel '400. Le 18 "imbandigioni" di cui si componeva il pranzo dato da Galeazzo Visconti rivelano, insieme con altre notizie che abbiamo sulla gastronomia del sec. XIV, grossolanità nella manipolazione dei cibi, e un'assenza completa di proporzione e di buon gusto nel servirli in tavola. Troviamo infatti una serie interminabile di arrosti (porcellette", lepri, lucci, vitello, quaglie, pemici, anitre, aironi, ecc.), tutti quanti "dorati" e con il fuoco in bocca; carne di bue e capponi con agliata, salsa fatta di agli o porri pestati con aromi, dolciumi e mandorle; e poi ancora carne e pesce in geladia, e lepri, e caprioli, e capponi, e conigli, e pavoni, conditi spesso e volentierì con savori (salse) rosse e verdi: il tutto con grande abbondanza di erbe odorifere, spezie, ecc. Solo da ultimo si hanno gioncade, formaggio e frutta. I ricettarî del Trecento, quali il Libro di cocina, non ci dànno un'impressione diversa: si tratta sempre d'intrugli bizzarri che sarebbero insopportabili per un palato moderno.
Nel Quattrocento si notano mutamenti radicali del gusto, specie nella seconda metà del secolo; soprattutto s'impara a ordinare con maggiore intelligenza la serie delle portate, in modo da evitare o da ridurre la monotonia dei pranzi: questi rimangono però sempre (almeno nel caso di banchetti lussuosi) sovrabbondanti per il nostro gusto. Nel pranzo nuziale di Costanzo Sforza, signore di Pesaro, con Camilla d'Aragona, vengono servite due serie di sei portate ciascuna. Nella prima serie le portate furono: la prima di canditi, confezioni, paste e pinocchiate; la seconda di uova, latte, e un daino arrosto; la terza, di un vitello e fagiani; la quarta di pavoni; la quinta di formaggio; la sesta di giuncate e confezioni. Nella seconda serie vennero semiti: vini diversi, pesce, cinghiale con pasticci di uccelli, vitello arrosto, frutta, confezioni, vini e liquore hypocras, pregiato in quel tempo. È evidente la differenza tra questa successione assai razionale di cibi e le 18 "imbandigioni" del banchetto di Galeazzo.
Dall'esempio dato si può desumere quale fosse il carattere della gastronomia del Quattrocento, quasi preludio a quella che divenne, per merito d'Italiani prima e di Francesi poi, l'arte culinaria del secolo seguente. Si nota già peraltro un grande uso di dolciumi, che diverrà ben presto un abuso. Anche dall'elenco delle vivande imbandite nel pranzo offerto dal cardinale Riario troviamo una miglior disposizione dei cibi (quattro "imbandigioni", passando da cibi leggieri a piatti più sostanziosi, per finire con i soliti dolciumi e confezioni); quanto a novità culinarie rileviamo i seguenti piatti assai interessanti: "mangiar bianco con grani di melaranza dolci e capponi in savor verde con vino còrso; salcizze; galantina in conche d'argento, torte dorate di carne, limoni siroppati argentati in tazze; cerese in tazze con vino di Tiro", ecc. Le vivande più apprezzate alla corte di Ferrara nel Quattrocento erano capponi, pernici, trote, fagiani, quaglie, beccafichi, piccioni, lepri, salmoni, carpioni, ostriche, melloni, insalata, pesche, tartufi, ecc. C'erano poi le zeladie, di carne o di pesce, le limonie, le varie confectioni, e spezie e droghe varie come muschio, pevere, zeferano, nuxe muschia, dragante, zinepro, ecc. Poi zaldoni, mostalda e savor biancho, e varî zochi e adornamenti da mensa. I cuochi e "mastri di confezioni" avevano varî compiti: gli uni indoravano e argentavano; altri erano specialisti nel preparare i pavoni, ecc.
