GIARDINO, Gaetano
Nacque a Montemagno (Asti) il 25 genn. 1864 da Carlo e da Olimpia Garrone.
Entrato nell'esercito appena diciassettenne, fu nominato sottotenente nell'8° bersaglieri il 4 sett. 1882 e poi promosso tenente l'11 ott. 1885. A venticinque anni, come molti degli ufficiali più intraprendenti ed economicamente meno dotati, si recò nei nuovi possedimenti d'Africa che, nel 1890, avrebbero assunto il nome di Colonia Eritrea. Vi rimase insolitamente a lungo, sino all'estate del 1894.
Colà si mise in evidenza per le sue doti organizzative e di preparazione professionale militare (nel 1893 compilò un regolamento d'istruzione tattica per le fanterie indigene). Il fatto d'armi più importante cui partecipò fu la presa di Cassala (17 luglio 1894): ne riportò una medaglia d'argento e, di fatto, la promozione a capitano (19 sett. 1894). Né la medaglia né l'esperienza sul campo accelerarono, però, più di tanto la sua carriera.
Tornato in patria, dopo qualche tempo intraprese anche gli studi presso la scuola di guerra, dove riportò buone votazioni, passando dalla fanteria al corpo di stato maggiore. Ma la carriera continuava a scorrere, per il G. come per gran parte degli ufficiali del tempo, ugualmente lenta: la promozione a maggiore arrivò il 29 sett. 1904 e quella a tenente colonnello il 1° luglio 1910. A quella data svolgeva le funzioni di capo di stato maggiore della divisione di Napoli. La sede, probabilmente, insieme con la preparazione coloniale maturata in Eritrea, contribuì però alla sua fortuna. L'anno successivo, allestendosi la spedizione in Libia che proprio da Napoli doveva salpare, il G. vi partecipò come sottocapo di stato maggiore del corpo di spedizione.
L'incarico non era di immediata visibilità, ma l'esperienza fu importante e non solo organizzativa. Il 4 genn. 1912, in un momento di stallo delle operazioni militari e in una fase di insoddisfazione da parte del presidente del Consiglio G. Giolitti e delle autorità politiche per la lentezza con cui procedevano le operazioni militari, il G. fu inviato a Roma dal comandante della spedizione, C.F. Caneva, per svolgere un'importante missione diplomatica, presentando le ragioni e le giustificazioni relative alla condotta del corpo di spedizione, e conferendo direttamente con le più alte cariche politiche. Al termine della riunione, anche se certo non solo per merito delle doti retoriche del G., un comunicato della Agenzia di stampa Stefani annunziava come, almeno per il momento, il governo fosse "pienamente d'accordo con il comandante in capo, nel quale ripone completa fiducia".
La doppia esperienza, coloniale e di stato maggiore, aveva irrobustito il carattere militare del G. e lo aveva spinto - come non pochi ufficiali del tempo - su posizioni politiche antigiolittiane. Negli anni successivi all'impresa di Libia arrivò la promozione a colonnello (4 genn. 1914) e l'incarico a capo di stato maggiore del IV corpo d'armata. Lo scoppio della Grande Guerra e la partecipazione a essa dell'Italia, ora guidata da A. Salandra e S. Sonnino, fornirono al G., cui si era aperta la via per la nomina a generale, l'occasione di un'ascesa sino a quel momento imprevedibile: da allora egli doveva diventare una delle figure più rilevanti, se non più influenti, dell'intera gerarchia militare e giocò, in qualche occasione, un ruolo politico di primo piano a livello nazionale.
Tra il 1914 e il 1916 fu capo di stato maggiore della 2ª armata (con P.P. Frugoni), poi della 5ª, fra l'altro preparando il balzo oltre l'alto Isonzo e lo Iudrio. A riconoscimento dell'attività svolta, che incontrò il pieno favore del comandante supremo L. Cadorna - cui il G. fu da subito molto vicino -, arrivò la promozione a maggior generale (18 ag. 1915). Con quel grado, comandante della 48ª divisione, il G. si distinse nella presa di Gorizia, verso S. Marco e sul Vertoiba. Comandante del I corpo d'armata nel 1917, passò presto al XXIV.
