DELLA VOLPE, Galvano
Nacque a Imola il 24 sett. 1895, secondogenito del conte Lorenzo e di Emilia Scali. Ufficiale di cavalleria negli anni della prima guerra mondiale, si laureò in filosofia all'università di Bologna con R. Mondolfo nel dicembre 1920.
Dapprima supplente di filosofia al liceo "Dante Alighieri" di Ravenna (1921-22), tenne poi dal 1925 al 1938 la cattedra di storia e filosofia al liceo "Galvani" di Bologna. Conseguita nel 1929 la libera docenza in storia della filosofia moderna, la esercitò presso l'ateneo bolognese; vinse nel 1938 il concorso per la cattedra di storia della filosofia presso la facoltà di magistero dell'università di Messina, dove insegnò dal 1939 e fu preside della facoltà nel 1940-42.
Dopo iniziali interessi per la filosofia del diritto documentati da alcune recensioni (1922-23), il D. aveva espresso nel suo primo libro, L'idealismo dell'atto e il problema delle categorie (Bologna 1924), un'adesione nient'affatto pacifica, anzi sostanzialmente inquieta, alla variante gentiliana del neoidealismo. Immobilizzarsi "nella lettera dell'attualismo" (Opere, I, p. 38) avrebbe comportato, con la perdita delle "differenze empiriche" del "mondo della natura" e di quello "storico-sociale o morale" (ibid., pp. 18 s.), l'impossibilità di risolvere "il problema metafisico del moltiplicarsi dell'uno" (ibid., p. 22).
D'altronde già nel 1929, con Le origini e la formazione della dialettica hegeliana, I, Hegel romantico e mistico (1793-1800), edito a Firenze, il gentilianesimo dell'autore sembra esaurirsi nella dedica del libro a Gentile, direttore della collana dstudi filosofici in cui esso uscì. Analizzare minuziosamente sui testi la genesi e i primi sviluppi della dialettica hegeliana attraverso l'incontro fra tardo illuminismo e protoromanticismo nel giovane Hegel, e soprattutto sottolineare i lati "misticizzanti" di quella dialettica, erano cose che, all'epoca, perlomeno mal si accordavano con il chma vuoi del neohegelismo ufficiale italiano, vuoi dei trionfalistici edifici filosofici speculativi refrattari alla filologia. Il libro, pur nei suoi inevitabili limiti a rivisitarlo oggi, 'si collocò, quando apparve, all'altezza della produzione europea. Non ebbe attuazione il progetto dell'autore di svolgere in un secondo volume l'analisi dei testi hegeliani del periodo 1801-11.
Eterodosso rispetto all'ambiente idealistico fu poco dopo anche Il misticismo speculativo di maestro Eckhart nei suoi rapporti storici (Bologna 1930), del quale uscirà a Roma, con altro titolo - Eckhart o della filosofia mistica -, un'edizione molto rimaneggiata nel 1952.
Al monismo autocoscienzialista che si crogiolava nei suoi fasti risultò abbastanza scomodo trovar ricostruita nella "grande mistica filosofica" da Plotino a Lutero la linea degli antenatì, e veder documentate le fonti teorico-storiche remote, in ultima analisi teologiche, dell'emarginazione dei diritti del discreto o molteplice. Che poi proprio in tale emarginazione risiedesse l'insostenibilità epistemica dell'idealismo era la convinzione che il D. andava maturando. Uscire da quelle secche comportava lavorare sui "principi" della logica in vista di una funzionale complementarità fra l'estensibilità o fungibilità generalizzata delle astrazioni e la loro contemporanea capacità di connotarsi in guisa specifico-concreta.
Un avvio di soluzione venne al D. dallo studio di Hume. Pur entro una metodologia storiografica ancora idealistica, i due densi volumi su La filosofia dell'esperienza di Davide Hume (Firenze 1933-35: snelliti poi nella riedizione Hume o il genio dell'empirismo, ibid. 1939) furono l'originale utilizzazione della "positività del molteplice" (dei "senso o sentimento in genere") come coelemento materiale nella sintesi gnoseologica razionale' e come chiave adatta non solo a fare i conti con la m etafisica dell'idealismo classico, ma anche a neutralizzare i rischi di una metafisica dell'empirico. L'opera, intesa a restituire con "filologia critica" la filosofia humiana tradizionalmente "impacciata dalla grande ombra di Kant" (Opere, II, p. 11), analizza nel primo tomo gli aspetti logico-gnoseologici dei testi di Hume, nel secondo le concezioni morali, politiche, religiose e storiografiche del filosofo. Poiché Hume rappresenta "il primo passo decisivo verso una coscienza speculativa della scienza moderna" e una "conferma critica delle intuizioni metodologiche di Galileo e di Newton" (ibid., p. 163), il D. ne desunse un'indicazione pure per il proprio programma filosofico, "inteso ad evitare la sterilità a cui conduce infine quella eccessiva tendenza unitaria e semplificatrice con cui si annuncia entro di noi la sempre rinnovantesi minaccia del dogmatismo della ragione" (ibid., p. 438).
