TESTI, Fulvio
TESTI, Fulvio. – Nacque a Ferrara, dove fu battezzato il 23 agosto 1593, da Giulio, speziale originario del contado ferrarese, e da Margherita Calmoni.
Ebbe come fratelli Costantino, che fu predicatore domenicano e vescovo di Campagna, Domicilla e Valerio. Rimasto vedovo, al principio del 1598, il padre si impiegò come cortigiano presso gli Este a Modena, dove Testi ebbe dai gesuiti la sua prima formazione, poi completata negli atenei di Bologna e di Ferrara.
A Bologna si avvicinò alla poesia sotto il magistero di Claudio Achillini, suo docente all’Università, e fece il suo debutto in giovanissima età, con due epigrammi in latino, nell’accademia degli Ardenti, nella quale entrò grazie a Girolamo Bisaccioni, padre di Maiolino, divenendo poi anche membro degli Intrepidi di Ferrara. Le precocissime Rime (Venezia 1613), pubblicate maldestramente da Giovan Battista Ciotti, furono dedicate ad Alfonso III d’Este con un sonetto prefatorio di Achillini e racchiudono alcuni componimenti già presenti alla spicciolata nel Parnaso de’ poetici ingegni (Parma 1611) di Alessandro Scaioli, testimoniando uno stadio primordiale della poesia testiana: vi prevalgono petrarchismo e concettismo, stilizzati in rapporto alla predicazione multipla della donna.
Non fu l’accademia, però, lo spazio nevralgico di Testi ma la corte, dove egli entrò ufficialmente nel 1612 come copista del segretario ducale, segnalandosi subito per l’ambizione personale, tesa forse a riscattare le umili origini, e per il temperamento sanguigno e competitivo. Dal dicembre del 1614 all’aprile dell’anno successivo egli soggiornò per la prima volta a Roma dove strinse amicizia con i conterranei Alessandro Tassoni e Giuseppe Fontanelli. Il soggiorno romano fu interrotto da uno spostamento a Napoli, ma non appare plausibile l’incontro in questa occasione con Giovan Battista Marino, ipotizzato da Girolamo Tiraboschi sulla base di un sonetto d’omaggio al poeta partenopeo (Tiraboschi, 1780, p. 13). Con quest’ultimo il rapporto fu peraltro controverso, come dimostra la polemica insorta a proposito dell’idillio Lidia abbandonata. Accusato di plagio nella Lira, Testi imputò a Marino, nella introduzione alle Rime del 1617, di aver spacciato come composizioni originali traduzioni da poeti stranieri. La sua vena di polemista investì nello stesso periodo anche gli intermedi di Giovan Battista Guarini all’Alceo di Antonio Ongaro, da lui criticati per la veste linguistica cruscante. Il loro editore Ottavio Magnanini, venutone a conoscenza, gli rispose sotto pseudonimo con una inedita prosetta satirica (Ferrara, Biblioteca Ariostea, Mss., cl. I, 175, c. 12).
Intanto Testi andava formando un gusto letterario ibrido, in cui si mescolavano il petrarchismo concettistico d’area bolognese (Achillini e Girolamo Preti), l’omaggio e poi l’avversione al paradigma mariniano, l’avvicinamento al classicismo della Curia pontificia, divenuto à la page fra i letterati estensi dopo la devoluzione di Ferrara, l’ostilità anticruscante, forse trasmessagli dall’amico Tassoni. Tornato a Modena il 5 ottobre 1614 Testi strinse in matrimonio, combinatogli dal padre, Anna Leni, dalla quale ebbe sette figli, di cui quattro viventi: Giulio, anch’egli letterato, Jacopino, monaco cassinese, Valeria, andata in sposa al residente estense a Napoli, e Costantino. Del 1615 è un viaggio a Milano, da considerarsi la sua prima missione diplomatica, dal momento che Testi si recò lì, in compagnia dell’amico Fabio Scotti, per esprimere al governatore la contrarietà di Modena alla fortezza erigenda dai lucchesi sul confine con lo Stato estense.
