ESTE, Fresco (Francesco) d'
Maggiore dei quattro figli nati fuori del matrimonio al marchese Azzo (VIII), signore di Ferrara, di Modena e di Reggio, nacque'nell'ultimo ventennio del sec. XIII, in data e in località a noi sconosciute. Allo stato attuale delle ricerche, la prima notizia cronologicamente sicura in nostro possesso relativa all'E. risale al 1304, anno in cui, secondo quanto registrano le fonti, egli ricevette a Venezia, insieme col padre, nel corso di una solenne cerimonia pubblica, la cittadinanza veneziana e , fu ascritto tra i patrizi di quella Repubblica. Al periodo di tempo compreso tra il 1304 ed i primi mesi del 1307 sono da attribuire le nozze dell'E. con una nobildonna appartenente ad antica e cospicua famiglia bolognese di sicura tradizione guelfa, i Caccianemici "de Ursis" o "Grandi", con la quale gli Estensi avevano da tempo avviato relazioni di amicizia.
La sposa dell'E., Pellegrina, era figlia di Caccianemico Caccianemici, fratello di quel Venedico, noto ancor oggi perché Dante lo ricorda nell'Inferno (XVIII, vv. 40-64), ove lo pone tra ruffiani e seduttori nella prima bolgia dell'ottavo cerchio. Però Venedico fu, nella seconda metà del sec. XIII, figura di spicco nella vita pubblica non solo della sua città, Bologna, ma anche dell'Italia padana. Protagonista nelle lotte intestine fra guelfi e ghibellini, legato per rapporti familiari e personali ai marchesi d'Este, era stato il capo indiscusso della così detta "pars Marchexana", che raccoglieva le forze più intransigenti e faziose dello schieramento guelfo bolognese e che rappresentava, nei Consigli cittadini e della parte, gli interessi e la politica di egemonia sull'Emilia centrorientale promossa dai signori di Ferrara. Il matrimonoio dell'E. con Pellegrina (così come quello della sorella dell'E. Costanza con Lambertino di Venedico Caccianemici, pure celebrato in quel medesimo periodo) rivela - se visto in tale contesto - un suo preciso significato ed una sua precisa valenza. Esso doveva senza dubbio servire a rinnovare e a consolidare gli antichi legami di amicizia e di solidarietà esistenti tra le due famiglie, ma offri certamente all'E. l'occasione e il mezzo per ampliare, allargandolo ai Comuni guelfi vicini e meno vicini, il raggio della sua influenza, mentre continuava a rendere sempre più determinante la sua presenza nella vita politica della sua città.
Le fonti tornano a menzionare l'E. per fatti avvenuti nel 1306, in connessione con la rivolta di Modena, il primo successo di quella vasta coalizione, in cui si erano riuniti per combattere la crescente potenza di Azzo (VIII) i Comuni di Bologna, di Parma, di Brescia, i signori di Mantova, di Padova e di Verona, e perfino un dinasta della casa d'Este, fratello dell o stesso Azzo (VIII), Francesco, postosi alla testa dei fuorusciti di Reggio e di Modena.
Informato che i Modenesi si erano sollevati contro Manfredino da Sassuolo, luogotenente di Azzo (VIII) in quella città (notte fra il 26 e il 27 genn. 1306), l'E., che si trovava dislocato non lontano al comando di reparti di truppa ferrarese, intervenne prontamente, accorrendo in aiuto di Manfredino con 700 cavalieri e 1.000 fanti. Battuto nei primi scontri, l'E., non riuscendo ad aver ragione degli insorgenti, ripiego con una parte dei suoi nel castello, dove si attestò a proseguire la resistenza, in attesa di soccorsi che gli consentissero di restaurare la situazione. Dovette invece arrendersi ai rivoltosi, che lo catturarono e diroccarono il castello. Tra le personalità allora fatte prigioniere si contarono, oltre all'E., Obizzo da Paroalba, Galvano Gaffarini, Bastardino d'Este e lo stesso siniscalco di Azzo (VIII) Giacomo de Baldaria. Quanto ai suoi soldati, "furono presi e spogliati in camisa, e lassati andare. Et se 'l marchese Azzo volse avere gli suoi presoni, convenne che lui rendesse a' Modenesi quelli huomeni che lui aveva detenuti in lo castello Tedaldo, ch'erano della casa da Savignano", annota un cronista coevo (Corpus chronic. Bon., pp. 271 s.).
Riacquistata la libertà in seguito ad uno scambio con alcuni membri della famiglia modenese dei Savignano, presi in ostaggio dal padre e ristretti a Ferrara, nel castel Tedaldo, nel 1307, dopo che Azzo (VIII) ebbe concluso la pace separata con il Comune di Bologna, l'E. ebbe il comando dei reparti estensi inviati a sostenere l'attacco portato intorno alla metà di settembre contro Castel San Pietro e il territorio di Imola dai cavalieri bolognesi di Fulcieri da Calboli, "capitaneus" della città emiliana.
Doveva aver già raggiunto allora, in Ferrara e fuori di Ferrara, un grado di prestigio ed un peso politico, che oltrepassavano di gran lunga le potenzialità connesse con la posizione e il rango derivantigli da una nascita marchiata - è bene ricordarlo - dal vizio di illegittimità. Ce ne accertano non solo il rilievo del suo matrimonio, ma anche la rete di contatti e di relazioni, che per largo raggio - come dimostrarono gli avvenimenti dell'anno successivo - egli era riuscito a creare e a mantenere con le fazioni guelfe e con i gruppi di potere di diverse città dell'Italia settentrionale e centrale. Furono appunto l'autorevolezza da lui acquistata in città, il consenso ed i potenti appoggi alla sua persona trovati presso le potenze della pianura padano-veneta i punti di forza che, dopo la scomparsa di Azzo (VIII), consentirono all'E. di assumersi la pesante eredità paterna e che per qualche tempo - sino a quando, cioè, il deciso intervento del papa Clemente V negli affari ferraresi non portò ad un progressivo sfaldarsi dello schieramento a lui favorevole - gli permisero di fronteggiare con successo la difficile situazione in cui versavano i domini estensi, travagliati dalle armi dei nemici esterni e dalla tenace opposizione, interna promossa dai fratelli dello stesso Azzo (VIII), Aldobrandino (II) e Francesco.
Quando agli inizi del 1308 Azzo (VIII), a causa dell'aggravarsi del suo stato di salute, su parere dei medici decise di raggiungere la località termale di Abano vicino a Padova, col consenso delle autorità municipali e "in merito ipsius domini Azonis" l'E., il 24 gennaio, fu nominato dal podestà di Ferrara, il fiorentino Gerardo Bustici, vicario generale e rettore della città. Per decreto del medesimo podestà fu inoltre stabilito che l'E. doveva succedere al padre - se questi fosse morto - nella carica e nei poteri di signore di Ferrara, con tutte le prerogative inerenti a tale ufficio, compresa la facoltà di designare il proprio successore.