Con la monografia su Hume termina la fase dei lavori espressamente storiografici del Della Volpe. Senza soluzione di continuità si apre il periodo successivo, di studi pronunciatamente teoretici e definibile come neocriticista.
Proprio contro vari rischi di "dogmatismo", già avvertiti in sede humiana, si volsero infatti subito i Fondamenti di una filosofia dell'espressione (Bologna 1936), un libretto di critica dell'estetica crociana e che nella fascetta pubblicitaria recava la scritta "Anti-Croce". Senonché l'alternativa al Croce non era Gentile, bensì quella di far uscire tanto l'estetica quanto la "filosofia in generale" dal bivio di dover essa "o stare con chi distingue troppo (ossia empiricamente) o stare con chi unifica troppo (ossia astrattamente)" (Opere, III, p. 17).
Pur parlando ancora, in termini idealistici, di una "vita dello spirito", l'autore la vede adesso come "espressione del sentimento", ovvero come "qualificazione e però unificazione del sentimento - del molteplice - nell'idea" (ibid., pp. 17 s.). In sede specificamente di estetica vengono perciò affermate, in distanza sia da Croce sia da Gentile, la "positività" del sentimento e una concezione dell'arte come "unità sintetica o indiscriminata del molteplice" (ibid., p. 35).
L'impostazione venne precisandosi e ampliandosi nella prolusione messinese del 2 febbr. 1939: Ilproblema dell'"esistenza" in Aristotele, Hume e Kant e il suo rapporto con quello estetico (Palermo 1939).
Il D. definisce qui la sua ricerca teoretica "una filosofia dell'esistenza o finità, compiutamente critica per la conversione ... dell'esistente nel sensibile puro e nella sua logica, ch'è la non-contraddizione" (Opere, III, pp. 172 s.), intesa non come un principio della ragione formale, bensì come la condizione trascendentale della molteplicità esistenziale. Se da Aristotele a Kant l'esistente "ontologico" si è progressivamente trasvalutato a esistente "sensibile" ed "estetico", ovvero a valore prevalentemente gnoseologico e fenomenologico, si apre con ciò la possibilità di una metafisica dell'arte come una filosofia dell'esistente fondata con compiutezza critica.
A quest'ambito appartengono anche interventi minori (1940-43) del D. su varie riviste del fascismo, fra cui soprattutto il Primato, dove teneva la rubrica "Taccuino del filosofo". In particolare nel dibattito intorno al romanticismo accesosi sul Primato, si oppose alla proposta di un "nuovo romanticismo" perch'esso avrebbe da un lato svilito la moderna e necessaria "civiltà della tecnica" e ridato fiato, dall'altro, a una concezione dell'arte come misticismo estetico il quale, affidato a una pretesa intuizione cosmica dell'indistinto, separa l'arte dalla storicità del mondo e degli interessi quotidiani.
A supporto stava la tematica consegnata all'operetta Crisi critica dell'estetica romantica (Messina 1941), rielaborazione del saggio su Nietzsche e i problemi di una estetica antiromantica (ibid. 1941), poi ripubblicata con modifiche e aggiunte (Crisi dell'estetica romantica, Roma 1963). In dieci paragrafi, a forma di "rassegna inquisitoria di autori e posizioni dottrinali" (Opere, III, p. 392), il D. vi esamina le posizioni estetiche di Croce, Gentile, Baratono, Banfi, Carlini, Bo, Heidegger, Jaspers e Nietzsche, e del romanticismo in genere. L'assunto era che la crisi di quest'ultimo "non può risolversi che in un ritorno della indagine' estetica a quell'ispirazione critica originaria", cioè kantiana, "da cui prese le mosse di fatto il romanticismo, per poi allontanarsene in una direzione dogmatica (di una metafisica mistica)" (ibid., p. 60). Di Nietzsche venivano rivalutati sì, in questo contesto, taluni aspetti "antiromantici", fra cui quello dell'arte come "azione, passionalità senza "catarsi" o purificazione teologica" (ibid., p. 105), ma nel contemPo il D. avvertiva quanta "concezione romantica del senso come pura unità o infinità" permanesse tuttavia in un Nietzsche che, "svalutando per principio l'intelletto", era rimasto indietro rispetto a Kant nelnon riconoscere che alla "problematica dell'arte" appartiene il "problema dell'intelletto" (ibid., p. 91), non disgiungibile da quello del senso.