Nel quarto libro del Pantagruel, Rabelais ci descrive una serie di piatti specialmente apprezzati nel Cinquecento. Ricordiamo il pavone, il tacchino (introdotto dalla Turchia), la cacciagione, le ostriche, il riso, gli asparagi, il midollo di bue, i mirobolani, moltissime specie di conserve, il porcospino, le ranocchie. L'età d'oro della gastronomia comincia appunto col Cinquecento. La prima edizione del Viandier, di Taillevent, cuoco di Carlo VII, è del 1490; Taillevent creò parecchie minestre e salse, ed escogitò varî modi nuovi di preparare la cacciagione. Agnès Sorel, favorita del re, introduce il salmì di beccacce. Nuovi alimenti o condimenti compaiono sotto Enrico II (p. es. gli spinaci), sotto Carlo IX (p. es. il mais), ecc.; molti ortaggi e frutti vengono importati in questo secolo dall'Oriente; la carne e il lardo di balena erano d'uso comune e rappresentarono, p. es., la grosse pièce nel pranzo che l'arcivescovo di Parigi offrì nel 1571 a Elisabetta d'Austria. Il pavone e il cigno erano sempre assai considerati. La cucina francese comincia in quest'epoca a imporre la sua supremazia, anche a soprattutto sotto l'influenza di quella italiana, portata in Francia da Caterina de' Medici, e ivi sviluppata e trasformata. Ma in Italia alle corti estensi e medicee, nelle residenze papali e cardinalizie, l'arte culinaria non era tenuta in minor pregio, anche se meno raffinata di quella d'oltralpe. E cultori di gastronomia non sdegnarono d'essere Tiziano, Paolo Veronese, Raffaello.
È noto che l'arte dello stare a tavola si perfezionò con grande ritardo rispetto a quella del cucinare. È noto il trattato di Fra Bonvesin da la Riva (circa 1240-circa 1315; v.). Nella sua Contenance de la table (1480) Jean Sulpice avverte che la carne si deve prendere con tre sole dita; e un secolo dopo il Montaigne manifesta la sua meraviglia per avere assistito a un pranzo dove tutti i convitati avevano il cucchiaio. Nel Galateo, monsignor Della Casa raccomanda di non ungersi troppo le mani mangiando. La forchetta divenne d'uso comune, per i ricchi, solo nel Cinquecento, e non si diffuse tra la borghesia se non nel sec. XVIII. Sino a quasi tutto il sec. XVI non si usò che un solo piatto per ogni convitato; gli avanzi si buttavano sotto la tavola. Ogni tanto si lavavano le mani con acque odorifere, per detergerle dall'unto.
In Francia, che dal Seicento in poi accentra si può dire esclusivamente la storia della gastronomia, i sovrani recano contributi personali all'arte del ben cucinare. Luigi XIII, se non era un "buongustaio" sapeva stare presso i fornelli, e si era specializzato nel cuocere - in varî modi - le uova. Un enorme sviluppo alla gastronomia fu dato da Luigi XIV, il cui appetito formidabile ci è testimoniato da numerosi autori; il suo pasto tipo si componeva di 3 piatti di zuppa, un fagiano, una tortora, due costolette d'agnello, un piatto di prosciutto, dolci e frutta, e i pranzi di corte comprendevano, lui regnante, otto servizî, ciascuno composto da 20 a 30 portate diverse. Si diffusero in questo tempo molti piatti nuovi, tra cui la salsa spagnola e i piselli, e i prodotti d'Oriente e d'America: caffè (v.), cioccolato (v.), tè (v.). Particolarmente in voga la "fricassea" di pollo o di piccione, le rissoles, la galimafrée, ecc. Luigi XIV diede anche notevole impulso al consumo della verdura e della frutta.