Anche il testamento, che Azzo (VIII) dettò in Ferrara prima della sua partenza per Abano, reca la data del 24 genn. 1308. In esso il signore di Ferrara disponeva innanzi tutto la restituzione ai legittimi proprietari dei beni da lui trattenuti contro il diritto; stabiliva quindi donazioni pro anima in favore di religiosi e di luoghi pii; trasferiva al Comune di Bologna i suoi possessi lungo la Scultenna ed al re di Napoli Carlo II d'Angiò il dominio di Modena e di Reggio; legava cospicui lasciti a Beatrice d'Angiò, sua seconda moglie, ed a personalità del suo entourage. "In omnibus vero aliis bonis nostris, rebus, iuribus et actionibus mobilibus et immobilibus" costituiva suo erede universale, "nostrum universalem heredem instituimus et esse volumus", il nipote Folco d'Este, ancora infante, "legitimo matrimonio natum de egregia domina Peregrina et Frisco, primogenito nostro et eius viro", a condizione che "de bonis et hereditate predicta nichil acquiratur vel acquiri possit dicto Frisco patri".
Alla morte di Azzo (VIII), avvenuta in Este (Padova) nella notte fra il 31 gennaio ed il 10 febbraio dello stesso anno, l'E. assunse il potere, succedendo al padre in forza del decreto podestarile del 24 gennaio precedente e per mandato delle magistrature e dei Consigli municipali, che il 10 febbraio gli attribuirono ufficialmente la carica ed i poteri di signore di Ferrara. Il 2 febbraio, nel palazzo Vecchio in Ferrara, alla presenza delle più alte cariche del Comune e dei cittadini più eminenti, fu data lettura del testamento di Azzo (VIII).
In quella occasione, su richiesta di Pellegrina Caccianemici, moglie dell'E., il podestà Gerardo Bustici ed il giudice del Comune Francesco Maccagnani nominarono "curatores" dei beni ereditati dal piccolo Folco d'Este il miles Corradino Gonfalonieri ed il giudice Buonaugurio, per il quale prestarono malleveria Emanuele Menabuoi, il campsor Vassallo Ludoisio della Torre, Righetto Medici, il campsor Beniacopo e Rigo di Leone Avenanti. Alla presenza di questi ultimi, i due "curatores" fecero in quella medesima giornata l'inventario dei beni contenuti nell'edificio.
Contestazioni a quanto avveniva a Ferrara furono sollevate dagli zii dell'E., Aldobrandino (II) e Francesco. Rimasti esclusi, per deliberazione delle autorità municipali, dalla successione politica in Ferrara e, per testamento del fratello, dall'eredità privata di quest'ultimo, essi mostrarono chiaramente di non volersi acconciare alla nuova situazione. Già il 10 di febbraio si impegnarono reciprocamente "tamquam boni et veri fratres" a dividersi i beni mobili ed immobili, che avevano costituito il patrimonio del padre Obizzo (II) e nominarono un arbitro, il quale dirimesse le contestazioni che sarebbero potute sorgere tra loro nei quattro mesi successivi al momento in cui fossero entrati "in plena possessione vel quasi dominii et iurisdictionis civitatis Ferrarie et districtus". Dichiararono illegittime le successioni dell'E. e del figlio di questo, appellandosi ad un secondo testamento - per altro mai prodotto allora e comunque non pervenuto a noi né in originale né in copia - che, dopo essersi riconciliato con loro, alla vigilia della sua morte Azzo (VIII) avrebbe dettato in Este, annullando il precedente e prendendo disposizioni in loro favore. Fallirono l'intento. Contro il nuovo signore di Ferrara non vi furono - che noi si sappia - né sommosse popolari né prese di posizione da parte dei maggiori esponenti della vita pubblica locale. Aldobrandino (II) e Francesco si volsero perciò a cercare altrove quei consensi e quegli appoggi alle loro pretese, che non erano riusciti a trovare in patria.
Il trapasso dei poteri sembra dunque non aver incontrato serie opposizioni non solo nella città e nel distretto di Ferrara, ma anche nel resto dei domini estensi, i quali - ad onta della guerra in atto e della minaccia rappresentata dai maneggi dei fratelli del defunto signore - appaiono, almeno in un primo momento, saldamente controllati dal nuovo signore e dalle sue milizie. L'anonimo autore dei Chronicon Parmense afferma che ciò fu possibile grazie all'appoggio fornito all'E. dai Bolognesi, "qui Ferrarie tunc iverunt".
La notizia è attendibile. Ce ne accerta non solo la testimonianza delle fonti narrative coeve, ma anche la constatazione che, quando nell'autunno successivo vennero a mancargli la fattiva solidarietà ed il contributo militare della città emiliana, il giovane dinasta non fu più in grado di controllare la situazione, fattasi pesante in seguito all'intervento pontificio, e di sostenere l'urto delle forze nemiche, improvvisamente moltiplicatesi sotto le insegne della Chiesa.
Resta per noi poco chiaro in che cosa sia consistito l'"auxilium populi Bononie", cui accenna il Chronicon Parmense, e quando esso sia stato fornito. Le fonti bolognesi registrano infatti che "meser Francescho figliolo del marchese Azzo tolse la signoria di Ferrara adì primo de febraro, con lo vigore della cittade de Bologna" (ibid., p. 292). Da queste testimonianze si trae piuttosto l'impressione che il Comune di Bologna abbia appoggiato inizialmente col peso della sua influenza, per vie diplomatiche, la presa di potere dell'E., e che solo in un secondo momento sia intervenuto anche militarmente a rafforzarne, contro le opposizioni interne, l'autorità.
Un ruolo importante a sostegno del nuovo signore di Ferrara, sia sul piano diplomatico, sia su quello militare, dovette svolgere anche la Repubblica di S.Marco. Nel timore che un cambiamento radicale nella direzione politica di Ferrara potesse avere ripercussioni negative sui suoi interessi nell'area del basso corso del Po, il governo della Serenissima si affrettò a riconoscere come legittima la successione dell'E. e ad offrire a quest'ultimo l'amicizia e l'appoggio, che aveva in passato concesso al di lui padre. L'E., sebbene a malincuore - troppo forte era la città lagunare e ben note le sue mire su Ferrara -, si acconciò, date le circostanze, ad accettare: le fonti attestano che già nella seconda decade di febbraio truppe veneziane erano dislocate nel Polesine di Rovigo accanto alle genti d'arme dell'Este.