La presenza dell'intelletto e dei valori discorsivi nell'opera d'arte è un tema che ricomparirà negli sviluppi successivi dell'estetica dellavolpiana. Intanto però l'autore stava per giungere a nuove acquisizioni in sede di studi di logica.
Nel 1942 usciva a Messina l'opera maggiore del periodo neocriticista del D., la Critica dei principî logici.
I principi logici sono quelli del platonismo antico e moderno irretito nel concepire la conoscenza del sensibile o (tradizionalmente) "non essere" come una conoscenza inferiore, di secondo grado. Fa eccezione Kant, il quale, nella sua critica a Leibniz (come il D. mostra nel primo capitolo), aveva in qualche modo intuito che il sensibile entra a far parte della sintesi intellettuale come un autonomo coelemento positivo. Hegel invece non solo regredì al leibnizianismo, ma lo combinò, aggravandolo, con la concezione romantico-mistica del senso e il disprezzo dell'intelletto. A il tema del secondo capitolo, la cui ultima sezione contiene poi un inedito elemento nuovo, destinato in seguito a prosecuzioni teoreticamente feconde. Il D. vi acquisiva, per la difesa dei diritti del sensibile, sia i rilievi critici di Aristotele alla dialettica idealistica di Platone, basati sulla teoria della "sostanza prima" o sostrato materiale-esistenziale del giudizio, la quale indirizza il principio di non-contraddizione verso un'interpretazione ontologica, sia gli spunti che nello stesso Platone, quando è "autocritico", provengono dalla sua concezione che il "non essere" non è "il nulla", bensì "l'altro dall'essere". Il problema della dialetticità della ragione diventa allora quello della "tauto-eterologia", ovvero del tener ferme, contemporaneamente, le due istanze del "medesimo" e dell'"altro" reciprocamente complementari: ovvero la funzione unificatrice della ragione non meno di quella della non-contraddittorietà, anzi indispensabilità del sensibile o molteplice materiale, puntuale e discreto. Il giudizio, aveva insegnato il Kant migliore, è una sintesi di eterogenei. Le logiche di Croce e Gentile, criticate nel terzo capitolo, non hanno soddisfatto quest'esigenza.
Nell'Avvertenza al libro il D. diceva di voler "contestare agli idealisti la legittimità del concetto di verità come autocoscienza, e opporre all'esistenzialismo la validità dell'intelletto (criticamente inteso) come la soluzione più coerente dei suoi problemi più schiettamente filosofici". La crisi dell'idealismo, aggiungeva, non è più "all'interno del sistema, nel sistema", ma è "del sistema" (Opere, III, p.137). Ciò restava però soltanto una qualificazione non costruttiva, una ribadita protesta antidealistica in negativo. Dalle contraddizioni interne dell'idealismo (e delle sue varianti esistenzialistiche) il D. aveva insomma spremuto tutte le indicazioni spremibili, non ottenendone però una via d'uscita operativamente praticabile. Questa gli venne dal di fuori, dall'avventura intellettuale del suo incontro con il marxismo cominciata nel 1943-44, e che sarà la sua risposta filosofica alla crisi, appunto, "del sistema".
Sorpreso al Nord nel 1943 dagli avvenimenti bellici dello sbarco alleato in Sicilia e dell'occupazione tedesca, l'anno dopo, aiutato da partigiani romagnoli, riuscì avventurosamente a tornare a Messina, dove riprese l'insegnamento nelle condizioni difficili del momento. Aderi nell'ottobre 1944 al Partito comunista italiano, motivando l'adesione con una "nuova consapevolezza filosofico-critica, cioè sociologico-materialistica" (Opere, VI, p. 519).