Col reggente duca d'Orléans i progressi sono ancora maggiori: vengono a poco a poco eliminate le mescolanze eterogenee della culinaria precedente (p. es., diminuisce e scompare l'uso d'introdurre, in una quantità di piatti, profumi come il muschio, l'ambra o il giaggiolo). Il reggente era anch'egli buon cuciniere, ma aveva soprattutto un gusto più raffinato di quello del Re Sole: sotto di lui progredì particolarmente la ricerca dei sughi delicati e saporiti e l'uso dei petit soupers. Né Luigi XV, personalmente espertissimo nella preparazione dei pasticci e del caffè, fu da meno: egli inventa un tipo di pane che porta il suo nome, e sotto il suo regno compaiono moltissime nuove e prelibate pietanze, tra cui: i pasticci tartufati di cacciagione; varie specie di frittate; i filetti di pollo e le costolette d'agnello à la Bellevue, "ispirati" dalla Pompadour; le quaglie alla Mirepoix; il consommé, i bocconcini e i polli à la Reine, creazione di Maria Leszćzynska; la salsa nota sotto il nome di Béchamel, dovuta al finanziere (poi marchese) omonimo; la salsa maionese (da Mahon, città assediata dal Richelieu, cui si vuole risalga l'invenzione); le crêpes del cardinale di Bernis, ecc. Si giunge in quest'epoca a non poche esagerazioni gastronomiche, come quella di non voler più masticare, invalsa presso parecchi nobili, e far quindi tutto ridurre a gelatine, conserve, purées, sughi, ecc.; o quella di dare ai cibi un aspetto diverso da ciò che essi erano in realtà. In contrasto con tali aberrazioni sta in questo secolo l'uso dei pranzi offerti da gentildonne o da uomini di pensiero allo scopo di riunire, intorno a una mensa anche frugale, varie persone tra le più note nel campo della letteratura, dell'arte o della scienza.
Nel 1763, a opera di un certo Boulanger, si fonda a Parigi il primo ristorante; la cucina delicata non è più, d'ora in poi, esclusività dei nobili e dei ricchi. Fenomeno veramente assai raro, l'arte gastronomica divenne nello stesso tempo più popolare e più fine.
Luigi XVI ereditò i gusti dell'avo: molto appetito, scarsa scelta dei cibi. Sotto il suo regno, per la costanza di Parmentier, fu introdotta nell'alimentazione la patata, portata in Europa da John Hawkins, sin dal 1565. Dei molti gastronomi famosi nel periodo che va dalla metà del Settecento ai primi decennî del sec. XIX, menzioneremo soltanto Brillat-Savarin (v.), autore della Physiologie du goût (1755-1826), Grimod de la Reynière (1758-1838) e il famoso cuoco Carême (1784-1833). Nel periodo della rivoluzione l'arte gastronomica non venne tenuta in pregio; varî emigrati, peraltro, diffusero in Europa i principali piatti francesi, e ne crearono di nuovi. Le "creazioni" di quest'epoca sono, principalmente, la bistecca à la Chateaubriand, le torte al rognone, i budini tartufati, con i pistacchi, l'aragosta, ecc. Verso la fine del sec. XVIII il francese Appert inventa il processo che porta il suo nome per la preparazione delle conserve alimentari (v.). Su Napoleone I fecero scarsissima presa le suggestioni della gastronomia.