Nel 1617 Testi diede alle stampe (Modena, Cassiani) la seconda edizione delle Rime, innovativa per l’attenuazione del paradigma petrarchistico, ora riconvertito in chiave moraleggiante (forse anche nella scia delle recenti Considerazioni dell’amico Tassoni sui Rerum vulgarium fragmenta) e per l’inserimento dell’argomento civile ed encomiastico. A causa della dedica a Carlo Emanuele di Savoia, ostile alla Spagna, le copie della raccolta furono sequestrate pochi mesi dopo l’uscita, con la condanna di stampatore e autore. Al di là dell’enfasi patriottica attribuita all’episodio dai biografi sette-ottocenteschi, i provvedimenti punitivi furono in realtà dovuti, più che a un diretto intervento censorio delle autorità iberiche, a una sorta di autotutela preventiva del duca Cesare. Esonerato dal pagamento di una multa, Testi fu però costretto a scontare nove mesi di confino nella villa paterna di Fredo, sino all’ottenimento della grazia, ricevuta il 5 febbraio 1618 dopo una supplica in versi ad Alfonso III e una richiesta ufficiale di perdono a Cesare. Divenuto frattanto noto per le sue rime politiche (il poemetto Il pianto d’Italia, circolante adespoto con varie intitolazioni e oggetto di un acceso dibattito attributivo a fine Ottocento) e per il suo antispagnolismo politico, ma non letterario (sintonizzato in ciò con l’amico Tassoni, di cui gli furono assegnate le Filippiche), Testi si attirò per tale motivo il rimprovero di Maiolino Bisaccioni. Con quest’ultimo egli si era già aspramente confrontato, inserendosi in una polemica fra Bisaccioni e Tassoni, tornando poi a questionare con lui, sotto falso nome, in un libello perduto, a cui Bisaccioni aveva replicato con una Lettera (s.n.t., 1617).
Riconciliatosi con l’establishment estense vi collaborò prima con incarichi minori poi con ruoli sempre più importanti, diventando gentiluomo di camera di Cesare l’11 luglio 1619. Un mese dopo (ma il severo processo istruttorio si era svolto nei mesi precedenti) egli ricevette a Torino l’onorificenza dei Ss. Maurizio e Lazzaro. Per la sua concessione, determinanti furono l’intercessione del cardinale Alessandro d’Este e le referenze del prediletto fratello Costantino, che espose a Carlo Emanuele I il sentimento filosabaudo del proprio germano, già rispecchiatosi nella raccolta del 1617 e irriso dall’amico Tassoni in un luogo, poi non accolto, della Secchia rapita (II, 30). Accresciutosi così il suo prestigio in patria, Testi fu impiegato da Cesare come segretario, bibliotecario e archivista. Nell’autunno del 1620 fu di nuovo a Roma, verso cui provò fortissima attrazione, ma anche disincanto: vi ritornò infatti a più riprese nel 1625, nel 1627, nel 1629, fra il 1632 e il 1633, in qualità di ambasciatore residente, e a metà del 1635 per curare diversi affari suoi personali o per conto degli Este. A Roma Testi entrò in contatto con la società mondano-letteraria del posto, di netto orientamento classicistico, trascorrendo, ospite nella villa tiburtina del cardinale Alessandro d’Este, serate accademiche in compagnia di letterati e artisti (Gabriello Chiabrera, Maffeo Barberini, Giovanni Ciampoli, Virginio Cesarini, Agostino Mascardi, Gianlorenzo Bernini) e fece forse parte dell’Accademia dei Fantastici. Di Mascardi, che Testi tentò invano di scalzare dal ruolo di segretario del cardinale, fu rivale, mentre si sentì vicino a Cesarini per la condivisa adesione ai principi della letteratura barberiniana, attestata da uno scambio di versi. Ammaliato dall’ambiente romano Testi provò segretamente a impiegarsi presso potenti famiglie cardinalizie, ma allacciò trattative clandestine anche con i Savoia. Proprio mentre il passaggio a Torino sembrava realizzarsi con il consenso degli Este, il 14 agosto 1623 arrivò la nomina di Cesare a segretario di camera, che legò Testi ancora alla corte modenese. Il ricordo di Roma trova un corrispettivo letterario in un incompiuto ‘dramma tragicomico’, l’Arsinda (uscito postumo nel 1652), concepito a emulazione del coevo Tiburno di Mascardi, con cui ha in comune, oltre all’ambientazione tiburtina, anche la celebrazione dell’origine romana della famiglia estense.
