MALVEZZI, Gaspare
Nacque a Bologna intorno al 1372 da Musotto di Vezzolo (Giuliano) e da Margherita di Toniolo Zanzifabri.
Il padre Musotto e i suoi fratelli Melchion e Zanne acquisirono la qualifica di notaio, ma furono soprattutto mercanti di seta: attività tradizionale della famiglia che essi seppero proseguire con successo. Musotto assunse pure incarichi pubblici, specie dal 1376 quando con la "signoria del popolo e delle arti" Bologna riprese un'ampia autonomia. Più volte anziano, guidò milizie nelle guerre contro Gian Galeazzo Visconti e fu incaricato di missioni per la città, come quella che nel 1392 risolse il grave contrasto con Bonifacio IX per la condanna a morte inflitta da Bologna a Marco, figlio di Giovanni da Legnano. Membro, nel dicembre 1393 del primo Collegio dei riformatori dello Stato di libertà, in cui si stava concentrando l'effettivo potere di governo, Musotto, nei contrasti all'interno dell'oligarchia cittadina, fu con Giovanni (I) Bentivoglio, che appoggiò nei suoi tentativi di conquistare il potere fino alla delibera del Consiglio generale del 17 marzo 1401 che conferì a Bentivoglio la signoria sulla città. Ne fu quindi un fidato ambasciatore: presso il papa nell'aprile 1401 nel tentativo, fallito, di ottenergli il vicariato apostolico; a Firenze, nell'agosto 1401 e ancora nel febbraio e marzo 1402, a rinsaldare un'alleanza per il Bentivoglio vitale. La sconfitta e l'uccisione di questo, il 30 giugno 1402, indussero Musotto a rivolgere esclusivo interesse agli affari nell'impresa di famiglia. Qualcosa aveva peraltro minato l'intesa tra i fratelli e i loro figli e ai primi di novembre del 1402 un provvedimento del vicario del podestà sancì la divisione delle proprietà tra Musotto, Zanne e i figli di Melchion. Musotto ottenne una grande casa a Bologna in parrocchia di S. Sigismondo e vari appezzamenti di terra nel contado per quasi 50 ettari. Il provvedimento fissò in 13.000 lire il valore della sua quota, pari a un terzo, nella impresa familiare. Alla sua morte, nel 1404, lasciava così ai figli - il M., Astorre e Melchion - un patrimonio di tutto rilievo e un rapporto con i Bentivoglio che le ultime traversie non avevano intaccato.
Questi due elementi segnarono profondamente la vicenda del Malvezzi. La sua ricchezza indusse nel 1410 dei malfattori, guidati da Vandino Papazoni, a rapirlo e a portarlo a Forlimpopoli, custodito da un certo fra Ruffino, che per la sua liberazione pretese un riscatto di 600 ducati. Nel 1411 il legame con i Bentivoglio si consolidò ulteriormente quando il M. sposò Giovanna, figlia del defunto signore di Bologna. Dal matrimonio nacquero dodici figli: tre femmine (Margherita, Elisabetta ed Elena, che sposarono rispettivamente Guid'Antonio Lambertini, Alberto Azzoguidi e Ludovico Bentivoglio) e nove maschi. Alcuni morirono in giovane età, ma altri (Achille, Virgilio, Ludovico, Ercole e Pirro) ebbero grande rilievo nella politica e nell'arte militare della seconda metà del sec. XV. Ebbe pure almeno due figli naturali: Astorre e Troilo.
Il legame con i Bentivoglio scandì anche le successive fasi della sua vita. Partecipò con il cognato Antonio Bentivoglio e altri esponenti dell'oligarchia cittadina al moto che agli inizi del 1416 cacciò da Bologna il legato pontificio in nome di una rinnovata autonomia. Ma l'accordo nelle file dell'oligarchia non resse a lungo e due fazioni si raccolsero intorno ai Canetoli e ad Antonio Bentivoglio. Agli inizi del 1420 il secondo occupò con le armi il Palazzo pubblico e inserì propri sostenitori nel Collegio dei riformatori. Il M. fu tra questi e nei mesi seguenti sostenne l'azione del cognato con prestiti al Comune e sedando una rivolta degli uomini di Castel San Pietro. Il disegno del Bentivoglio di imporsi come signore fu stroncato dal papa Martino V, che lo costrinse a lasciare la città. Divenne capitano di milizie e si pose al soldo di Firenze e del papa; ma a sostenerlo furono anche i numerosi prestiti che da Bologna il M. gli elargì. Ne ottenne in cambio diritti su terre e immobili del Bentivoglio, che con altre terre e un mulino a Russi saldò i 1000 ducati promessi al M. come dote della sorella.