Fin dai primi giorni del suo governo l'E. promosse un'azione diplomatica intensa e di largo respiro, rinnovando i contatti con potenze amiche o suscettibili di divenire tali, ed avviando con quelle, che avevano osteggiato suo padre e si erano coalizzate contro di lui, trattative in vista di un formale accordo di pace con ciascuna di esse. A ciò fu certamente indotto da un duplice ordine di motivazioni tra loro concomitanti: l'urgenza di isolare anche 1 all'estero gli zii Aldobrandino e Francesco, suoi nemici dichiarati, sottraendo loro - come già aveva fatto all'interno - amicizie ed appoggi; e la necessità di por fine a una guerra rovinosa, il cui prolungarsi si sarebbe potuto rivelare, a breve o a medio termine, destabilizzante per il suo stesso regime. La relativa facilità con cui riuscì a respingere ai margini della grande politica gli zii ed indusse alla pace i Comuni e i signori della lega antiestense, lo stesso breve arco di tempo - poco più di un mese - nel quale egli raggiunse questi significativi successi costituiscono una prova ulteriore dell'ampiezza e della consistenza della rete di relazioni che l'E. si era saputo creare negli anni precedenti al suo avvento.
Aldobrandino (II) e Francesco d'Este, visto fallire il loro tentativo di delegittimare la presa di potere dell'E. e di coagulare intorno a loro le forze interne a quello contrarie presentandosi come gli unici aventi diritto all'eredità del defunto signore di Ferrara, nella prima decade di febbraio si rivolsero a Padova, di cui erano - come già il padre loro - cittadini, allo scopo di ottenere aiuti militari per affermare in patria le loro pretese. Offrivano, in cambio, la cessione delle loro proprietà nel contado di Rovigo, in Arquà Polesine, nei luoghi di Salto della Fratta e di Costa, "salvo omni iure in possessione dictoruni locorum" (G. Soranzo, doc. n. 5; cfr. ibid., p. 65). L'interesse con cui la proposta venne accolta dalle autorità padovane è dimostrato da un significativo passo diplomatico da esse compiuto quando i termini dell'accordo con i due dinasti erano ancora oggetto di discussione. Il 17 febbraio esse inviarono ai loro ambasciatori in Venezia istruzioni perché presentassero "domino Venetico et omni genti sue, et genti domini Frischi" una sorta di ultimatum: evacuassero immediatamente le loro truppe "de contrata Arquatae et Frattae" e si guardassero bene dal recare danni o compiere atti ostili nel territorio di Rovigo, nel suo comitato e nell'intero Polesine, "cuin sint Conimunis Paduae" (ibid., p. 69).
Quali siano state le reazioni dell'E. e del governo veneziano a questa presa di posizione di Padova, non sappiamo. Ci risulta invece che, ormai certi dell'appoggio della città amica, Aldobrandino e Francesco si sentirono tanto forti da offrire al signore di Ferrara di discutere un pacifico accomodamento. L'E. non solo respinse la proposta, ma fece ben intendere ai suoi antagonisti che mai sarebbe sceso a trattare con loro. Li accusò esplicitamente, infatti, di aver assassinato Azzo (VIII) soffocandolo. Non possiamo dire se Aldobrandino e Francesco d'Este si fossero sin dall'inizio proposti di prendere realmente le armi contro il nipote; certo è che la dura presa di posizione di quest'ultimo fece precipitare gli eventi. Il 23 febbraio, nel palazzo del Comune di Padova, Francesco d'Este ribadì, anche a nome del fratello, le sue proposte al Consiglio della città euganea e ne, accettò le condizioni: sarebbe stato accolto, insieme con il fratello ed i suoi, come cittadino di Padova; avrebbe potuto circolare - sia pure a certe condizioni - per il territorio del Comune; sarebbe stato difeso, in caso di attacco esterno, dalle autorità municipali e dai loro armati; le autorità municipali avrebbero curato la trasmissione di messaggi, suoi e del fratello, diretti al papa o ad altre potenze.
Francesco aveva sostenuto di parlare anche a nome del fratello Aldobrandino. Invece quest'ultimo si affrettò a sconfessarne l'operato e, rifiutandosi di entrare in possesso dei beni di famiglia con l'appoggio di Padova, non volle riconoscere l'accordo. Il 24 febbraio emancipò i figli Rinaldo ed Obizzo, assegnando loro quanto gli spettava dell'eredità paterna, e si ritirò a Bologna. Il 28 febbraio fu dichiarato ribelle a Padova dai io Savi "super negotiis occurrentibus de partibus versus Ferrarie" e condannato al bando con sentenza del podestà; i suoi beni furono confiscati (G. Soranzo, doc. n. 6).Poco dopo, provenendo dal territorio padovano alla testa di un gruppo di armati, Francesco d'Este ed i nipoti Rinaldo e Obizzo, figli di Aldobrandino attaccarono di sorpresa ed occuparono il castello e il luogo di Fratta Polesine (Rovigo) e vi si fortificarono. Investirono quindi Arquà Polesine e se ne resero padroni, insediandosi nella fortezza. L'E. reagì con prontezza. Mentre si rivolgeva per aiuti militari ai suoi più vicini e potenti alleati, Bologna e Venezia, si affrettò ad inviare nel Polesine un primo contingente di truppa sotto il comando di alcuni dei suoi più stretti collaboratori (tra di essi Bastardino d'Este e il conte Rinaldo di Marcaria). Attestatisi sotto il castello di Fratta, le gepti d'arme del signore di Ferrara subirono una disastrosa sconfitta nel corso di una sortita dei difensori. Travolte nella fuga, morirono insigni personalità come Bastardino d'Este, il ferrarese Righetto Medici, il bolognese Porcatesa Beccadelli. Tra i prigionieri, lo stesso conte Rinaldo di Marcaria. Tuttavia, una volta che ebbe ricevuto consistenti aiuti da Bologna - 800 cavalieri - e da Venezia, l'E. fu in grado di rovesciare la situazione. Il suo esercito, - appoggiato da una flotta fluviale spedita da Ferrara, riconquistò senza difficoltà Fratta e strinse d'assedio il castello di Arquà, dove s'erano precipitosamente rifugiati Francesco d'Este ed i figli di Aldobrandino. La fortezza cadde dopo soli tre giorni di blocco, "propter famem", afferma il Villani, il quile ci informa anche che da essa uscì "dominus Franciscus cum filiis domini Aldovrandini sui fratris, salvo avere [sic!] et personis". Il dinasta sconfitto "dictuni comitem. Raynaldurn restituit et alios captos, quos habebat in dicto castro, eidern donino Frisco et Communi Ferrarie, et ivit in comitatu Padue" (Corpus chronic. Bonon., pp. 293 s.).