Il 5 apr. 1917 Cadorna lo nominava tenente generale. Apprezzamenti e critiche aumentarono, nell'ambiente militare, quando, in occasione della crisi parlamentare del giugno 1917, Cadorna lo propose come sostituto del ministro della Guerra P. Morrone, dimissionario.
L'incarico ministeriale, dal 16 giugno (con la connessa nomina a senatore), aveva portato alla ribalta una figura di militare tecnico, estraneo ai giochi della politica, che a Cadorna doveva per intero la sua ascesa e che era, inoltre, intimamente convinto della bontà della tattica e della globale condotta della guerra da parte del comandante supremo. Nell'espletamento dell'incarico, a partire da quella delicata estate del 1917, il G. confermò questa immagine, cui si aggiunse qualcosa di più, a giudicare dalle vociferazioni di vaghi progetti, più che veri e propri piani, di un complotto finalizzato ad arrestare V.E. Orlando per mettere il G. a capo di un governo "militare" ispirato da Cadorna. Fatto sta che, forse non a caso, lo stesso B. Mussolini su Il Popolo d'Italia aveva esplicitamente espresso simpatia per l'operato del G. come ministro.
In questo clima politico, pochi giorni prima del fatale 24 ottobre, il G. affermò dal suo scranno ministeriale che il fronte era sicuro e che non si prevedevano attacchi nemici di rilievo forse sino alla primavera successiva. All'indomani della rotta di Caporetto il governo Boselli si dimise (il G. ricevette fra l'altro il saluto e il ringraziamento del Popolo d'Italia).
Come ebbe a dichiarare qualche mese più tardi alla commissione d'inchiesta su Caporetto, per il G. - come del resto per Cadorna -, le motivazioni dell'episodio andavano ricercate nel cedimento morale delle truppe, dovuto al disfattismo provocato dal fronte interno. A chi, come F. Martini, lo avvicinò nei mesi immediatamente successivi alla rotta il G. parve preoccupato per il "profondo disprezzo in cui il nemico che tante volte vincemmo oggi ci tiene" (4 nov. 1917) e per il fatto che all'interno dell'esercito "i sobillamenti continuano" (30 nov. 1917), e pronto a criticare, o quanto meno a lasciare criticare, il nuovo comandante supremo A. Diaz (18 genn. 1918). Tanta verbosità critica, però, non ingannava un fine conoscitore come il giornalista L. Barzini il quale, scrivendo a G. Albertini, così liquidava il G.: "mi pare debole" (12 nov. 1917).
Ma Caporetto (nella cui "preparazione" il G., in effetti, non aveva responsabilità dirette se non quelle politiche generali in quanto ministro) non lo fermò: dopo l'allontanamento di Cadorna il G. divenne vicecapo di stato maggiore (con P. Badoglio secondo vicecapo), rappresentando la continuità con il passato cadorniano (ed esiste una documentazione secondo cui il Consiglio dei ministri valutò anche l'ipotesi di sostituire Cadorna con Emanuele Filiberto di Savoia duca d'Aosta, nominando vicecapi di stato maggiore Diaz e il Giardino).
Da subito gli spazi di manovra non furono ampi per il G. che, peraltro, dovette trovarsi a disagio nel nuovo comando supremo che tanto voleva differenziarsi dal precedente, a lui così caro. Inoltre Badoglio, pur più giovane, assunse su di sé l'intero compito di riorganizzazione dell'esercito.