Retrospettivamente, nel 1967, il D. farà risalire la sua "ricerca intellettuale "di sinistra" durata più di un quarto di secolo" (ibid., p.303) al Discorso sull'ineguaglianza (Roma 1943), una critica del concetto "i dogmatico-teologico", aprioristico e individualistico della "persona", così come esso è presente in Rousseau e nel giustiaturalismo borghese. In realtà i due primi documenti di un marxismo esplicito dell'autore, nei quali comunque ritornerà quella denuncia dei vizi della "persona originaria", sono La teoria marxista dell'emancipazione umana. Saggio sulla trasmutazione marxista dei valori (Messina 1945: ripubblicata a Milano nel 1964 come seconda sezione di Umanesimo positivo e emancipazione marxista) e La libertà comunista. Saggio di una critica della ragion "pura" pratica (Messina 1946: ristampata a Milano nel 1963).
La prima contrapponeva all'innatismo aprioristico dei diritti umani giusnaturalistici la concezione della persona contenuta in testi marxiani quali i Manoscritti parigini del 1844, Sulla questione ebraica e L'ideologia tedesca, individuando poi come questione etico-politica centrale dell'età contemporanea il problema del rapporto fra democrazia borghese e democrazia socialista. La libertà comunista estendeva la critica antigiusnaturalistica al liberalsocialismo nonché ai "revisori" del marxismo Bernstein, Mondolfò e Croce, analizzando infine la concezione dell'"uomo totale marxiano in quanto persona storica, sociale". Era ancora un Marx letto in chiave di etica filosofica, un teorico principalmente di filosofia morale.Una svolta determinante avvenne, poco dopo, con la scoperta di un altro Marx, l'autore della Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Quando nel 1950 il D. ne pubblicò per le Edizioni Rinascita la traduzione, questa non solo rappresentò un testo su cui per anni s'incentrerà in Italia un dibattito teorico molto in anticipo rispetto al coevo marxismo europeo, ma anche fornì al traduttore l'accesso a un Marx che nella critica dei processi d'ipostatizzazione di Hegel adoperava i principi di una logica materialisfica: esattamente quelli che al D. servivano per riprendere il filo interrotto della sua propria "critica dei principi logici" del 1941-42. L'immediato prevalere di quest'interesse logico-epistemico spiega il fatto ch'egli non si fosse preoccupato di situare la Kritik marxiana del 1843 né nelle circostanze storiche della sua genesi, né nel contesto dello sviluppo di pensiero dell'autore di essa, trattato anzi, con prospettiva falsata, quasi come se Marx già allora fosse approdato al socialismo.
Un tema essenziale il D. scoprì invece nella Kritik, ossia il rilievo marxiano che le astrazioni idealistiche (aprioristiche) di Hegel non sono forme vuote di contenuti, bensì piene di un contenuto empirico particolare camuffato da universale. Per questo motivo, di essere universalità apparenti che nascondono, non mediate, particolarità reali lasciate surrettiziamente sussistere tali e quali, quelle astrazioni non hanno fungibilità scientifica. Il rapporto Marx-Hegel, sottolineava il D., non era di continuità, bensì di rottura.
Cominciate in Per la teoria di un umanismo positivo. Studi e documenti sulla dialettica mistificata (Bologna 1949: e in seconda edizione, Milano 1964, come prima parte di Umanesimo positivo e emancipazione marxista), le considerazioni su questo tema trovarono densissimo sviluppo nella Logica come scienza positiva (Messina-Firenze 1950: riedita nel 1956, ibid., con modifiche e l'aggiunta di una "critica del positivismo logico").
Il D. dichiarava di esser pervenuto "a quella filosofia-scienza di cui i primi fondamenti metodologici sono stati posti da Marx nella sua critica dei processi viziosi dell'idealismo hegeliano nonché in quelli della "metafisica" dell'economia politica" (Opere, IV, p. 283). L'ultimo riferimento era a un altro tema marxiano quì per la prima volta toccato e in successivi scritti approfondito, cioè la teoria delle astrazioni determinate o storiche che nella Introduzione del 1857a Per la critica dell'economia politica Marx contrapponeva alle astrazioni generiche degli economisti classici. Per "fare della logica filosofica una scienza storico-sperimentale" (ibid., p. 553), il D. utilizzò però anche la funzionalità di due altri antecedenti logico-storici per lui essenziali: ossia la già nota problematica Platone-Aristotele, qui ripresa, e (analizzata invece ex novo) la critica galileiana degli apriorismi scolastici in fisica. In Marx lo spirito del galileismo diventa, con l'uso di "astrazioni determinate" applicate alle scienze umane, un "galileismo morale" (ibid., p. 403).