Nel sec. XIX i pranzi, specialmente nei grandi festini, assunsero un'importanza straordinaria. Essi erano divisi in tre sezioni: nella prima prendevano posto le minestre, le entrate, ecc. Nella seconda parte le grosses pièces, gli arrosti, ecc. La terza parte era riservata al dessert. Fra la prima e la seconda parte era servito un punch gelato, necessario refrigerante all'eccesso del calore interno. Era usanza, tanto nella maniera francese quanto nella russa, di avere le portate importanti cucinate in varie maniere, nell'intento di soddisfare i varî gusti dei commensali, che potevano scegliere, p. es., fra una purée e una zuppa chiara, fra un arrosto di caccia o uno di carne. Tutti i piatti con le portate erano disposti parte per parte sul tavolo. Le minestre erano servite scodellate in giro. Nei pranzi di famiglia, anche molto signorili, in Francia i piatti erano ugualmente disposti sulla tavola, a bagnomaria per tenerli caldi. I servitori cambiavano i piatti, servivano una portata e poi si ritiravano. In Inghilterra la zuppa era scodellata su un tavolo a parte e distribuita; le carni erano tagliate dal padrone di casa a tavola stessa e distribuite. Lo stesso si faceva in Germania. In Italia si preferiva far scalcare al mastro di casa o al primo cameriere. Era etichetta rigorosa che i grandi pranzi non dovessero durare più di un'ora; e anche oggi, del resto, una gran casa non fa portare a tavola che un numero limitato di portate: zuppa, pesce, legumi, arrosto, dolce e frutta, ben scelti e ben cucinati. Alla quantità e varietà si sostituisce la qualità e la novità. Dalla metà del sec. XIX la cucina si è alquanto uniformata, e va sempre più acquistando un carattere internazionale. Ciò che è quasi un fatto compiuto nelle trattorie e negli alberghi, non è avvenuto in egual misura presso le famiglie, ed è quindi ancor lecito parlare di cucine nazionali e regionali.
Principi di gastronomia generale. - La cottura delle vivande. - Cucinare vuol dire anzitutto cuocere: cuocere le vivande dopo averle preparate e opportunamente associate a grassi, aromi, spezie o altro, per renderle più facilmente masticabili, meglio digeribili, più piacevoli al palato. Chiunque intenda cucinare deve per prima cosa saper bene valersi del calore. L'azione del calore sterilizza i cibi, a qualunque categoria appartengano, e per ottenere tale scopo non occorre arrivare a temperature molto alte: nessun animale parassita contenuto nelle carni resiste a una temperatura di 70° C.; basta per conseguenza assicurarsi che anche nell'interno del cibo la temperatura arrivi a questo grado. Non è da credere, peraltro, che la cottura renda sempre il cibo più digeribile; in genere ciò non avviene per i cibi animali, mentre è vero per i vegetali; però anche la sola azione del calore rende i cibi più saporiti e teneri e con ciò provoca una maggiore secrezione dei succhi gastrici, facilitando la digestione. Il calore provoca la coagulazione delle proteine, tanto vegetali quanto animali, facilitando la nutrizione, di cui esse sono elemento essenziale: ma anche qui non occorre eccedere nelle temperature, perché la coagulazione avviene se si arriva alla temperatura di circa 77°, e se la si supera, le proteine si seccano e diventano dure, diminuendo in proporzione la digeribilità del cibo nel quale sono contenute. Il calore agisce sui carboidrati e in modo speciale sull'amido, convertendolo in una forma solubile e alla fine in destrina. Il caldo umido fa gonfiare i grani d'amido, ne rompe gl'involucri di cellulosa e l'amido si gelatinizza; ciò avviene più facilmente nelle patate, poi nel riso, nel grano, nell'orzo e nell'avena; ma ad ogni modo tra i 58° e i 64° circa. Anche in questo caso non occorre arrivare a temperature più alte. Il calore non agisce altrettanto sui grassi, come sulle proteine e sui carboidrati. Un eccesso di calore può decomporli liberando acidi, che potrebbero irritare lo stomaco. Però il grasso cotto, lasciato raffreddare, diventa croccante e, perdendo ogni acidità, è spesso più saporito e digeribile. L'azione del calore sui cibi si ottiene in primo luogo arrostendoli, cioè