Le proprietà terriere e gli investimenti per valorizzarle erano in quel momento un reale interesse del Malvezzi. Ne è un chiaro esempio la licenza ottenuta il 15 nov. 1425 dal governatore pontificio di Bologna di edificare a Castel Guelfo, centro di sue vaste proprietà, un mulino, esente per di più dal dazio della molitura. Da Martino V il M. ottenne la nomina a podestà di Ascoli per il secondo semestre del 1428, nomina forse favorita dal legame con il Bentivoglio che a Roma il 30 giugno 1428 fu testimone al giuramento del M. come podestà. Ebbe anche, ma la data è incerta, l'incarico di commissario di milizie pontificie e l'investitura a conte di Teodorano, castello della Romagna di cui era proprietario l'arcivescovo di Ravenna.
Nel dicembre 1428 il M., anche per il deciso apporto della moglie Giovanna, fu coinvolto in un'azione tesa a consegnare Bologna, dominata allora dai Canetoli sostenuti da Filippo Maria Visconti, alle milizie del papa, di cui il Bentivoglio era uno dei capitani. L'azione fallì e il M. fuggì con la moglie a Modena. Qui, dato alla luce il figlio Pirro, Giovanna morì. Un accordo del settembre 1429 consentì il rientro in Bologna del legato pontificio e in tale occasione anche il M. rientrò. Evitò però di farsi coinvolgere nei continui scontri tra fazioni, culminati il 23 dic. 1435 nell'uccisione di Antonio Bentivoglio, perpetrata dal governatore pontificio Daniele da Treviso.
In quel periodo il M. fece ricostruire la chiesa di S. Sigismondo, nella cui parrocchia era la grande casa avita, e sposò, nel 1436, Margherita Loiani, vedova di Pietro d'Aristotele, dalla quale ebbe almeno una figlia, Ginevra.
Nel gennaio 1438, dopo che la fazione dei Bentivoglio aveva cercato e ottenuto l'appoggio di Filippo Maria Visconti, il capitano di questo, Niccolò Piccinino, entrò in Bologna; fu eletto un Collegio di anziani formato da esponenti della fazione, tra cui era il M., ai quali il Consiglio generale concesse poteri straordinari. Per tutto l'anno la fazione bentivolesca tenne il potere e il M. fu tra coloro che ne segnarono la linea d'azione. Ripetutamente anziano, nel novembre fu dei Dieci di balia, nuovo organo al vertice del Comune, in sostituzione dei Sedici riformatori, cui gli Anziani trasferirono i poteri straordinari conferiti loro in gennaio. Nel 1439, ritornati in città i Canetoli, si riaccesero gli scontri. Il M. e Annibale Bentivoglio, figlio di Antonio, assicurarono alla loro fazione l'appoggio del Piccinino.
Questi nel 1440, formalmente al comando di milizie del Visconti, dette vita, d'intesa con l'oligarchia cittadina, a un suo tentativo di insignorirsi di Bologna. L'affidamento della Tesoreria comunale a una società di privati, esponenti delle maggiori famiglie, assicurò a queste la tutela dei propri privilegi e un'ampia indipendenza dal potere politico; il Piccinino ottenne in cambio un credito pressoché illimitato sulle finanze del Comune. In questo complesso accordo il M. ebbe parte. Fu del ripristinato Collegio dei Sedici riformatori che nel marzo 1440 deliberarono l'affidamento della Tesoreria e a novembre andò con Giovanni da Manzolino a Parma, ambasciatore al Piccinino, siglando i patti che, ponendo Bologna sotto la protezione del capitano, ottenevano per la città una larga autonomia dal Visconti e al Piccinino assicurarono il soldo per le sue milizie.
La posizione del M. in Bologna era giunta allora a un livello di eccellenza: membro dei Sedici riformatori anche per il 1441-42, godeva della fiducia di Annibale Bentivoglio e di quella del Piccinino, che lo aveva scelto come suo tesoriere. La cosa ebbe una drammatica svolta il 17 ott. 1442 quando Francesco, figlio di Niccolò Piccinino, nominato dal padre governatore di Bologna, arrestò Annibale Bentivoglio, il M. e il figlio Achille e li fece rinchiudere in tre diverse rocche del Parmense. Poco chiari restano ancora gli scopi di questa azione: di fatto, mentre Francesco Piccinino inaspriva il controllo sulla città, Bologna inviava ripetute ambascerie a Niccolò Piccinino e al duca di Milano, ma le loro risposte non consentivano di capirne le intenzioni. All'incertezza pose fine Galeazzo Marescotti, che ai primi di giugno 1443 con un colpo di mano liberò Annibale dalla rocca di Varano dei Marchesi. Rientrato in città, raccolti e rianimati i suoi partigiani, Annibale assalì il palazzo pubblico e catturò Francesco Piccinino. Respinti gli attacchi delle milizie di Niccolò, avviò trattative per lo scambio dei prigionieri e il 20 ag. 1443 il M. e il figlio Achille potevano ritornare a Bologna.