Pur conservando (rifunzionafizzate e/o ampliate) le parti su Kant, Ilegel, Platone e Aristotele della Critica dei principî logici, la nuova Logica spostò l'istanza della "tautoeterologia" verso il lato della ineliminabilità, dal discorso razionale, del dato di fatto materiale in tutti i campi di constatazione (cioè nella realtà sia naturale sia storica). La materialità acquistò la dignità di "principio critico della materia": un principio la cui cogenza il D. postulò, e contrario, dai guasti che, a trasgredirlo, colpiscono la ratio e la rendono incapace di essere strumento di conoscenza (scientifica) del mondo. Fu, questa, la carta teorica con cui ingaggerà le sue successive partite, in logica ed epistemologia, ma soprattutto sul terreno etico-politico e in estetica: che divennero il laboratorio dove applicare via via i risultati delle ricerche logiche.
I saggi che costituiscono il libro etico-politico più noto del D. marxista, Rousseau e Marx e altri saggi di critica materialistica (Roma 1957, e nelle successive edizioni sempre a Roma del'1962 e 1964 accresciuto di integrazioni, chiarimenti e appendici), hanno infatti per tessuto connettivo la nuova logica, come è confermato nella fattispecie da una sezione che ampiamente analizza i testi marxiani di metodologia del 1843-57. Ora proprio la questione degli antecedenti logico-storici di un problema del presente, emersa con forza nella Logica, ebbe a riflettersi anche sul modo di valutare gli apporti recati da Rousseau al tema della democrazia moderna.
La "critica dell'uomo astratto di Rousseau" che apre il volume mantiene sì il già acquisito rifiuto del Rousseau giusnaturalista, nonché dei suoi antecedenti lockiani e conseguenti kantiani. Adesso si prospetta però anche un'"eredità Positiva" di Rousseau, non esaurita storicamente nella rivoluzione borghese e rivalutabile sul "nuovo piano storico" del "socialismo scientifico" (Opere, V, p. 218). È il problema scoperto da Rousseau e ancora da risolvere "del riconoscimento sociale dell'individuo", ovvero il problema della "libertà egualitaria" espressa nell'istanza democratica rousseauiana del "merito" personale garantito dalla "volontà generale" (ibid., pp. 220s.). Esistono insomma "due anime" della democrazia moderna: la "libertà civile" della linea Locke - Montesquieu - Humboldt - Kant -Constant e la "libertà egualitaria" sinonimo di giustizia sociale contenuta in Rousseau e poi in Marx ed Engels. Onde il contrasto fra queste due diverse istanze di libertà è in termini politici quello "fra liberalismo o libertà senza giustizia e socialismo olibertà con giustizia (la libertà egualitaria nel suo sviluppo)" (ibid., p. 488). Come dare nel contesto di quest'ultima - e in concreto nelle società socialiste storiche di dopo il 1917 - una "restituzione discriminativa" alle libertà politico-civili dello "Stato di diritto" liberale la quale non contraddicesse la "libertà egualitaria" divenne il problema che impegnò il D. fino all'ultima pagina scritta della sua vita (Crisi ceca e teoria politica, in Rinascita, 7 giugno 1968, pp. 19s.; Opere, VI, pp. 452ss.).
All'interno della svolta verso il Rousseau "positivo", e verso il problema della trasvalutabilità socialista dì talune libertà di nascita storica borghese, vi fu poi a un certo punto un ulteriore aggiustamento di prospettiva. Nel 1957 la tesi (del liberale Norberto Bobbio) sulla fungibilità del diritto statuale borghese "come complesso di norme tecniche che possono essere adoperate tanto da borghesi quanto da proletari per conseguire certi fini che agli uni e agli altri, in quanto uomini socievoli, sono comuni" era parsa al D. improponibile (Opere, V, p. 484). Nel 1964 la vedeva invece come un'esigenza legittima e che sta nella realtà delle cose, ad es. anche nella "costituzione sovietica 1960, cioè dell'età post-staliniana" (ibid., p. 223). Ma di ciò, soggiungeva, erano da definire appunto le "ragioni profonde e complesse, che non possono coincidere con quelle specifiche dello Stato liberale o democratico-borghese" (ibid., p. 224).