esponendoli direttamente all'irradiazione d'un fuoco che può essere di legna, carbone di legna o carbone minerale; è questo il processo più antico, che ancor oggi peraltro si usa in varî casi. Si arrostiscono sullo spiedo piccoli animali o pezzi di carne (i primitivi arrostiscono l'intero animale infilato in un palo di legno), oppure si sospende la carne stessa davanti al fuoco e la si fa girare, o la si mette in una graticcia o in una salamandra esponendola al riverbero di fiamme di gas o di lampade elettriche. Si può arrostire anche mettendo la carne nel forno. Ancora oggi, con metodo che può risalire alle prime origini della cucina, i beduini mettono un agnello sotto la sabbia asciutta e vi accendono un fuoco sopra; e certi cacciatori ancor oggi ricoprono interamente con la creta un uccello che hanno vuotato delle interiora, sostituendole con erbe aromatiche, e cuociono tutto su di un gran fuoco. La cottura decompone l'emoglobina, togliendo alla carne il colore troppo rosso, e ciò senza che le proteine si coagulino troppo e senza che si perda il profumo delle materie estrattive. Conviene esporre la carne prima a un forte calore per formare uno strato superficiale di proteina coagulata; questa impedisce, nella successiva cottura (che dev'essere fatta a temperatura più bassa) la dispersione delle materie utili. Anche i vegetali e le frutta si possono cuocere arrostendoli; meglio, se nel forno; in genere basta l'acqua che essi contengono per impedire che si abbrucino; in altri casi bisogna avvalersi opportunamente di grassi vegetali o animali; alcuni vegetali, come i peperoni, i pomidori, si possono anche, opportunamente preparati, cucinare sulla graticola. Si può anche far agire il calore sulle cibarie per mezzo del fumo. Nelle cucine dei grandi palazzi esistono ancora speciali camere per cucinare col fumo, in genere di legna aromatica, pesci, la lingua di bue, cosciotti di maiale, ecc.
Altro metodo per far agire il calore sui cibi, siano essi vegetali o animali, è quello di bollirli. Valgono anche qui le osservazioni relative alle temperature. Non occorre completare la cottura tenendo sempre le carni o le verdure nell'acqua bollente; così se si mette un uovo in una pentola con molta acqua bollente che continui fortemente a bollire, dopo quattro o cinque minuti l'uovo è perfettamente sodo, ma il tuorlo è stopposo e granuloso; mentre se lo si mette in un mestolo d'acqua bollentissima, questa si raffredda per l'immersione dell'uovo, cessa di bollire pur rimanendo calda e dopo quattro minuti il tuorlo è rappreso e conserva una sufficiente elasticità. La carne si bolle o per mangiarla direttamente, o per estrarre da essa tutte le materie estrattive e i sali e farne del brodo; in questo caso conviene metterla nell'acqua fredda e farla bollire lentamente: in pratica ciò si fa mescolando varie qualità di carne e aggiungendo anche, a seconda dei gusti e dello scopo del cuoco, altre sostanze vegetali o animali. Se si vuole invece mangiare il bollito, si deve prima immergere la carne nell'acqua salata bollentissima, per ottenere la coagulazione alla superficie delle proteine, e poi seguitare a cuocere a temperatura più bassa per il tempo necessario. In molti casi per mantenere nelle carni tutte le sostanze aromatiche che esse contengono, conviene avvolgerle in un velo o in una tela. Le acque molto dure non sono indicate per bollire le vivande, specialmente se vegetali: tutti i vegetali richiedono poi speciali cure. Un buon cuoco sa quanto meglio convenga cuocere le verdure, specialmente i tuberi, nell'acqua nella quale si è cotto il bollito, e meglio ancora se si tratta di brodo. si usa con vantaggio anche l'acqua dove si è cotta la pasta o il riso. Queste acque sono già prive dell'eccesso di carbonati e già contengono amido. Il pesce richiede speciali attenzioni. Già i Greci distinguevano il pesce a carne compatta e il pesce tenero, e quest'ultimo solo consigliavano di bollire: conviene mettere sempre insieme col pesce erbe aromatiche o altro, aceto o limone, e mettere nella speciale pentola pesciera l'acqua strettamente necessaria per coprire il pesce.