Nella ricerca affannosa di collocazioni alternative, spesso spiegata sulla base di letture psicologistiche o moralistiche, c’è in realtà il sintomo della crisi del letterato primosecentesco alle prese con la trasformazione della propria identità, codificata peraltro da una trattatistica sul ‘savio’ a corte e sul ‘segretario’ coeva e contigua a Testi. Del resto, la stessa corte è trasfigurata anche nelle Poesie liriche (Modena 1627) come una dimensione distopica, in una raccolta che supera lo sperimentalismo e l’eclettismo della prima fase creativa, sino ad allora praticati da Testi su generi in linea con la sensibilità estense: balletti, epitalami, componimenti misti (l’Alcina, una tragedia a lieto fine di matrice ariostesca, scritta nel 1626 e pubblicata dieci anni dopo), epica (gli Amori di Pantea, tentativo incompiuto di epos ricavato dalla Ciropedia di Senofonte), poesia licenziosa (un capitolo In lode della vaccina, sulla pederastia; i frammenti superstiti indirizzati al musico concittadino Bellerofonte Castaldi; alcuni sonetti berneschi). Nella prefazione alle Poesie liriche si identifica per la prima volta, invece, un filone lirico-moderato che unisce antichi e moderni (da Pindaro a Orazio, passando per Chiabrera, Ciampoli, Cesarini e Urbano VIII), con l’auctoritas oraziana assunta quale punto di mediazione tra barocco e classicismo. Il tema amoroso vi permane, accanto ai soggetti morali e allo spunto tragico-lugubre delle ‘sepolcrali’ per Cesarini e per Félix Lope de Vega, attraverso il filtro nobilitante e classicistico degli elegiaci latini, secondo una configurazione metrica che ora predilige odi e canzoni ricalcate sull’alcaica oraziana.
Le Poesie liriche, più volte ristampate (1637, 1644), ebbero nel 1645 l’aggiunta di una Parte seconda, nella quale Testi rigettò tutta la versificazione anteriore al 1627; e poi di due altre parti postume, una Terza (Modena 1648), a cura dei figli Giulio e Costantino, e una Quarta (1656). Caratterizzate dalla medesima inversione di gusto, però sul piano dell’epos che Testi non avvertiva come genere troppo affine, sono anche le più tarde prove, incompiute e postume, del Costantino, esaltazione della leadership di Francesco I sotto le vesti dell’imperatore romano, e dell’India conquistata, sull’occupazione spagnola della Penisola Malacca: da affiancarsi al poemetto tripartito sugli «accidenti occorsi a un cavaliere maiorchino» (Parte seconda delle Poesie liriche, Venezia 1666, pp. 193-206) e all’embrionale Avanzo d’un poema dramatico, esse costituiscono, infatti, un superamento dell’epos romanzesco-avventuroso, rintracciabile nei giovanili Amori di Pantea, a favore del poema di impianto virgiliano ed eroico-tassesco.
Morto il padre nel febbraio del 1628, Testi si recò in quell’anno due volte a Torino (dove era già stato nel 1619 e ritornò nel 1631 e nel 1635) per prepararvi la visita ufficiale di Francesco I, di cui fu precettore e consigliere. Confermato da quest’ultimo nell’incarico di segretario di Stato ricoperto già in precedenza con Alfonso III (ma di fatto svolto ufficiosamente anche per Cesare), Testi contribuì all’azione di rilancio del ducato modenese voluto dal nuovo principe, con il quale il rapporto fu osmotico, ma non privo di contrasti. Si giustifica proprio con la fiducia accordatagli da Francesco I, che gli procurò non poche antipatie, il prodigioso accumulo di incarichi e di negoziati nel corso degli anni Trenta, alcuni dei quali molto delicati, funzionali a garantire la salvaguardia del piccolo Stato estense sullo sfondo di vicende storiche complesse (la guerra del Monferrato, quella dei Trent’anni). Sempre a suo agio nelle trattative con i vertici della coeva diplomazia nazionale ed estera Testi risultò in realtà pienamente organico a quell’élite intellettuale-politica, con il suo annesso apparato di prassi, riti ed etichette, che discendeva dal Cortegiano di Baldassare Castiglione, al punto che sembrano da ridimensionare nettamente gli impulsi ribellistici e gli atteggiamenti ambivalenti di alcune sue lettere e poesie. Nel 1630 egli fu, infatti, prima residente presso la corte cesarea, ove ritardò l’insediamento per la perdita della moglie (ma cercò invano, poco dopo, nuove e convenienti nozze), poi legato a Mantova e inviato a Venezia e in Dalmazia; nel 1631 di nuovo in missione diplomatica, oltre che a Torino (due volte), a Milano, ancora a Venezia, dove rischiò il naufragio, a Vienna per