qLa rinnovazione in contesto socialista di norme dello "Stato di diritto", da lui chiamata "legalità socialista", espunge necessariamente dal complesso dei diritti di origine borghese il diritto di proprietà privata dei mezzi di produzione perché "storicamente rivelatosi anti-economico, anti-sociale e disumano, scaduto infine a privilegio" (ibid., p. 271), ma ne deve conservare gli altri, i "diritti o libertà civili", perché fin quando v'è "una società organizzata secondo il rapporto governanti-governati, il principio fondamentale dello Stato di diritto, cioè il principio di un limite del potere dello Stato riguardo alle persone dei cittadini, resta insuperato" (ibid., p. 272).L'attenzione al trasceglimento che un presente storico fa di taluni antecedenti al fine di risolvere suoi propri problemi era legata nel D. del 1962-67 alla ripresa di studi sulla dialettica. Sono gli scritti Sulla dialettica (in Rinascita, 15 sett. 1962, pp. 27 ss.: in occasione di una discussione fra filosofi marxisti su Rinascita nel giugno-novembre di quell'anno), Chiave della dialettica storica (ibid., 8ag. 1964, pp. 19 ss.) e Scorcio della dialettica materialistico-storica (in La Città futura, nov. 1965, pp. 8 ss.: ripubblicato come Dialectica in nuce, insieme alla Chiave ampliata, in Critica dell'ideologia contemporanea. Roma 1967).
In essi ritornava sull'istanza marxiana delle "astrazioni determinate" e, in particolare nella Chiave, sulla necessità che nelle ricerche si parta "sempre da quel "risultato" (d'un processo storico) ch'è il presente o "concreto", o insieme di "generico", o comune ad altre epoche, e di "specifico" e problernatico". (Opere, VI, pp. 291s.), ovvero attinente alle difficoltà e contraddizioni specifiche che un concreto "presente" deve risolvere. Di fronte alla compresenza in un fenomeno storico reale (ad es. la società capitalistico-borghese) di elementi positivi e negativi fra loro incompatibili ("contraddizione interna o problematica"), l'analisi individua un terzo termine (ad es. la società socialista) il quale, come "contraddizione esterna o risolutiva" storicamente opposta all'intera antinomia precedente, sopprime o nega di questa l'elemento negativo, nel contempo conservandone e sviluppandone quello positivo. Nessuna "contraddizione risolutiva" potra comunque pretendere di chiudere la storia. Questa va "all'infinito, di contraddizione problematica in contraddizione risolutiva dialettica - e in sempre nuova o storica contraddizione problernatica" (Dialectica in nuce, in Opere, VI, p. 334), perché a muovere le contraddizioni è via via la realtà dei "bisogni e problemi sociali del presente" (ibid., p. 336), non l'Idea di hegeliana memoria.
Il rifiuto delle astrazioni generiche sotteso a questi temi ispirava anche gli studi di estetica del D. marxista. Un "abbozzo di analisi del giudizio artistico" contenuto nella Logica del 1950 aveva impostato il problema estetico come un problema gnoseologico da sondare alla luce di due positivi antecedenti teorico-storici: ovvero la coincidenza di "vero" e "bello" nell'estetica razionalistica e il kantiano sentimento "senza concetto" (scaduto però nel romanticismo a negative prosecuzioni misticheggianti).
Veniva sottolineata l'istanza che il criterio con cui giudicare l'oggetto estetico non doveva comunque sovrapporsi come aprioristica unità metafisica ai propri "reali storici oggetti (al plurale)" (Opere, IV, p. 592).
A un "abbozzo delle ragioni, o di alcune ragioni, di un'estetica dei mezzi espressivi" (Opere, V, p. 12) era inteso anche Il verosimile filmico e altri scritti di estetica (Roma 1954). Alla polemica contro la visione idealistico-crociana dell'arte si aggiungeva ora quella contro le insipienze del marxismo "volgare" (Plechanov, Lukács), non guidato da appropriati criteri metodologici. Al marxismo occorre invece una ripresa dell'"analisi gnoseologica dei procedimenti tecnico-strutturali o formali dell'arte" che individui "finalmente l'apporto indispensabile ... dell'intelletto all'opera creduta di "pura fantasia"" (Opere, V, p. 63). Un primo passo in questa direzione fu la Poetica del Cinquecento (Bari 1954), un riesame della dottrina aristotelica dell'arte confrontata con i testi di commentatori umanisti cinquecenteschi e affiancata da lunghi commenti del D. sia a quest'ultimi, sia al testo della Poetica di Aristotele.