Forte del successo, la fazione dei Bentivoglio rinsaldò il suo predominio e schierò Bologna con Firenze e Venezia contro il Visconti. Nel quadro di questa alleanza, nel gennaio 1444 il M. fu a Firenze e vi tornò in giugno quando scese anche a Siena. Nel 1445, membro dei Dodici di balia, nuovo massimo organo di governo, sovrintese alla costruzione della rocca di Castelfranco. L'assassinio di Annibale Bentivoglio, il 24 giugno 1445, per mano di Baldassarre Canetoli scatenò un sanguinoso scontro che si concluse con la vittoria dei seguaci del Bentivoglio. Fu insediato un nuovo Collegio dei Sedici riformatori, tutti di sicura fede bentivolesca, tra i quali era anche il Malvezzi. A contrastare la reazione dei Canetoli, appoggiati da Filippo Maria Visconti, furono chiesti aiuti alle città alleate. Il M. andò a tale scopo in Toscana e ne tornò con la compagnia di Simonetto Dell'Aquila. Nell'aprile 1446 fu commissario a Castel Guelfo. Nel novembre 1446, grazie ai buoni uffici di Cosimo de' Medici, Sante Bentivoglio entrò in Bologna e, con il pieno appoggio dei maggiorenti della fazione e in particolare del M., ne assunse la guida.
Nel marzo 1447 il M. fu a Roma, inviato da Bologna a Niccolò V, appena eletto. Avviò le trattative che in agosto portarono all'accordo, noto come "capitoli di Niccolò V", base dei rapporti della città con la S. Sede fino al sec. XVIII. Difficile è stabilire quale peso abbia avuto nelle trattative la personalità del M., ma è certo che Niccolò V nutriva una particolare stima per lui. La espresse il 18 febbr. 1448 confermandogli la licenza di edificare un mulino a Castel Guelfo ed esentando gli abitanti dai dazi di Bologna: misura che esaltava i tanti diritti che il M. già vantava in questa località. Ne recano tracce ancora più evidenti due brevi del 26 marzo e del 16 luglio 1448 che autorizzavano il M. ad agire a nome del papa in questioni relative alla città di Bologna.
Nel maggio 1449 si verificò una scissione tra i sostenitori di Sante Bentivoglio. Giovanni Fantuzzi e Romeo Pepoli, abbandonata Bologna con numerosi seguaci e l'aiuto di truppe aragonesi, occuparono Castel San Pietro e vi si attestarono, pronti ad assalire la città. Dichiaravano di agire in difesa dei diritti del papa, minacciati dal primato sempre più incisivo di Sante Bentivoglio. Questi e i seguaci rimastigli fedeli, consci della gravità della situazione, assoldarono Astorre Manfredi e predisposero piani per riconquistare Castel San Pietro. L'incertezza sull'esito di uno scontro e soprattutto sulle reali intenzioni del papa indusse Sante e i suoi a temporeggiare e, moltiplicando le manifestazioni di fedeltà a Niccolò V, a cercare di togliere agli avversari la loro più forte arma ideale. Nel dicembre 1449, a perorare la causa di Sante Bentivoglio, furono inviati a Roma il M. e Gaspare Ringhieri e alla fine di gennaio il M. vi tornò con Niccolò Sanuti. Anche in questo caso è difficile valutare il peso che tali missioni ebbero nella decisione di Niccolò V di appoggiare il Bentivoglio. La scelta del papa fu comunque in questa direzione e il cardinal Bessarione, legato pontificio, giunto a Bologna nel marzo, la rese esplicita. Al M., che aveva chiaramente operato per tale soluzione, non mancarono i riconoscimenti: il 16 apr. 1450 il cardinal Bessarione gli confermò i diritti sui beni confiscati ai Canetoli per un valore di 5500 lire, già attribuitigli da Eugenio IV, e il 3 dicembre Niccolò V gli concesse in enfiteusi la metà di un mulino a Castel Bolognese, di proprietà del Comune di Bologna.
Il 2 nov. 1452, a Bologna, nella sua casa in parrocchia di S. Sigismondo, il M. dettò il testamento. Disposti legati per la figlia Ginevra, la moglie Margherita e il figliastro Antonio di Pietro d'Aristotele, designò eredi universali i figli legittimi Achille, Virgilio, Ludovico, Ercole e Pirro. Morì pochi giorni dopo e il suo corpo fu sepolto nell'arca di famiglia nella chiesa cittadina di S. Giacomo.
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