Questi avvenimenti., che sono da porsi tra l'ultima settimana di febbraio ed i primi del mese successivo, non dopo comunque il 4 marzo, quabdo nelle Riformagioni del Consiglio del popolo di Bologna vennero registrate le perdite subite dalle milizie bolognesi sotto le mura di Arquà (cfr. G. Soranzo, p. 71 n. 1), valsero a consolidare, non solo all'interno, la signoria dell'E. e a ridimensionare il ruolo di Francesco d'Este e dei suoi nipoti Rinaldo ed Obizzo, che da allora appaiono svolgere nel grande gioco politico la parte di personaggi di secondo piano.Le trattative, che l'E. aveva avviato subito dopo il suo avvento con le potenze della lega antiestense, dovettero procedere molto rapidamente, se già ai primi di marzo il Comune di Padova non solo aveva cessato le ostilità - anche per interposta persona - cc;ntro il nuovo signore di Ferrara, ma appare anche unito a lui da un'alleanza formale, come risulta dalle clausole della pace stipulata il 3 di quello stesso mese tra Ferrara, Verona e Mantova. Quando e su quali basi fosse stata raggiunta l'intesa tra i due antichi avversari non ci è dato sapere a causa del silenzio mantenuto in proposito dalle fonti note. Che essa fosse già operante sul finire di febbraio, ce ne accerta lo scacco, con cui si concluse il colpo di mano contro Fratta ed Arquà allora condotto da Francesco d'Este e dai suoi nipoti Rinaldo ed Obizzo, colpo di mano che pure aveva conosciuto un successo iniziale grazie proprio al sostegno dei Padovani.
Anche le trattative con Verona e con Mantova procedettero senza difficoltà. Il 29 febbraio l'E. nominò suo plenipotenziario per la stipula del trattato di pace con le due città Piero di Ducia. Questi si incontrò il 3 marzo, a Montegrotto, in territorio padovano, con Guido Bonacolsi cittadino tra i più eminenti di Mantova e inviato di quel Comune, e con Alboino Della Scala, capitano generale di Verona, il quale agiva anche come rappresentante del fratello Cangrande.
I convenuti stabilirono che da quel momento in poi fosse pace duratura tra Ferrara, Verona e Mantova; che le potenze da loro rappresentate si risarcissero reciprocamente per i danni fatti nel corso delle operazioni militari; che venissero restituiti i prigionieri; che fosse garantita la libertà dei commerci; che venissero incluse nell'accordo le città che, già nemiche dell'una o delle altre parti contraenti, ne avessero fatto richiesta; che le parti contraenti giurassero di osservare i punti dell'accordo così raggiunto, facendo salva, "per la parte del signore e del Comune di Ferrara, l'alleanza, che essa aveva coi Comune di Padova e con la Repubblica di Venezia" (cfr. G. Soranzo, pp. 71 s.). All'accordo accedettero, nel corso di quello stesso mese, i Comuni di Brescia, di Parma, di Reggio e di Modena (Corpus chronic. Bonon., p. 296).
Secondo quanto risultar dalle fonti, una missione del Comune di Firenze in attesa di ripartire per Ferrara si trovava il 4 marzo - il giorno successivo a quello in cui si era tenuto il convegno di Montegrotto- a Bologna, quando il Consiglio del popolo di quella città deliberò che "dominus potestas Bononiensis cum ... ambaxiatoribus ... Bononie ire debeat Ferrariam cum ambaxiatoribus Communis Florentie ad dominum marchionem Estensem" (Riformagioni, cit. in G. Soranzo, p. 72). Ignoriamo l'oggetto di tale Auplice missione, che dovette ad ogni modo essere di grande rilievo, data l'importanza della persona scelta a capeggiare la delegazione bolognese, che avrebbe accompagnato gli invitati fiorentini. La notizia è di notevole interesse, perché testimonia, da un lato, l'ampiezza dell'azione diplomatica promossa dall'E. nel suo primo mese di governo e costituisce, dall'altro, la prova che il signore di Ferrara aveva cercato sin dall'inizio di allargare la base dei suoi consensiisterni prendendo contatti anche con i Comuni d'oltre Appennino allo scopo evidente di accrescere la sua libertà d'azione e di sottrarsi al condizionamento, cui lo costringeva la soffocante tutela dei suoi maggiori alleati, di Venezia, soprattutto. Del resto, che egli stesse cercando di svincolarsi dalla linea politica perseguita dalla Serenissima nell'area del basso corso del Po e di contrastare la crescente interferenza della città lagunare negli affari ferraresi è dimostrato dal fatto che già nel corso di febbraio a Venezia era stata eletta una giunta di quindici savi per ricercare l'utile della Repubblica "super factis Ferrarie": giunta che era stata prorogata a tutto il mese in corso, segno evidente del persistere della resistenza opposta dall'Este.
Quale fosse la natura di tali "facta", non sappiamo con precisione. Essi dovevano tuttavia essere connessi con la mancata esecuzione di impegni formali in precedenza assunti e con azioni intenzionalmente compiute in danno degli interessi - non solo economici, è da ritenere - di Venezia. Forse si trattava della mancata esecuzione di cessioni territoriali, promesse come contropartita degli aiuti prestati. In un dispaccio di poco posteriore, indirizzato dalle autorità della città lagunare all'E. e al Comune di Ferrara, si parla infatti di legazioni, rimaste "hucusque" senza risultati, inviate "pluries" a Ferrara "pro iis, que fiunt et facta sunt nobis contra pacta, et super quibusdani aliis requisitionibus" (larghi stralci di questo dispaccio in G. Soranzo, pp. 76 s.).
Nonostante le pressioni su di lui esercitate, l'E. proseguì nella sua linea di condotta, senza nulla concedere all'interlocutore. L'11 maggio, infatti, il Maggior Consiglio deliberò la costituzione di una nuova giunta "super factis Ferrarie", che fu eletta il 14 con un mandato di due meSi. Il 28, il governo veneziano inviò nuove lettere all'E. e al Comune di Ferrara, che contenevano un vero e proprio ultimatum: se entro il termine di un mese non avessero mutato atteggiamento, osservando i patti ed accogliendo, "secondo quanto era giusto e conveniente", le altre sue richieste, la Repubblica avrebbe richiamato le rappresentanze diplomatiche e le truppe, che manteneva in territorio di dominio estense, ed avrebbe quindi fatto valere in altro modo il proprio buon diritto. Vi furono in seguito, tra Venezia e Ferrara, altri scambi di dispacci e di ambascerie, ma non si giunse ad una soluzione del contenzioso. La tensione tra le due potenze andò anzi progressivamente aumentando.
L'irrigidirsi dell'una e dell'altra parte sulle rispettive posizioni è senza dubbio da mettere in rapporto con la decisione del papa Clemente V di intervenire nel conflitto. Il 27 aprile, con una serie di documenti datati da Poitiers, il pontefice aveva infatti creato un suo nipote, Ainaud de Palagrue, abate di Tulle (diocesi di Limoges) e cardinale diacono del titolo di S.Maria in Portico, ed il magister Onofrio de Trebis, decano della chiesa di Meaux e cappellano papale, legati apostolici in Ferrara (bolla Romana Ecclesia), attribuendo loro l'autorità ed i poteri per riportare sotto il governo immediato della Sede apostolica quella città e il suo distretto (bolla Cum nuper) e per ottenere la necessaria collaborazione delle autorità civili e religiose (bolla Cum dilectos).