Oggi ci si può servire anche del vapore, specie per cucinare le verdure, e vi sono pentole speciali nelle quali ciò si può fare tenendo sospesa la verdura in cestini metallici. Nelle grandi cucine si può disporre di vapore a pressione. Il vapore è molto convenientemente adoperato per bollire il pesce, il quale, immerso nell'acqua, perde spesso più del 5% delle sue materie solide; occorrono però pentole speciali e vapore a pressione.
Altro modo di cuocere le vivande è quello di metterle in casseruole sopra un fuoco ardente, opportunamente associate a una certa quantità di grassi e poca quantità di brodo o d'acqua (stufare). La casseruola permette di confezionare le vivande vegetali in modi diversissimi, a seconda delle materie che si associano alla carne o alla verdura. In genere la cottura è lenta e non si arriva mai alle temperature alle quali si può arrivare arrostendo o infornando. L'arte del cuoco sta tutta nel saper graduare la temperatura dal principio alla fine della cottura. Nelle casseruole si possono anche cuocere le vivande nel vino, nell'alcool, ecc.
Un altro mezzo di sottoporre a calore i cibi è il friggerli mediante la padella. Per friggere si adoperano olio di oliva (anche di noci, semi, ecc.: non consigliabili), strutto o altri grassi animali, come grasso di rognone sciolto. I cuochi in genere usano preparare con capricciosi miscugli il grasso da adoperare. Questi grassi vengono portati all'ebollizione: qualche volta per l'ebollizione alcuni di essi perdono delle sostanze, cambiando anche sapore; l'ebollizione arriva a varie temperature a seconda delle sostanze adoperate. Friggere è un'arte speciale, i risultati della cottura in padella essendo differentissimi se si adopera poca quantità di grassi o molta, se si cuociono i cibi immergendoli completamente nel grasso caldo o posandoli sulla padella appena unta; risultati differenti si ottengono anche secondo la durata di cottura delle vivande.
Un altro modo di comunicare il calore ai cibi è, infine, quello del bagnomaria, consistente nell'immergere la casseruola con i cibi dentro un altro recipiente dove c'è acqua in ebollizione o alla temperatura voluta. Questo permette di ottenere e di graduare la coagulazione o gelatinizzazione delle proteine, e lo scioglimento dei grassi fino al punto voluto. Il bagnornaria ha grande importanza nella confezione di piatti dolci o di budini di verdura e di came.
Per rendere gradite e digeribili le materie alimentari, talvolta si deve usare il freddo, o alternarlo al caldo; è arte del cuoco far gelati, gelatine di carne e di frutta, ecc. L'arte di adoperare e di dosare il caldo e il freddo nella confezione dei cibi è il fondamento stesso della gastronomia.
Preparazione delle vivande. - È un altro lato assai importante della gastronomia. La preparazione delle vivande può essere fine a sè stessa, oppure (come di solito) precederne la cottura. Lo scopo è quello di togliere, nel caso delle carni, siano esse pezzi staccati o animali interi, tutte quelle parti che non possono essere sottoposte allo stesso genere di cottura del pezzo principale, perché ne guasterebbero il sapore e qualche volta anche nuocerebbero alla sua digeribilità: nervi, pelli, alcuni grassi, parte dei visceri degli animali, le ossa, salvo alcune, debbono essere rimossi. Molti molluschi debbono essere sventrati. Piccoli animali devono essere interamente disossati e la carcassa va riempita di altri ingredienti. Nei pesci, molti organi interni debbono essere eliminati e qualche volta anche le squame, ecc. Le carni dovrebbero essere sempre lavate e converrebbe adoperare acqua nella quale sia stato spremuto del limone o sciolto dell'acido citrico cristallizzato, il che costituirebbe un'utilissima prima disinfezione. Si può usare anche l'acqua salata.