La dimostrazione dei coesistere e interagire nell'opera d'arte letteraria di razionalità (intelletto) e icasticità (sensibile o immagine) ebbe un punto di forza nell'analisi delle metafore poetiche come "noema-immagine". Impostando infine il problema di ciò che, al di là delle "caratteristiche gnoscologiche elementari" comuni a tutti i discorsi umani, conferisce specificità al discorso poetico, il D. ravvisò tale tratto specifico nella "tecnica semantico-verbale rigorosa al punto da fissare in simboli fonici organici i significati dell'esperienza" (Opere, V, p.133). Il tema dell'"aseità" o autonomia delle produzioni poetiche, dovuta non a metafisiche "forme dello spirito", bensì alla "organicità dei simboli verbali, delle parole" (ibid., p. 133), è qui appena intravisto.
Esso campeggia invece nella maggiore opera di teoria estetica del D., la Criticadel gusto (Milano 1960, e successive edizioni accresciute del 1964 e 1966).
qDopo un primo capitolo di "critica della "immagine" poetica", nel secondo ("La chiave semantica della poesia") egli analizza la specificità semantico-tecnica dell'opera d'arte letteraria funzionalizzando al proprio scopo parecchi risultati della linguistica strutturalista. Il discorso poetico, partendo dal materiale linguistico del discorso comune, compie rispetto a questo uno scarto Semantico: agli elementi denotativi di quella base di partenza conferisce infatti polisense connotazioni aggiuntive via via nuove, diverse da testo a testo epperò sempre riferite a una contestualità determinata. Mondo e storicità, realtà e società entrano perciò nell'opera d'arte non perché procedano con meccanica immediatezza dai contenuti denotativi (come vorrebbero le poetiche del sociologismo volgare), bensì in quanto sono mediati dalla struttura polisensa delle trasformazioni connotative formali. La riuscita di queste ultime è legata alle possibilità tecnico-semantiche di configurazione che, come il D. mostra nel terzo capitolo ("Laocoonte 1960"), variano di "arte" in "arte" a seconda del peculiare sistema segnico di ognuna. Si tratta quindi di individuare il modo tecnico, diverso a seconda delle contestualità e dei sistemi segnici, con cui i discorsi artistici, percorrendo la strada della verità estetica e dunque "non scientifica", forniscono tuttavia anch'essi, ognuno mediante gli specifici complessi di "noema-immagine" che costruisce, una conoscenza del mondo nient'affatto inferiore a quella "scientifica".
Il D. mantenne la cattedra di storia della filosofia a Messina fino al 1965, insegnando per incarico in vari periodi anche estetica, letteratura francese, psicologia e filosofia morale; fu nuovamente preside della facoltà di magistero dal 1962 al 1965.
Morì a Roma, dove risiedeva con la famiglia, il 13 luglio 1968. Aveva sposato Adriana Poggi.
Il D. non lasciò una scuola nel senso accademico e/o dottrinale del termine. Per chi fra la fine degli anni '40 e negli anni '50 aveva aderito (Mario Rossi, Raniero Panzieri, Giulio Pietranera, Nicolao Merker, Lucio Colletti, Ignazio Ambrogio, Umberto Cerroni e altri) alle posizioni del D., si trattò di un'esperienza importante ma non esclusiva, né preclusiva di altri sviluppi: i quali naturalmente influirono poi su chi, fra costoro, ebbe ancora modo, dopo il 1968, di occuparsi del filosofo.