Nella bolla Romana Ecclesia Clemente V, dopo aver affermato che la loro città, antichissimo dominio della Chiesa, era da tempo sottoposta ad altri e ben più duri padroni, invitava i Terraresi a cacciare chi li divorava "sicut escam panis" ed a sottomettersi di buon grado ai suoi inviati. Avvisava che questi aveva ricevuto da lui il potere di far uso - se avessero incontrato opposizioni - di censure ecclesiastiche e di pene spirituali, e di ricorrere persino - se fosse stato necessario - al sostegno del braccio secolare.
Nella bolla Cum nuper conferiva qd Ainaud de Pelagrue e ad Onofrio de Trebis l'autorità sia di dichiarare nulle e di cassare le convenzioni, che i membri della famiglia d'Este avessero fatto col popolo di Ferrara, sia di sciogliere dal giuramento di fedeltà e da altri obblighi, da cui il podestà e il popolo di Ferrara si potessero sentire legati. Autorizzava infine i due legati a chiamare al loro servizio, per il disbrigo degli affari connessi con la loro missione, religiosi di ogni Ordine.
Con la bolla Cumdilectos il papa invitava tutte le gerarchie della Chiesa e tutti gli Ordini religiosi a fornire aiuto e assistenza ai suoi inviati.
Secondo la letteratura storica, che risente in questo della suggestione di una notizia fornita da alcuni cronisti coevi, la decisione di intervenire nelle vicende ferraresi ;arebbe stata presa da Clemente V dopo aver ricevuto messaggi, in cui Francesco d'Este, nella speranza di poter subentrare al nipote nel governo di Ferrara per investitura della Sede apostolica, lo avrebbe denunziato come intruso ed usurpatore dei diritti della Chiesa (intruso, "tyrannus", ed usurpatore dei diritti della Chiesa viene definito l'E. nei documenti pontifici). Questo sarebbe accaduto quando Francesco era rimasto solo, dopo che anche i suoi alleati esterni, smettendo di appoggiare le sue rivendicazioni, si erano accordati con il nuovo signore di Ferrara. Secondo altri cronisti, invece, l'intervento del papa sarebbe stato invocato dallo stesso vescovo di Ferrara, Guido: notizia per altro poco verosimile, perché Guido appare sino all'ultimo tra i più convinti sostenitori dell'Este. In realtà Clemente V, che appare da un lato molto bene informato della situazione ferrarese e, dall'altro, molto addentro nei giuochi della politica italiana, deve essere stato mosso da considerazioni di tutt'altro ordine ad un passo che avrebbe fatto uscire il conflitto dall'ambito strettamente regionale. Più che dalla meschina rivalità tra due dinasti locali per la successione al dominio di una città; più che dalle simpatie per l'uno o per l'altro dei due contendenti - uno dei quali, fra l'altro, ormai destituito d'ogni capacità contrattuale - il pontefice dovette essere mosso dal timore che l'appoggio di Bologna e degli altri alleati guelfi non sarebbe stato sufficiente a garantire l'indipendenza dell'E. e l'integrità dei suoi domini; e che pertanto il conflitto tra l'E. e Venezia si sarebbe necessariamente concluso non tanto con cessioni territoriali, quanto con il passaggio dell'intero Ferrarese sotto l'egemonia veneziana o -addirittura - con la sua annessione da parte della Serenissima. In questo le valutazioni dell'E. differivano radicalmente da quelle del papa, i cui timori nei confronti di Venezia non erano affatto infondati, come il successivo evolversi della vicenda avrebbe dimostrato. Clemente V non poteva dunque non decidere l'intervento in prima persona escludendo ogni altro, se voleva difendere i diritti della Sede apostolica in quelle terre.
I buoni rapporti, che continuavano ad intercorrere tra l'E., Bologna ed altri Comuni d'oltre Appennino sono testimoniati dalla partecipazione di reparti estensi, accanto a contingenti che i cronisti coevi definiscono semplicemente "toscani", all'incursione compiuta dai Bolognesi, il 28 giugno, contro i loro nemici in Castel San Pietro presso Imola. Le fonti non ci riferiscono nulla, invece, circa le relazioni intercorse tra il signore di Ferrara e Venezia nel periodo che andò dalla fine di maggio alla fine di giugno di quel medesimo anno. Siamo tuttavia informati che il 25 giugno il Maggior Consiglio deliberò l'elezione di una giunta di sette savi, "qui debeant examinare de danino et gravamine Marchionis et Ferrarensium, sicut eis cum honore et bono nostro et reparatione iurium nostrorum videbitur" (G. Soranzo, p. 78 n. 1). Sappiamo inoltre che si trovavano allora a Venezia due ambasciatori ferraresi: il Maggior Consiglio disponeva che ad essi si rispondesse "stando firmi super illis III capitulis, quae retraxerunt, et super aliis III etiam sicut alias sibi responsum est" (ibid.). Il 4 luglio il Maggior Consiglio affidò al doge, al suo Consiglio ed alla Quarantia il compito di allestire una flotta da guerra; di renderla operativa dotandola di apprestamenti e di macchine da guerra difensive ed offensive; di provvedere agli interessi ed alla sicurezza della Repubblica. L'8 dette ordine di rispondere ai membri di una nuova legazione ferrarese, in merito alle proposte da essi avanzate, che "si volunt aliud dicere, nos sumus pro intelligere; et, si aliud dicere nolunt. possunt ire et stare, sicut eis placuerit" (ibid., p. 79). Negli stessi termini si era replicato ad Azzo (VIII) quando si era trattato di piegarlo ad accettare le dure condizioni della Serenissima. Il 10, scaduta la precedente, venne eletta la nuova giunta di set. te "super factis Ferrarie". In quel medesimo giorno o nel successivo dovette tuttavia accadere qualcosa di nuovo, che fece precipitare la situazione. Nel pomeriggio dell'11, infatti, il Maggior Consiglio, in seduta allargata al Consiglio dei procuratori di S. Marco, a quello dei patroni dell'Arsenale e alle altre magistrature cittadine, deliberò lo scioglimento della giunta appena eletta, la sua sostituzione con un'altra di venti savi, con mandato di quattro mesi e con l'incarico di provvedere alla tutela dell'onore della Repubblica e di colpire l'E. e il Comune di Ferrara. Il 14 luglio furono eletti i sei savi supplenti; il 16 fu deliberato un prestito di guerra.
Era una vera e propria dichiarazione di guerra. I venti dovevano infatti arruolare truppa, raccogliere armi e viveri, inviare eserciti nel Ferrarese. Avevano inoltre i poteri per avviare trattative con l'E. e per stipulare con lui accordi e convenzioni, che però avrebbero avuto bisogno della ratifica del Maggior Consiglio per diventare esecutivi.
