fronda
È vocabolo esclusivo dell'uso poetico, con numerose occorrenze. La tradizione manoscritta conosce anche la fronde (per Rime CVI 134 e Pg XXX 68) e le. frondi (per If XIII 4 e 141); queste varianti non sono però state accolte né dalla '21 né dal Petrocchi.
Specialmente al plurale ricorre con il valore di " foglia ": Rime C 40 le fronde / che trasse fuor la vertù d'Ariete; If XIII 4; Pg XXVIII 10 Un'aura dolce... / per cui le fronde, tremolando, pronte / ... piegavano a la parte / u'..., e XVIII 54; Pd XII 47 in quella parte ove surge ad aprire / Zefiro dolce le novelle fronde. L'unico caso nel quale il vocabolo è usato al singolare con questa accezione è quello di Pd XXVI 137: il linguaggio umano è mutevole come fronda / in ramo, che sen va e altra vene; la similitudine trae origine da un passo di Orazio (Ars poet. 60 ss. " ut silvae foliis pronos mutantur in annos, / prima cadunt, ita verborum vetus interit aetas, / et iuvenum ritu florent modo nata vigentque / ... si volet usus "). Del resto, è questo un concetto che D. espone anche in Cv II XIII 10 (certi vocabuli... certe construzioni sono in uso che già non furono, e molte già furono che ancor saranno: sì come dice Orazio nel principio de la Poetria quando dice: " Molti vocabuli rinasceranno che già caddero "), in questo caso - anzi - esplicitamente richiamando l'autorità dell'Ars poetica (vv. 70-71).
Sia al singolare che al plurale è usato con il significato di " ramoscello con foglie ", spesso con una sfumatura preziosa che non è nel sinonimo ‛ frasca ': cfr. Rime CIII 16 come fior di fronda, / così [la donna] de la mia mente tien la cima; If XIII 141 lo strazio disonesto / c'ha le mie fronde [il cespuglio in cui è racchiusa l'anima dello scialacquatore] sì da me disgiunte, quelle fronde sparte che D., mosso a pietà, ‛ rauna ' (XIV 2). Un ramoscello d'alloro è quasi concordemente ritenuta la verde fronda (Pg XXIX 93) di cui sono coronati i quattro animali apocalittici scorti da D. nel Paradiso terrestre; i più dei commentatori vi vedono un simbolo dell'imperitura freschezza dei Vangeli, dei quali gli animali sono figure; per il Lana, invece, essa simboleggia la speranza della salvezza, e questa interpretazione è stata ripresa tra i moderni dal Chimenz. A un ramoscello di alloro si allude anche con le perifrasi fronda peneia (Pd I 32) e fronde di Minerva (Pg XXX 68).
In altri casi f. può valere sia " foglia " che " ramo frondoso ": una voce per entro le fronde [dell'albero dei golosi] gridò (Pg XXII 140; cfr. anche XXIV 107); Pd XXIII 1 Come l'augello, intra l'amate fronde, / posato...; XXI 12 fronda che trono scoscende, dove forse prevale il valore di " foglia "; Rime XCV 4.
Passo controverso è Pg XXXII 39. Sia la '21 sia il Petrocchi adottano il medesimo testo: Io sentì' mormorare a tutti " Adamo "; / poi cerchiaro una pianta dispogliata / di foglie e d'altra fronda in ciascun ramo. Questa lezione impone di attribuire a d'altra fronda il valore di " f. fiorita ", " fiori " (ma Mattalia spiega: " gemme, bocciuoli ") e consente di accettare la chiosa, assai convincente, del Buti, secondo il quale la pianta dell'Eden è spogliata, in ogni suo ramo, " del suo frutto [l'altra fronda] ch'era la beatitudine " e " dell'opere virtuose [le foglie] che vegnono dall'umiltà e dall'obbedienza ". Su questa interpretazione sono concordi tutti i commentatori più recenti, nessuno dei quali adotta la lezione con suo ramo che imporrebbe di far dipendere queste parole da altra fronda, anziché da dispogliata suggerendo così una lettura diversa e poco convincente (" la pianta dispogliata di foglie e di ogni altra fronda con tutto il suo ramo "). Per tutta la questione, v. Petrocchi, ad l. e Introduzione 221.