La fase storiografica e neocriticista del D. aveva suscitato echi modesti. L'interesse per l'autore crebbe dopo il 1946, non proporzionato però alle effettive novità introdotte dal D. nel marxismo italiano. La Libertà comunista, testo favorevolmente accolto soprattutto dai giovani comunisti, non diede luogo a dibattiti teorici; né alle ricerche di logica derivate dalla scoperta del Marx metodologico e critico di Hegel fu favorevole l'ambiente culturale marxista di matrice storicistico-hegeliana. Maggiori risonanze vennero dalla partecipazione del D. a dibattiti su riviste: in Nuovi Argomenti sultema della democrazia moderna (1954), in IlContemporaneo sulla cultura filosofica italiana (1955) e sulla cultura marxista (1956), infine l'intervento sulla dialettica nella discussione su Rinascita (1962) fra filosofi marxisti. Questa, a cui parteciparono anche rappresentanti della cosiddetta "scuola dellavolpiana", rese manifesto il divario, nell'area marxista italiana, fra gli storicisti e le posizioni teoriche del D., le quali nella seconda metà degli anni 30 avevano avuto una certa presenza nella rivista Società. A far conoscere il D. più largamente contribuì, in seguito, soprattutto la Critica del gusto che, a differenza di altre sue opere, trovò un'ampia eco immediata nella quale i consensi prevalevano sostanzialmente sui dissensi.
La letteratura sul D. è di tenore disuguale. Tranne pochissimi lavori che hanno tentato di ricostruire l'intero arco di attività del filosofo (M. Rossi, G. D.: dalla gnoseologia critica alla logica stori . ca, in Critica marxista, VI [1968], 4-5, pp. 165-201; 6, pp. 89-124, J. Fraser, An introduction to the thought of G. D., London 1977), gli studi si sono concentrati o sul D. marxista o su singoli settori e temi. Più di recente sembra farsi vivo un interesse specifico per il D. premarxista, cosa comprensibile dato il fatto che l'approdo del filosofo al marxismo avvenne per vie assolutamente originali. L'analisi tanto di queste, quanto dei successivi apporti del D. al marxismo teorico, richiede però che si tengano ben fermi i contesti ideologico-storici precisi entro cui egli ebbe a muoversi. Erano per lui dapprima, alla fine degli anni 130, la crisi di fungibilità scientifica del neoidealismo, e dopo, dal 1944-48in poi, il marxismo nel suo rapporto con Hegel e l'istanza di una dialettica materialistica nelle scienze, particolarmente in quelle sociali. A quei contesti oggettivi (e loro problemi) va quindi commisurata anche la funzionalità degli strumenti concettuali dal D. via via proposti: e che dagli anni '50in poi ebbero un'applicazione di primo piano, politico-teorica e innovativa per quell'epoca, nella definizione dei rapporto fra democrazia e socialismo. Utili sono dunque quegli studi che hanno saputo leggere il D. "con Della Volpe", senza sovrapporre di peso altre vedute e intenzioni alle intenzioni e impostazioni sue dei problemi logicp-gnoseologici, epistemologici e di metodo, etico-politici e di estetica.
Opere. Gli scritti del D. sono interamente editi. Tuttil principali, e molti minori, si trovano raccolti nei sei volumi di Opere, a cura di I. Ambrogio, Roma 1972-73, a cui rinviano le citazioni presenti nel corpo della voce. Su tutti gli scritti del D., comprese le numerose traduzioni, e su tutti gli scritti su di lui fino al 1977informa una rassegna bibliografica ragionata: C. Violi, G. D. - Testi e studi (1922-1977), con una introduz. di N. Merker, Messina 1978 (comprende millecinquantotto schede di titoli).
Fonti e Bibl.: Indicazioni complete fino al 1977sono nella citata bibliogr. di C. Violi. Fra gli scritti successivi sono utili: A. L. De Castris, Croce, Lukács, D. - Estetica ed egemonia nella cultura del Novecento, Bari 1978, pp. 139-204;M. Modica, L'estetica di G. D. - Marxismo, linguistica e teoria della Ittteratura, Roma 1978; R. S. Bufalo, La "positività del molteplice" negli scritti storiogr. di G. D., in Quaderni dell'Istituto Galvano della Volpe, Messina, II (1979), pp. 55-87; J. Fraser, Ilpensiero di G. D., Napoli 1979 (la cui ediz. inglese è del 1977); G. Prestipino, I valori etico-politici e il metodo di G. D., in Critica marxista, XVII (1979), 3, pp. 15-43; C. Natali, G. D. e il principio di non-contraddizione, in Riv. critica di storia della filosofia, XXXVI (1981), I, pp. 89-100; E. Romagna, Sistema e ricerca in G. D. - Sviluppo dell'estetica dellavolpiana, Napoli 1983; R. S. Bufalo, La forma del sentimento. L'estetica premarxista di G. D., Roma 1984.