Quali siano state le ragioni di questi drastici provvedimenti, ignoriamo. Forse l'E. aveva fatto pervenire a Venezia un ulteriore rifiuto; forse era giunta notizia della lettera che il papa aveva inviato il 25 giugno al podestà e al Comune di Bologna per esortarli ad appoggiare nella loro missione i legati da lui inviati in Italia per il riacquisto di Ferrara: come contropartita. Clemente V prometteva l'assoluzione dalla scomunica, che il card. Napoleone Orsini aveva lanciato nel marzo del 1306 contro la città emiliana; la conferma al locale Studio degli antichi privilegi e la concessione di nuovi (tali promesse furono di lì a poco ribadite da un altro prelato parente del pontefice, il card. Raimondo de Goth, il quale chiese anche che i Bolognesi arruolassero truppe per i legati).
Non sappiamo, a causa del silenzio delle fonti note, se dopo questi provvedimenti il contrasto tra Venezia e l'E. sfociò effettivamente - come tutte le premesse lascerebbero ritenere - in guerra combattuta né quale fu il teatro delle operazioni militari - se ve ne furono. Sul finire del mese, ad ogni modo, l'E. era già stato costretto a cedere di fronte alla pressione dell'avversario e piegato ad accettare un accordo - se di pace o di alleanza, non sappiamo - alle condizioni imposte dall'antagonista. I termini di tale accordo, che fu sanzionato dal Maggior Consiglio il 10 agosto, non ci sono noti, ma dovettero essere assai pesanti, tali da costituire - o da poter essere interpretati - premessa ad una imminente annessione. Lo dimostra l'accanita resistenza opposta sin'allora dall'E. e dai Ferraresi alle richieste della Serenissima. Lo proverebbe la rivolta che scoppiò in Ferrara, quando il trattato fu reso di pubblica ragione, e che, stando alla testimonianza di cronisti coevi, sarebbe stata causata più dal rifiuto popolare di subire la pesante tutela veneziana e dal desiderio di salvare le autonomie cittadine, che dalla volontà di por fine alla signoria dell'Este.
Intorno alla metà di agosto il popolo, raccoltosi nella piazza del Comune, insorse sotto la guida di Giacomo Bocchimpani al grido di "Libertà! Libertà!". Non riuscendo ad avere ragione del moto, l'E. inviò dispacci e ambasciatori a Bologna, chiedendo aiuti. Il 17 il Consiglio del popolo bolognese accolse la richiesta e, a maggioranza, decise di mandare in soccorso dell'alleato il condottiero catalano Dalmazio de Banholis, con i suoi mercenari, e le milizie cittadine del rione di Porta Ravenna (G. Soranzo, doc. n° 7). Grazie al loro intervento la rivolta venne soffocata: otto dei suoi animatori, tra cui il Bocchimpani, vennero giustiziati; gli altri furono esiliati.
La notizia dell'imminente arrivo del card. Ainaud de Pelagrue e del magister Onofrio de Trebis, diffusasi per l'Italia padana intorno alla metà del mese in concomitanza con la rivolta del Bocchimpani, destò nell'E. preoccupazioni per la stabilità del suo governo e dette nuove speranze ai suoi nemici. Sappiamo infatti che il signore di Ferrara si indusse allora a rivolgersi anche a Venezia, sollecitando l'invio di truppe; ma sappiamo anche che appunto in quel medesimo torno di tempo Francesco d'Este, dopo aver cercato invano un accordo con la Serenissima, prese contatto con i signori di Ravenna, Bernardino e Lamberto da Polenta, ottenendo da loro l'impegno ad appoggiarlo quando avesse ripreso le armi contro il nipote. Un'informativa circa novità, "que significata sunt fieri Ravenne" e "que suspicantur fieri in detrimentum. Marchionis et Communis Ferrarie" (G. Soianzo, p. 83), giunse infatti a Venezia il 19 agosto e convinse quel governo ad accogliere le richieste dell'E. e ad inviare a quest'ultimo un reparto di 200 balestrieri.
I legati pontifici giunsero in Italia intorno alla metà di agosto e si insediarono a Bologna, dove posero la loro base operativa, dando immediatamente inizio alla loro attività.
Informarono il popolo di Ferrara degli scopi della missione loro affidata, notificandogli la bolla Romana Ecclesia. Con ogni probabilità presero contatto con l'E., esortandolo a rimettere nelle loro mani la signoria della città. Scrissero al doge e al governo veneziani, chiedendo che collaborassero con loro per recuperare Ferrara alla Chiesa. Al doge fecero pervenire anche una lettera di Clemente V, in cui il papa sollecitava l'aiuto della Serenissima, diffidava quest'ultima dal sostenere l'E. e dall'interferire in alcun modo nelle vicende del territorio e della città di Ferrara. Si rivolsero al vescovo di Castello Ramberto, perché appoggiasse presso le autorità veneziane la loro linea politica. Avviarono trattative con le potenze della pianura padana per averle al loro fianco.Il lavorio diplomatico intenso e a tutto campo, che essi promossero e portarono avanti con decisione; il rifiuto palese, anche se non espresso, dell'E. a piegarsi alla volontà del papa; i timori per le autonomie locali e per la libertà dei traffici lungo il corso del Po, che suscitava nella regione la politica veneziana, condussero in poco meno di un mese allo sfaldarsi dello schieramento di forze, che aveva sin'allora sostenuto il signore di Ferrara ed al coagularsi intorno ai rappresentanti del papa di un fronte costituito da quanti, per fermare Venezia, erano disposti a colpire l'E., pericolosa pedina nel gioco della Serenissima. Tuttavia solo alcune delle potenze che avevano fatto parte della vecchia lega antiestense e che si erano da poco accordate con l'E. presero nettamente posizione contro di lui: i più rimasero con le armi al piede ad attendere l'evolversi degli avvenimenti.
Scesero in campo per primi, nella, seconda decade di settembre, mettendo a disposizione dei legati la loro flotta, le loro armi e le loro milizie, i signori di Ravenna, i quali si dichiararono pronti a marciare su Ferrara sotto le insegne della Chiesa. Li seguirono Cervia e le città minori, poi Mantova e Cremona. Il 24 Padova non si era ancora schierata - sia pur ufficialmente - contro l'E. e Venezia. Bologna fu tra gli ultimi ad abbandonare il signore di Ferrara, e lo fece superando forti opposizioni interne. Lo dimostra il fatto che il Consiglio del popolo di quella città deliberò Solo il 22 settembre e a maggioranza la costituzione di una giunta di otto savi, con pieni poteri e mandato a tempo indeterminato, per trattare con i legati quanto "fosse utile e necessario per l'onore del pontefice, della Chiesa e del popolo bolognese" (Riformagioni, in G. Soranzo, pp. 86 s.); che solo il 28 successivo approvò i patti convenuti tra la giunta ed i rappresentanti del papa (ibid., p. 89) e rispose con un rifiuto alle richieste di aiuto militare avanzate allora dal signore di Ferrara.