Usato al singolare con valore collettivo, f. può acquistare il significato di " fogliame degli alberi " o anche di " bosco "; la lezione dell'unico passo (If XXIX 131) nel quale ricorrerebbe questa accezione, è però controversa.
Come " fogliame ", in Rime CI 24 non mi può far ombra / poggio né muro mai né fronda verde; Pg XXIII 1, XXXII 86, XXXIII 144; ricorre inoltre nella locuzione ‛ far f. ', " metter su foglie ", usata in Pg I 103 (null'altra pianta che facesse fronda / o indurasse, vi puote aver vita) a proposito del giunco che cresce lungo la spiaggia dell'isola del Purgatorio.
Non concorde è l'esegesi di un passo molto noto delle Rime (CIV 45-51): Poi cominciò: " Si come saper dei, / di fonte nasce il Nilo picciol fiume / quivi dove 'l gran lume / toglie a la terra del vinco la fronda: / sovra la vergin onda / generai io costei che m'è da lato / e che s'asciuga con la treccia bionda ". Il senso complessivo del brano è evidente: Dirittura afferma di aver generato presso le sorgenti vergini del Nilo la seconda delle tre donne venute intorno al cor di D., e cioè quella nella quale, sull'autorità della chiosa di Pietro a If VI 73, la maggior parte dei commentatori vedono la figura dello ius gentium sive ius humanum, vale a dire della giustizia umana distributiva. È ugualmente indubbio che del vinco la fronda sta per " il fogliame dei salci ". Il dissenso verte sulla costruzione sintattica secondo la quale devono essere letti i versi 46-48. Per Fraticelli, Casari, Casini-Pietrobono (nel commento alla Vita Nuova, Firenze 1968³, 187) soggetto di toglie è fronda e oggetto ne è gran lume; in tal caso i versi verrebbero a dire che il Nilo nasce là dove le foglie dei salci tolgono alla terra il gran lume del sole, impediscono cioè alla luce solare di giungere fino al suolo. Questa interpretazione è suffragata da coloro che la sostengono con la credenza, comune agli antichi (ad es. B. Latini; v. Tesoretto 945-974), che il Nilo scaturisse dal Gion, uno dei fiumi del Paradiso terrestre, là dove la divina foresta spessa e viva / ... mai / raggiar non lascia sole... né luna (Pg XXVIII 2, 32-33). A diverse conclusioni giunge invece il Contini. Anche per questo critico deve esser accolta l'identificazione del Nilo con il Gion, come sarebbe comprovato dalla locuzione vergin onda, la quale non può non alludere al Paradiso terrestre; ora, osserva sempre il Contini, " il Diritto delle genti è proprio dell'umanità in quanto non corrotta dal peccato originale, in quanto abbia sede nel paradiso terrestre: questo significa la generazione dei vv. 49-50 ". Lo stesso critico inverte però la costruzione già riferita e legge lume soggetto e fronda oggetto di toglie; sarebbe pertanto il gran lume a togliere a la terra la fronda, o perché le foglie sono distrutte dal calore solare o, più probabilmente, perché la loro ombra è quasi annullata dalla perpendicolarità dei raggi del sole. E si veda anche l'ampia illustrazione che di tutto il passo danno Barbi-Pernicone nel commento alle Rime, p. 588.
Controverso nella lezione è invece If XXIX 131 disperse / Caccia d'Ascian la vigna e la gran fronda. L'accoglimento di questa lezione, secondo la quale la gran fronda sarebbe il bosco dilapidato da Caccia, è generale nelle edizioni (compresa la '21) e nei commenti. Il Petrocchi però ripristina la variante fonda, già nota al Buti e accolta nell'edizione della Crusca; il testo verrebbe pertanto a dire che Caccia aveva dissipato beni immobili (la vigna) e denari liquidi; che fonda, infatti, possa valere " borsa per tenervi i denari " e quindi, per metonimia, " denari ", è documentato da M. Villani Cron. X 28 (" ma poco tempo là durarono per la povertà del Legato, ch'avea l'animo grande e la fonda vota ") e dalla stessa chiosa del Buti (" potrebbe dire lo testo la gran fonda, e allora intenderebbesi dei denari "). Per tutta la questione, v. Petrocchi, Introduzione 185.