Per le verdure hanno grande importanza i lavaggi. Certe piante debbono essere sfogliate foglia per foglia; di alcune si adoperano i gambi, di altre le sole foglie, di altre i chicchi senza i baccelli. Bisogna estrarre i semi dalla polpa dei pomodori, dei peperoni, delle zucche, ecc.; rimuovere tutti gli elementi avariati dalle intemperie o nei trasporti o al mercato. Il lavaggio in acqua abbondante è necessario per eliminare ogni residuo di materie estranee e converrebbe fosse fatto con acqua resa acida da acido citrico, il quale migliora gli aromi naturali ed è anche disinfettante.
Parecchi tra i cibi che vanno mangiati crudi o sottoposti a cottura subiscono preparazioni speciali, specialmente le carni e il pesce. Qualche volta la carne è triturata (l'operazione può essere fatta a macchina), talvolta è pestata o stesa in lamine finissime, altre volte viene sottoposta a speciale macerazione o lasciata per qualche tempo all'aria affinché divenga sufficientemente frolla. Il pesce è preparato spesso in salamoia, e lo stesso si deve fare per le carni degli animali selvatici (cervi, daini, lepri, ecc.). Lo studio e la pratica di queste manipolazioni è parte integrante della gastronomia.
Non tutto, poi, si mangia cotto; vi sono molte sostanze alimentari, d'origine sia animale sia vegetale, le quali costituiscono cibi ottimi anche se preparate senza l'azione diretta del calore. Così, per es., le frutta, così tutta una serie di legumi che si mangiano o in insalata o altrimenti conditi o anche senza condimento; e così molte altre specie di cibi animali, per es. tutti i salumi (v.). La preparazione di questi cibi, che può essere fatta dai privati, ha assunto un'importanza notevolissima ed è diventata una grande industria. Al pari di essa richiede una trattazione speciale la confezione dei dolciumi di ogni genere (v. cioccolato; confetture; gelato).
Va diffondendosi sempre più l'uso di frutta e verdure che non provengono direttamente dagli orti, ma che subiscono speciali preparazioni e formano oggetto di commercio. Prima di adoperare questi cibi si deve restituire l'acqua che è atata loro tolta per conservarli; bisogna seguire accuratamente le prescrizioni che forniscono gli stessi produttori. Per le carni congelate occorre avere l'accortezza di lasciarle disgelare lentissimamente per impedire che le fibre siano polverizzate dal rapido disgelamento.
Alcune cucine nazionali europee. - Italia. - L'Italia ha un primato indiscutibile nella cucina casalinga; la sana preparazione, la sagace cottura e il semplice condimento dei cibi sono le sue più apprezzate caratteristiche. Tra i cibi italiani più tipici vanno ricordate le paste allimentari, specie di Napoli. Maccheroni, ravioli, spaghetti, ecc. sono conosciutissimi anche all'estero. Così pure la polenta, per quanto alimento più grossolano. Alcune specialità negli ortaggi: i pomodori, i broccoli, i finocchi; tra i formaggi il parmigiano e il gorgonzola. Fra i tanti piatti regionali menzioneremo: la fonduta e i cardi in bagna cauda (Piemonte); il risotto alla milanese e l'osso-buco (Lombardia); la polenta coi osei e i "risi e bisi" (Veneto), le "trenette col pesto" e la "torta pasqualina" (Liguria); i tortellini, le tagliatelle verdi o al prosciutto (Emilia); l'"àrista" e la "bistecca alla fiorentina" (Toscana); l'"abbacchio" arrosto, i "supplì" e la "porchetta" (Lazio); gli spaghetti alle vongole e i maccheroni al pomodoro (Campania); la pasta con le sarde e la "caponata" (Sicilia), ecc. Anche dalla brevissima notizia che precede viene confermata l'importanza della minestra e della pasta nell'alimentazione italiana. Di pesce si fa poi naturalmente un notevole consumo in parecchie regioni. Per quanto riguarda i dolci, i salumi e i vini, tanto dell'Italia quanto dell'estero, si rimanda alle voci enologia; gelato; pasticceria; salumi; vino.