l’affare dell’acquisto di Correggio (vi scrisse una Relazione dell’Allemagna) e poi a Roma, presso il papa; nel 1633 a Venezia e a Roma come residente (dal novembre del 1632 sino al settembre del 1634, con brevi interruzioni): qui, oltre a infatuarsi della virtuosa Leonora Baroni, si destreggiò con sagacia fra l’ambasciatore spagnolo e quello francese, occupandosi della questione relativa all’erezione di una fortezza in Modena, avversata dal pontefice. Nel 1635 Testi fu per la terza volta a Torino, a perorare presso Vittorio Amedeo I il progetto della fortezza, al centro di un difficile maneggio diplomatico (ne è ragguaglio una sua Relazione) e per l’ennesima a Roma, dove risolse, a favore degli Este e con il permesso della Spagna, la faccenda del principato di Correggio (ma non quella della fortezza modenese, nonostante le sue blandizie letterarie dirette a Urbano VIII). Sempre nel 1635 ricevette la nomina ad ambasciatore straordinario presso la corte di Filippo IV di Spagna e, in attesa di imbarcarsi, fu a Genova, dove incontrò nuovamente Chiabrera. A Madrid giunse, dopo un viaggio periglioso, nel marzo del 1636 e vi rimase sino al principio del 1637, anno in cui, dopo aver superato una grave malattia, ottenne la carica di consigliere di Stato, e poi fu ancora a Roma, cercando di impalmare con un Barberini la figlia di Francesco I, prima di essere inviato di nuovo nella capitale spagnola per preparare la visita ufficiale di quest’ultimo. Qui indirizzò nel 1636 un discorso a Filippo IV e rimase sino al maggio del 1639, ottenendo l’onorificenza della commenda dell’Innojosa e di San Jago e distinguendosi per uno stile di vita alquanto opulento.
Intensificata l’attività diplomatica a scapito di quella letteraria, ora messa al servizio del suo ruolo pubblico e orientata principalmente verso celebrazioni di personalità ed eventi dell’attualità storica, Testi fu autore soprattutto, in questi anni, di dispacci, pareri, relazioni e di moltissime lettere, in residue porzioni ancora inedite (per un carteggio con Virgilio Malvezzi, in Archivio di Stato di Bologna, Malvezzi - Lupari, 369-372, cfr. Carminati, 2007, p. 373; a Malvezzi Testi fu unito, peraltro, dall’ammirazione per il conte duca d’Olivares, da lui esplicitata in più luoghi: lettere, un memoriale, un’ode). Tuttavia, è l’intero corpus epistolare (oltre duemila missive, alcune delle quali cifrate: cfr. Lettere, 1967), notevole anche per gli aspetti stilistico-letterari, a lumeggiare, lungo un vasto arco cronologico (1609-46), eventi militari e politico-diplomatici, ambienti cortigiani, personaggi storici, viaggi, ma anche risvolti privati e frequentazioni intellettuali, pur se piuttosto scarni vi appaiono, nel complesso, i dati sull’attività creativa.
Desideroso di quiete, Testi chiese e ottenne, dal novembre del 1640 sino al febbraio del 1642, il governatorato della Garfagnana, dove, al riparo dalle invidie cortigiane, riprese a dedicarsi alla poesia e agli affari familiari, preparando il matrimonio del figlio Giulio: la sua dimensione di uomo pubblico torna a riaffiorare comunque in alcune lettere di riflessione pedagogica sulla institutio principis del figlio di Francesco I (Lettere, cit., III, nn. 1459-1460, pp. 212-217). Ottenuta nel 1642 l’affiliazione alla petroniana Accademia dei Gelati, Testi tenne però un atteggiamento antibolognese durante la guerra di Castro, che fu anche l’occasione per il suo rientro a corte come protagonista di due missioni diplomatiche a Milano e a Parma.
Ricollocato nuovamente (dal settembre del 1642) negli incarichi di segretario e consigliere di Stato, nonostante gli evidenti segni di stanchezza dimostrati da lettere e poesie coeve, il 27 gennaio 1646 fu però tratto in arresto per motivazioni oscure e variamente motivate dai biografi (talora in modo fantasioso), ma forse riconducibili al suo avvicinamento alla monarchia francese, avvenuto tutto sommato in coerenza con la sua giovanile (e poi spesso dissimulata) avversione anti-iberica e con la sua idea di un moderno principato assolutistico, da lui di volta in volta individuato nelle varie espressioni della classe dirigente del suo tempo. Dopo innumerevoli oscillazioni, il rapporto con gli Este, di nuovo gravitanti intorno all’orbita spagnola, si chiudeva così per sempre rovinosamente, ma è inattendibile la notizia del suo assassinio in carcere per ordine di Francesco I, che pare fosse pronto a un gesto di clemenza.