Per ulteriore sviluppo semantico, f. può valere " albero "; è questa l'interpretazione più persuasiva (proposta dal Mattalia) che si può dare a Pd XXVI 85 come la fronda che flette la cima / nel transito del vento, e poi si leva / per la propria virtù che la soblima; gli altri commentatori intendono in vario modo: " ramo " o, meglio, " albero fronzuto " (Chimenz), " chioma d'albero " (Porena), " vetta frondosa di un albero " (Pietrobono).
Significa infine, per estensione, " vegetazione " in If XIV 98 una montagna... lieta / d'acqua e di fronde.
In senso figurato f. compare cinque volte nel Paradiso e due nelle Rime. Può essere interessante osservare come gli esempi delle Rime appartengano a canzoni (Poscia ch'Amor, LXXXIII; Doglia mi reca, CVI) per le quali con maggior plausibilità si è supposto dovessero essere commentate nei trattati del Convivio non composti; per questo problema, si veda il commento del Contini alle due canzoni e l'introduzione del Barbi all'ediz. Busnelli-Vandelli (pp. XLVII ss.) del Convivio.
In quattro casi la metafora è suggerita dal fatto che le f. sono le estreme ramificazioni del fusto di un albero, e quindi le più esposte e visibili. Come è detto in Pd XXVII 119, il tempo, che dall'invisibile moto del Primo Mobile trae origine e misura, tiene in colal testo [in quel vaso] / le sue radici e ne li altri [cioè negli altri cieli] le fronde, le sue manifestazioni visibili. Con analogo traslato, in questo caso reso meno ardito dalla tradizionale raffigurazione dell'albero genealogico, Cacciaguida (Pd XV 88) chiama D. fronda sua e afferma di essere la radice del poeta. E usi figurati simili si hanno in Rime CVI 134, Pd XXIV 117.
Contrapposto a ‛ frutto ', espresso o sottinteso, f. indica " modo di apparire ", " manifestazione esteriore ", cui non corrisponde la concretezza delle opere. Così, in Rime LXXXIII 105, dei malvagi è detto che non responde il lor frutto a le fronde; e Carlo Martello assicura D. che, se fosse vissuto più a lungo, gli avrebbe mostrato del suo amor più oltre che le fronde (Pd VIII 57): alle manifestazioni esteriori della benevolenza del principe sarebbe seguita la concessione di benefici tangibili.
Tutta intessuta di motivi biblici è la metafora di Pd XXVI 64-66 Le fronde onde s'infronda tutto l'orto / de l'ortolano etterno, am'io cotanto / quanto da lui a lor di bene è porto. Il versetto di Ioann. 15, 1 " Pater meus agricola est " ha suggerito ortolano etterno, mentre l'immagine dell'orto usata anche in Pd XII 72 come figura della Chiesa, deriva da Cant. 4, 12 e dalla parabola del seminatore (Matt. 13, 24) " qui seminavit bonum semen in agro suo ". All'abbondanza dei riferimenti alla letteratura testamentaria si accompagna il ricordo della dottrina di Pietro Lombardo (Sent. III 27 " Charitas est dilectio, qua diligitur Deus propter se, et proximus propter Deum vel in Deo ") e di Tommaso (Sum. theol. II II 26 6 ad 2 " non omnes proximi aequaliter se habent ad Deum: sed quidam sunt ei propinquiores, propter maiorem bonitatem. Qui sunt magis diligendi ex caritate quam alii, qui sunt ei minus propinqui "). La spiegazione più aderente alle fonti sembra perciò quella del Sapegno: " ortolano etterno è Dio; orto il mondo redento dal Cristo e le fronde, di cui l'orto s'adorna, le creature toccate dalla sua grazia: queste devono essere amate, in proporzione del bene che a ciascuna di esse Dio concede, facendole partecipi in diversa misura della sua bontà ". Questa spiegazione non è però condivisa da tutti; il Mattalia, ad esempio, osserva che " le fronde sono le singole creature, e si dovrà intendere che in questo amore non c'è distinzione o limitazione fideistica, poiché anche negli uomini non illuminati dalla fede può essere perfezione, riflesso della divina luce ". In senso del tutto opposto il Porena chiosa: " amo tutti i componenti la cristianità, tanto quanto essi sono in grazia di Dio ".
Bibl. - C. Casari, Appunti per l'esegesi di una canzone di Dante. ‛ Tre donne intorno al cor mi son venute ', in " Giorn. d. " VIII (1900) 264-284.