Abbandonato progressivamente da tutti, l'E. non ebbe altra scelta, se non quella di rinsaldare i suoi legami con Venezia. Era tuttavia perfettamente conscio dei pericoli che tale scelta implicava per l'autonomia della sua città e per lui stesso: non cessò mai, infatti, di cercare altrove - a Mantova, a Verona, perfino a Padova - appoggi e amicizie che valessero a controbilanciare l'oppressiva e soffocante protezione della Serenissima. Soprattutto sperò, sino all'ultimo, nel soccorso di Bologna. Nella seconda decade di settembre Francesco d'Este, grazie ai mezzi fornitigli dal Comune di Padova, assalì Rovigo e, dopo aver disfatto e disperso nel corso di un duro combattimento il presidio ferrarese comandato da Manfredino di Marcaria, si impadronì della città e del suo distretto. Li cedette, di li a pochi giorni, per la somma di 10.000 fiorini d'oro, proprio a Padova. L'E. non reagì né sul piano militare, né sul piano diplomatico: a quanto ci risulta, i rapporti tra lui e il Comune euganeo rimasero buoni anche quando quest'ultimo inviò, il 24 settembre, un'ambasceria per dare al governo veneziano la comunicazione ufficiale dell'avvenuta annessione e per diffidarlo dal fomentare torbidi nei territori di recente acquisiti e, replicando alla Serenissima, che aveva chiesto come contropartita l'impegno a non interferire nell'azione da essa portata avanti nello scacchiere di Ferrara, fece sapere di essere - per quanto riguardava la questione ferrarese - amico così della Chiesa come di Venezia, ma che Francesco d'Este, "suo cittadino", aveva implorato la sua protezione e l'esortava ad appoggiare l'opera dei legati apostolici.
Giunto sotto le mura di Ferrara con truppe e molto seguito, Onofrio de Trebis, poiché "propter Freschi potentiam" non poté farne pubblico bando all'interno della città, lesse, il 23 settembre, in S. Giorgio, dinnanzi all'omonima porta cittadina, un monitorium a nome proprio e del card. de Pelagrue.
In esso intimava all'E., "qui se dicit marchionern Estensem", al podestà di Ferrara Giacomo Rossi, a Guglielmo Gonfalonieri, "qui se gerit quasi vicedominus", di deporre entro il termine perentorio di cinque giorni ogni autorità ed ufficio; ordinava agli abitanti di Ferrara di non accettare altro signore che la Chiesa; proibiva - pena gravissime sanzioni spirituali e temporali - alle alte cariche cittadine, ad influenti ed illustri personalità, a tutta la comunità ferrarese, di prestare ulteriormente obbedienza, collaborazione e sostegno all'E. e di continuare ad opporsi alla autorità del pontefice.
Si trattava di un vero e proprio ultimatum. Esso faceva capire chiaramente che gli inviati del papa erano decisi a raggiungere, anche a costo di uno scontro armato, l'obiettivo della loro missione: la deposizione dell'E. e l'assunzione in prima persona, da parte della Chiesa, del governo di Ferrara e del suo distretto.
Come aveva già fatto per il passato in occasione di crisi che avevano minacciato il suo regime, l'E. si rivolse innanzi tutto a Bologna, sollecitando rinforzi militari in vista del conflitto divenuto inevitabile. Mentre Venezia accelerava i preparativi di guerra (provvedimenti del 25 settembre) ed a Bologna si aggravava il contrasto tra i fautori dell'appoggio incondizionato ai legati pontifici ed i partigiani dell'E., sotto Ferrara arrivavano con una flotta da guerra Bernardino e Lamberto da Polenta e si congiungeva alle milizie inviate da Mantova, da Cremona e da Cervia anche Francesco d'Este, postosi alla testa degli sbanditi ferraresi (26 settembre). Poiché non aveva ancora ricevuto da Bologna risposta alcuna, l'E. si acconciò a chiedere a Venezia l'appoggio che in precedenza gli era stato offerto. Il 28 - lo stesso giorno in cui a Bologna si decise di non fornire all'E. aiuti militari -, il governo della Serenissima inviò a quest'ultimo, insieme con un primo contingente di truppe, un'ambasceria composta da Giovanni Soranzo, da Delfino Dolfin e da Vitale Michiel. Essa recava le condizioni pretese dalla Repubblica di S. Marco: la cessione dei diritti sulla città e sul territorio di Ferrara in cambio dell'impegno a ritirarsi per sempre in Venezia, ove avrebbe ricevuto una provvisione annua vitalizia, tale da assicurare a lui, ai suoi figli ed ai suoi stretti collaboratori un tenore di vita adeguato al loro rango. Venezia intendeva dunque giungere all'annessione di Ferrara, come del resto avevano fatto chiaramente intendere Giovanni Foscari, Giovanni Soranzo ed Alvise Querini nel corso della legazione inviata., il 5 novembre dell'anno precedente, ad Azzo (VIII). L'E. rifiutò: evidentemente riteneva che gli restassero ancora margini di manovra per giungere ad un accettabile accordo con la Chiesa, anche se la sua posizione non gli consentiva molte speranze. Infatti, man mano che aumentava davanti a Ferrara il numero dei nemici in armi, per lui diventava sempre più difficile mantenere il controllo dell'ordine pubblico interno, a causa della crescente ostilità del clero e del popolo minuto, che per ragioni diverse risentivano in misura maggiore della crisi in atto. Le cose precipitarono tra la fine del mese e l'inizio di quello successivo. Fu allora, infatti, che, secondo la testimonianza del cronista Niccolò Trevisan (G. Soranzo, p. 98), venne meno all'E. il consenso da cui era stato sino a quel momento accompagnato "per la sagacità de Vido, vescovo de Ferara", e il popolo "deliberò de non essere più sottoposti [sic] a li Estensi".
La notte tra il 2 e il 3 ottobre la cittadinanza insorse: l'E. fu costretto in un primo momento a rinchiudersi nel castel Tedaldo insieme con i soldati del presidio, i contingenti veneziani ed i suoi fedeli. Riuscì in seguito a riconquistare il Borgo Superiore - l'insediamento posto a meridione del Po di Volano, a guardia del fiume verso Ravenna - e consolidò le sue posizioni, impadronendosi del ponte che portava alla città e della torre posta a presidio del ponte sulla riva sinistra. Onofrio de Trebis tentò di occupare Ferrara, ma venne respinto dall'E., uscito dal Borgo Superiore con le sue truppe e gli alleati. Fallito il tentativo di staccare Venezia dall'E. - nel corso del 3 il legato prese contatto con i rappresentanti della Serenissima presenti in città, offrendo loro la conferma dei patti stipulati nel 1240 col card. Giorgio di Montelungo -, il 4, davanti alla Porta S. Giorgio, Onofrio de Trebis lanciò la scomunica contro l'E., i suoi fautori ed i suoi seguaci, che indicò nominativamente. Con la medesima censura colpì Giovanni Soranzo, Delfino Dolfin, Andrea Querini, che agivano in Ferrara "pro dcimino duce ... Venetiarum", la stessa Repubblica di S. Marco e quanti, "iniquitatis filii", prestavano "notorie et publice" aiuto all'Este. L'atto sortì immediate conseguenze.