Avvenne, dunque, che il G., già nel febbraio 1918, fosse allontanato dal comando supremo e inviato a Parigi per sostituire Cadorna come rappresentate italiano presso il Consiglio militare interalleato: incarico formalmente di grande prestigio, ma i cui i margini d'azione erano, ancora una volta, assai ristretti (e non a caso presentò le sue dimissioni appena un paio di mesi più tardi). Al ritorno in Italia il G. assunse l'incarico militare cui doveva restare definitivamente legata la sua immagine negli anni a venire: il comando dell'armata del Grappa, con il controllo di uno dei punti più delicati dell'intero fronte italiano. La 4ª armata, a lui affidata, non solo giocò un ruolo di rilievo nel tenere la posizione strategica assegnatale, ma seppe reagire all'offensiva austriaca del 15 giugno 1918 (che in un primo momento aveva rischiato di metterla in ginocchio); quindi, consolidato il proprio morale nei mesi successivi, partecipò, pagando un alto prezzo, alla finale "battaglia" di Vittorio Veneto.
Nelle settimane immediatamente precedenti il presidente del Consiglio Orlando, nelle more frapposte da Diaz all'offensiva finale, aveva pensato di sostituire Diaz con il G.; poi, verso il 19 ottobre, aveva sollecitato direttamente quest'ultimo a non tardare a prendere l'offensiva nel suo settore, temendo che la guerra potesse concludersi senza una vittoria italiana sul campo.
Oltre alla strategia e alla tattica militari vere e proprie, il G. reinterpretò a suo modo, con una forte dose di paternalismo militaresco, il nuovo corso postcadorniano nel trattare la truppa, sviluppando una potente, spregiudicata e durevole retorica populista sui "suoi soldatini" dell'armata del Grappa: una retorica al solito assai apprezzata anche da Mussolini, che ne scriveva compiaciuto sul Popolo d'Italia già il 29 giugno 1918. Inoltre, una parte dell'opinione pubblica liberale e conservatrice guardava a lui come a uno dei migliori fra i generali italiani che avevano condotto la guerra.
Il dopoguerra consacrò definitivamente la figura del G., ormai assurto ai più alti vertici della gerarchia militare (il 21 dic. 1919 fu nominato fra i cinque generali d'esercito), componente di quell'aeropago militare che era il Consiglio d'Esercito (istituito il 25 luglio 1920), nonché comandante designato d'armata.
Tale notorietà - in fondo dovuta al comandante del Grappa e a uno dei generali di Vittorio Veneto, e comunque ribadita dal G. con i suoi frequenti, e spesso roboanti, interventi in Senato - non era sempre accompagnata per la verità da programmi chiari, carenza cui il G. sopperiva, nel clima d'incertezza del dopoguerra, con una costante intonazione autoritaria e antiprogressista, quando non proprio filofascista. Ma più ancora dell'adesione a uno schieramento politico, era la sua piena adesione alle più retrive e chiuse tradizioni militari a connotarlo. Nell'ambiente militare, però, questo era un titolo di merito tanto che, nel giugno 1921, si parlò di lui come di un possibile ispettore di fanteria (una carica tecnica inferiore solo a quelle di ministro della Guerra e di capo di stato maggiore).
Altro segno del suo prestigio e dell'importanza che gli veniva attribuita è il frequente ricorrere del nome del G. in gran parte, se non in tutte, le voci di complotto e di colpo di Stato che, fra 1919 e 1922, andarono diffondendosi in Italia. Di fatto è difficile pensare a un G. - il quale, per quanto assai critico della politica liberale era pur sempre un militare di antica tradizione - che architetta complotti in prima persona. Più probabile che egli venisse coinvolto, e fosse lusingato dal farsi coinvolgere, in progetti altrui: lo stesso Mussolini scriveva a G. D'Annunzio, il 25 sett. 1919, favoleggiando di un colpo "repubblicano" che avrebbe dovuto "dichiarare decaduta la monarchia" sostituendola con un direttorio composto dal vate, dal G., da E. Caviglia e da L. Rizzo. Più in generale, comunque, il nome del G. era un punto di riferimento per i fascisti più oltranzisti, insieme con quelli del duca d'Aosta, di Caviglia e di P. Thaon di Revel.