Testi morì nel carcere di Modena il 28 agosto 1646, perché colpito, invece, da violenta e persistente piressia e fu sepolto nella chiesa di S. Domenico.
Le misteriose circostanze della scomparsa contribuirono ad accrescerne la fama già romanzesca, anche se non sempre in modo benevolo (caricaturato ancora in vita nel Principe Nigello di Guidobaldo Benamati, è presentato post mortem, nel Tribunal della critica di Francesco Fulvio Frugoni, come uno scaltro versipelle). Divenuto immeritatamente un emblema di cattiva cortigiania, dopo una vita intera passata a corte, la sua ricezione come letterato risultò per questo, nel corso del Seicento, condizionata in patria, ma si radicò in Francia, forse anche favorita dall’epilogo della sua vicenda biografica, in virtù di una serie di suoi imitatori poetici (François Maynard, Gilles Mènage, Urbano Chevreau). In Italia il nome di Testi si rivalutò, viceversa, nel Sette e nell’Ottocento, quando fu riconosciuto come un’icona antibarocca da parte di lettori illustri, quali Vincenzo da Filicaia, Girolamo Tiraboschi, Giacomo Leopardi e Giosue Carducci, sul piano letterario; mentre su quello politico venne accolto al contempo, in forma contraddittoria e impropria, come segnacolo patriottico e stereotipo del diplomatico di età spagnola (a lui Alessandro Manzoni si sarebbe ispirato per il personaggio del Conte Zio nei Promessi sposi).
Fonti e Bibl.: G. Tiraboschi, Vite, Modena 1780; poco aggiungono le successive biografie di E. Massano (Firenze 1900) e A. Zamboni (Torino 1939). Su Testi letterato, A. Belloni, Il Seicento, Milano 1947, pp. 124-141; M. Castagnetti, F. T. e il suo classicismo barocco, Palermo 1969; M. Saccenti, Libri e maschere del Seicento italiano, Firenze 1972, pp. 117-165; A. Beniscelli, La mediazione «oraziana» di F. T. nella lirica classicistica del Seicento, Casale Monferrato 1984; C. Jannaco - M. Capucci, Il Seicento, Padova 1986, pp. 251-261; M.L. Doglio, T., F., in Dizionario critico della letteratura italiana, IV, Torino 1986, pp. 298-302; G. Getto, Il Barocco letterario in Italia, Milano 2000, pp. 123-151; F. Pevere, «Mirti amorosi» ed «eterni lauri»: forme del petrarchismo nella poesia di F. T., in Petrarca in Barocco, a cura di A. Quondam, Roma 2004, pp. 123-149; M.L. Doglio, T., F., in Dizionario biblico della letteratura italiana, Milano 2018, pp. 954-959. Su Testi epistolografo, M.L. Doglio, Intorno alle lettere edite e inedite di F. T., in Lettere italiane, XVI (1964), pp. 425-444; Lettere, a cura di M.L. Doglio, I-III, Bari 1967 (con un’importante Nota critica, III, pp. 613-633; un regesto di sessanta lettere tratte dal primo volume è, a cura di L. Ghelfi, nell’archivio digitale di Archilet: http://www.archilet.it/, ad vocem, consultato il 7 maggio 2019); G. Ottone, Sullo stile epistolare di F. T., in Aevum, XLIV (1970), pp. 486-493; L. Varini, Lettere inedite di F. T. a Ottavio Bolognesi (1630-1645), in Studi secenteschi, XII e XIII (1971-1972), pp. 368-441 e 291-358; M. Castagnetti, L’epistolario di F. T., in Studi secenteschi, XIV (1973), pp. 13-50; G. Folena, Scrittori e scritture. Le occasioni della critica, Bologna 1997, pp. 103-114; C. Carminati, Geografie secentesche. Appunti per le carte di Virgilio Malvezzi, in Studi secenteschi, XLVIII (2007), pp. 355-379; L. Ghelfi, F. T. scrittore di lettere, in Le lettere sono immagini di chi le scrive, a cura di R. Ferro, Sarnico 2018, pp. 221-246. Sul profilo dell’uomo di corte e del diplomatico, meno illuminato di quello del letterato, dopo gli studi eruditi di fine Ottocento e inizio Novecento (D. Perrero, G. De Castro, R. Salaris, V. Santi e altri), cfr. ora G. Signorotto, Diplomazia e prestigio dinastico. F. T. e la ripresa della reputazione estense, in Modena estense. La rappresentazione della sovranità, a cura di G. Signorotto - D. Tongiorgi, Roma 2018, pp. 1-42.