La notte fra il 5 e il 6 ottobre i Ferraresi aprirono le po" della città all'esercito integrato della Chiesa, che entrò disordinatamente nell'abitato, fra il tumulto del popolo. Sul fare dell'alba l'E. cercò di arginare il progresso degli avversari: nonostante il valore con cui si batté, venne alla fine respinto al di là del fiume. Onofrio de Trebis prese possesso della città in nome dei papa e della Chiesa.
Mentre l'E., arroccato nel castel Todino, rimaneva padrone del Borgo Superiore e del ponte sul Po, segui per Ferrara tornata al dominio diretto della Sede apostolica un periodo di agitazioni e di violenze, di cui fu protagonista Bernardino da Polenta, il quale si era impadronito del palazzo dei Comune e di altri edifici di interesse strategico e si era fatto proclamare rettore per cinque anni. Questa situazione provocò il malcontento di Bologna, di Mantova e di Cremona, che finirono col richiamare in patria i contingenti inviati a sostegno dei legati pontifici.Dei dissensi insorti tra i suoi avversari credette di potersi giovare l'E., il quale compì un estremo tentativo per salvare il suo regime e dissociarsi dall'alleanza con Venezia. Secondo quanto afferma il Villani (Corpus chronic. Bonon., p. 305), "dominus Freschus dedit Bononie turim Portonarie" a garanzia della sua buona volontà e si recò a Bologna, per convincere i responsabili di quel Comune a farsi mediatori di pace tra lui ed i legati pontifici. In cambio, riferisce il cronista, "promiserat dare turre chastri Tedaldi, quod est citra Padum". Ottenne un rifiuto. L'E. dovette comprendere allora che la sua causa era irrimediabilmente perduta. Il 9, come annota il Villani, "ad patriam remeavit" (ibid.). Il 10, alla presenza di pochi alti dignitari e dei rappresentanti della Serenissima, nelle mani di Delfino Dolfin quale procuratore del doge Pietro Gradenigo "in perpetuo donavit et sponte tradidit domino Duci et Communi Venetiarum" tutti i suoi diritti, in modo tale che da quel momento "dominus Dux et Commune Venetiarum" fossero "gubernatores et generales domini cum mero et mixto imperio civitatis Ferrariae et districtus, Comitatus, territorii, dioecesis et orrmium bonorum et iuriuni eius".
Nel documento che fu redatto in quella occasione si tiene a precisare, che "dominus Frischus, primogenitus olim domini Aconis, Estensis et Anchonitamis marchio, dominus civitatis Ferrariae etc." aveva "plenam auctoritatem tam ex vigore statuti et legis municipalis, quani et conceptione et imperio mero et mixto sibi concesso". Con ciò l'E. intendeva riaffermare solennemente - contro le contestazioni di Francesco d'Este e contro l'accusa di usurpazione, con cui Clemente V aveva giustificato il suo intervento - la regolarità della sua successione, la legittimità dei poteri da lui esercitati, la piena validità degli atti giuridici da lui sino allora compiuti.
Allo stato attuale delle ricerche non possiamo dire con esattezza quando l'E. abbia lasciato il Borgo Superiore e Ferrara: ciò dovette avvenire poco dopo il 10 ottobre, dato che ai primi del mese successivo risulta già stabilito a Venezia insieme con la famiglia e con alcuni dei suoi più stretti collaboratori. Ce ne accerta un provvedimento del Maggior Consiglio che, in data 10 novembre, consentiva a due valletti del figlio dell'E., a Manfredino di Marcaria e ad un servo di questo di poter circolare armati. L'antico signore di Ferrara non percepiva allora alcun sussidio dalla Serenissima, ad onta di ciò che ne scrissero i cronisti coevi. Solo il 9 genn. 1309 il Maggior Consiglio affidò la questione al doge ed ai suoi collaboratori. Fu molto più tardi, tuttavia, che, accogliendo la proposta del doge, stabilì che venissero concesse all'esule, una tantum, la somma di 200 lire di grossi per l'acquisto di immobili in Venezia, ed un assegno annuo vitalizio, pure di 200 lire di grossi, per lui e per i suoi figli legittimi, a condizione che essi si conservassero fedeli al doge stesso e alla Repubblica. Per finanziare questi stanziamenti si stabilì un prestito dell'i % e si stornò un'aliquota dei ricavi sulle vendite del sale.
L'E. morì a Venezia nel 1312.
Fonti e Bibl.: Chronicon Parmense, in Rerum Italic. Script., 2 ed., IX, 9, a cura di G. Bonazzi, pp. 103, 111 s.; Chronicon Estense cum additamentis usque ad annum 1478, ibid., XV, 3, a cura di G. Bertoni - E. P. Vicini, pp. 104-112; Corpus chronicorum Bononiensium, ibid., XVIII, 1, a cura di A. Sorbelli, ad Indicem; Iohannis Ferrariensis Ordinis minorum ... Ex annalium libris illustris familiae marchionum Estensium excerpta, ibid., XX, 2, a cura di L. Simeoni, pp. 12 s.; L. A. Muratori, Delle antichità estensi ed italiane..., II, Modena 1740, pp. 68 ss.; G. Tiraboschi, Memorie stor. modenesi.... Modena 1793, pp. 166 s., 184; A. Frizzi, Memorie per la storia di Ferrara, III, Ferrara 1850, pp. 234, 238, 240-246, 258; G. Soranzo, La guerra fra Venezia e la S. Sede per il dominio Ferrara (1308-1313), Città di Castello 1905, pp. 43, 61-84, 87-98, 100 s., 117 ss.; A. Gaudenzi, Iltestamento di Azzo VIII d'Este e la pace del 1326 tra Modena e Bologna, in Miscell. tassoniana studi storici e letterari pubblicata nella festa della Fossalta, a cura di T. Casini - V. Conti, Bologna-Modena 1908, pp. 98-151 passim; P. Vicini Notizie sul primo castello degli Estensi in Modena: in R. Deputaz. di storia patria per l'Emilia e la Romagna, Sez. di Modena, Studi e documenti, I (1937), pp. 82 s.; L. Chiappini, GliEstensi, s.n.t. [Milano 1967], pp. 59 ss.; Storia di Ferrara, a cura di A. Vasina, V, s.n.t. [Padova 1987], pp. 104, 180 s., 200-203; W. L. Gundersheimer, Ferrara estense. Lo stile del potere, s.n.t. [Modena 1988], p. 25; P. Litta, Le famiglie celebri italiane, s.v. Este, tav. IX.