Francia. - La storia della cucina francese coincide in gran parte con la storia della gastronomia, e non sarebbe qui possibile menzionare anche solo alcuni dei più noti piatti e manicaretti che, creati in Francia, sono stati poi internazionalmente adottati. Si rinvia quindi ai principali trattati di gastronomia (cfr. bibl.).
Germania. - La cucina tedesca, fatta per stomachi robusti, si fonda soprattutto sulla carne e sui farinacei, che la birra (v.) eccellente bene accompagna. Spesso cibi dolci vengono serviti come contorno a piatti salati, ma non sempre tale accostamento riesce gradito a chi non vi sia avvezzo. Tra i piatti più noti: il manzo salato di Amburgo; il bue alla berlinese, marinato in birra leggiera e cotto con lardo e legumi; lo Hammelragout, con salsicce e pureé di patate; le Pfannenkuchen variamente ripiene, la lepre alla bavarese (con vino del Reno); l'oca alla mecklemburghese, ripiena di mele e d'uva, servita con cavoli rossi; l'insalata di aringhe; lo Schmarr bavarese; popolarissimi i Würstel bolliti o arrostiti, e i varî salumi.
Spagna. - La cucina spagnola non è tra le più raffinate. Menzioniamo alcuni piatti tipici: l'olla podrida, mescolanza di carne di manzo, di maiale e di volatile, con legumi varî; il merluzzo alla biscaglina, con spezie e pomodoro; il chorizo, salsiccia di bue, vitello e maiale: l'escabeche, salmì di pesce e cacciagione; le almondigillas, polpette di filetto di bue cotte nella salsa di pomodoro, ecc.
Inghilterra. - La cucina inglese è rimasta per lungo tempo assai poco varia; i cibi di maggior consumo sono la carne e il pesce; la turtle soup, minestra nazionale, merita peraltro di essere ricordata, e così pure l'oxtail soup, e il porridge, anch'esse minestre notissime. Il roast-beef ha fama e consumo internazionali; e non meno pregevoli sono altri piatti abituali come i mutton chops, le uova col prosciutto, i sandwiches. Le salse già preparate e messe in commercio vengono in genere preferite; e ciò dà una certa monotonia di sapore ai piatti britannici: il Ketchup, la Worcestershire sauce, le varie mostarde, spesso molto forti, snaturano talora completamente il sapore originario dei cibi, cosicché i buongustai ne fanno un uso moderato.
Polonia. - In Polonia vennero introdotti, nel Cinquecento, varî piatti italiani, importati da Bona Sforza, che andò sposa a Sigismondo il Vecchio; tra l'altro vi è molto usato il pomodoro (pomidor). Ma le varie dominazioni subite introdussero volta a volta piatti turchi, austriaci, tedeschi, russi. La cucina polacca è molto varia, saporita e nutriente: non però per stomachi deboli. Ricordiamo: le varie minestre, accompagnate da carne, o alla crema acida o ghiacciate o zuccherate (alle mandorle, con frutta, ecc.); i sardelki (cervellate con sardine) di Varsavia; gli zrazy, fette di bue brasato; il bigoś, umido di cacciagione, di manzo e di maiale, con cavoli e patate agre; i differenti tipi di pirogi (pasticci di carne o legumi); i kluski (pasticci di formaggio), ecc.
Russia. - La quantità degli antipasti (zakuski) è una delle caratteristiche della cucina russa: caviale, pesci salati o affumicati, gamberetti, molluschi, ecc., vengono serviti prima della colazione o del pranzo insieme con liquori ed aperitivi varî. Tra le minestre ricordiamo lo èči, mescolanza di carni e legumi, la botvinja allo storione, con cocomeri, ribes, spinaci, il borèč; tra i piatti le varie kulebjaki (pasticci, in genere di pesce), diverse carni ghiacciate, parecchi cibi comuni alla cucina polacca.
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