All'epoca della marcia su Roma il G. era comandante di armata di Firenze, nel cui territorio era compresa la capitale, ed è quindi probabile che il re lo abbia contattato (sia pur telefonicamente) per saggiare le reazioni dell'esercito. L'ascesa al governo di Mussolini gli fruttò subito un primo incarico pubblico, a riprova dei contatti precedenti: un'inchiesta sullo stato della guardia regia, che il capo del fascismo voleva abolire. Il che avvenne proprio sulla base dei risultati dell'inchiesta dal G. condotta in poche settimane. Fra tutti quelli assegnatigli dal nuovo governo il ruolo di maggior prestigio fu, comunque, quello di governatore della città di Fiume, ricoperto in un momento delicato, prima della definitiva annessione della città all'Italia (dal 17 sett. 1923 sino al maggio 1924), e che prevedeva il compito di "tutelare l'ordine pubblico" mentre si riavviavano le trattative diplomatiche con la Jugoslavia. Nel 1924 il G. fu nominato ministro di Stato.
In seguito, però, intervennero rapporti meno idilliaci: nell'autunno-inverno 1924-25, quando il governo manifestò l'intenzione di mettere in pericolo la tradizionale autonomia dell'esercito, si verificò una crisi di notevoli proporzioni nei rapporti fra fascismo e forze armate, segnatamente in seguito al tentativo di far approvare il progetto di ordinamento militare (che dal proponente ministro A. Di Giorgio prendeva nome) e il disegno istitutivo della Milizia volontaria di sicurezza nazionale (MVSN). In questa circostanza il G. assunse un ruolo di assoluto rilievo e le argomentazioni da lui svolte in Senato e nel Consiglio d'Esercito contribuirono senz'altro a far ritirare il primo progetto e a ridimensionare il secondo.
Durissimi furono i discorsi del G. contro Di Giorgio, prima in Consiglio d'Esercito (settembre-novembre 1924) poi in Senato (31 gennaio, 30 marzo e 2 apr. 1925), e contro il disegno sulla MVSN (4 dic. 1924), al punto da costringere Mussolini (discorsi del 5 e del 9 dic. 1924) a repliche dure rivolte personalmente al G.; in realtà questi, che pure così veementemente lo aveva contestato, non pare abbia mai seriamente osteggiato il governo fascista. Ritirato l'ordinamento Di Giorgio e ridimensionate le pretese sulla MVSN, gli stessi documenti parlamentari testimoniano che il G. si avvicinò a Mussolini affermando "Eccellenza, Lei ha salvato l'esercito!" (2 apr. 1925).
Da allora, a livello politico e personale, Mussolini e il regime furono prodighi di onori al G.: gli affidarono incarichi formali di prestigio (in Senato relazionò sulla legge di ordinamento militare che seppellì l'ipotesi Di Giorgio, 1° marzo 1926) e fu nominato, come Cadorna e Diaz, maresciallo d'Italia (17 giugno 1926), grado che sostituiva il precedente di generale d'esercito. Ma di fatto non fu più preso seriamente in considerazione per cariche di reale peso politico. Consapevole di aver perso un suo ruolo e di aver favorito la nascita e l'assestamento di un regime che lo metteva ora da parte pur coprendolo di allori, il G., nel 1927, si ritirò a Torino.
Nel dicembre 1929 riceveva il prestigioso collare dell'Ordine dell'Annunziata e, a parte qualche mugugno (se c'è da credere al Diario di Caviglia almeno in qualche occasione avrebbe criticato Mussolini), si adattò col tempo al ridimensionamento del suo effettivo ruolo pubblico. Peraltro, da qualche tempo la sua figura era andata appannandosi anche all'interno del mondo militare: il comandante del Grappa (al pari di molti altri suoi coetanei e colleghi) non teneva il passo con le innovazioni militari, rimanendo fermo alla difesa della dottrina militare della Grande Guerra, come sostenne anche in Rievocazioni e riflessioni di guerra (I-III, Milano-Verona 1929-30).
Su un punto, però, il G. poteva svolgere, e svolse, un ruolo che corrispondeva contemporaneamente alle sue propensioni populistico-autoritarie, al personale desiderio di autoglorificazione e alle necessità propagandistiche del regime: la creazione e il mantenimento del mito delle battaglie del Grappa (dove aveva pubblicamente espresso il desiderio di essere sepolto); quale ex comandate dell'armata del Grappa, egli svolse un ruolo decisivo anche nelle scelte relative alla costruzione del sacrario, consacrato il 22 sett. 1935 alla presenza del re, e nei periodici raduni di massa colà tenuti.
Forte del seguito ottenuto da queste operazioni, fondamentali ai fini dell'organizzazione di un consenso al fascismo quale regime uscito dalla Grande Guerra, il G. difese accanitamente, in parte fondandosi su documenti e in parte anche travalicandoli, l'operato della sua 4ª armata contro chiunque volesse ridimensionarlo o annullarlo. Peraltro, di norma, a parole il G. non affrontava mai la questione in termini di difesa personalistica ma la presentava in forma populistica, affermando di voler reagire a tutte le "affermazioni lesive dei miei soldati del Grappa".
Il G. morì a Torino il 21 nov. 1935.
Fra gli scritti del G. si ricordano: Piccole faci nella bufera (1918-1923), Milano 1924; 15 giugno 1918. A cavallo del Brenta, Torino 1933; si vedano inoltre su La Rassegna italiana i seguenti saggi: XL (1934), La sorpresa delle armate italiane nel giugno 1918 e Le sorprese della storia nella battaglia del giugno 1918; XLI (1935), Il fronte del Grappa e la documentazione austriaca (15 giugno 1918) e L'armata del Grappa nella battaglia del giugno 1918 (conclusione storica).
Fonti e Bibl.: E. Canevari, La guerra italiana. Retroscena della disfatta, Roma 1948, I, passim; E. Caviglia, Diario (aprile 1925 - marzo 1945), Roma 1952, passim; V.E. Orlando, Memorie, a cura di R. Mosca, Milano 1960, p. 571; P. Pieri, L'Italia nella prima guerra mondiale, Torino 1965, ad indicem; R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, 1885-1920, Torino 1965, ad indicem; F. Gerra, L'impresa di Fiume, Milano 1966, pp. 60, 162; A. Gatti, Caporetto, a cura di A. Monticone, Bologna 1964, ad indicem; G. Rochat, L'esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini (1919-1925), Bari 1967, ad indicem; F. Martini, Diario 1914-1918, a cura di G. De Rosa, Milano 1968, ad indicem; L. Albertini, Epistolario 1911-1926, a cura di O. Barié, I-IV, Milano 1968, ad indicem; P. Melograni, Storia politica della Grande Guerra, 1915-1918, Bari 1969, ad indicem; P. Pieri - G. Rochat, Pietro Badoglio, Torino 1974, ad indicem; P. Pieri, La prima guerra mondiale, 1914-1918. Problemi di storia militare, a cura di G. Rochat, Roma 1986, ad indicem; G. Pieropan, 1914-1918. Storia della Grande Guerra, Milano 1988, pp. 183, 295 e passim; F. Fucci, E. De Bono. Il maresciallo fucilato, Milano 1989, pp. 39, 45 e passim; L.E. Longo, F.S. Grazioli, Roma 1990, ad indicem; P.P. Cervone, Enrico Caviglia, l'anti Badoglio, Milano 1992, p. 106; L. Tuccari, I governi militari della Libia (1911-1920), Roma 1994, pp. 62 s.; L.E. Longo, Profili di capi militari italiani tratteggiati da uno di loro, in Studi storico-militari 1994, Roma 1996, p. 554; L. Vanzetto, Monte Grappa, in I luoghi della memoria, a cura di M. Isnenghi, Roma-Bari 1996, ad indicem.