MÉRODE, Frédéric-François-Xavier
de. – Nacque a Bruxelles il 26 marzo 1820 dal conte Philippe Félix, ministro dal 1831 di Leopoldo I di Sassonia Coburgo re del Belgio, e da Rosalie de Grammont.
Ebbe sei fra sorelle e fratelli (alcuni nati dalla seconda moglie del padre, sorella della prima, morta quando il M. aveva appena quattro anni), tra i quali si ricordano Marie-Anne, moglie del conte Charles de Montalembert, e il conte Werner, uomo politico francese.
Il M. fu inviato per gli studi classici al collegio Notre-Dame de la Paix dei gesuiti di Namur e quindi al collegio Juilly di Parigi. A diciannove anni intraprese a Bruxelles gli studi militari, per i quali si sentiva portato, terminandoli nel 1841. Sottotenente di fanteria a Mons e poi a Bruxelles, ottenne dal governo belga il permesso di seguire le truppe francesi in Algeria (4 ag. 1844), dove restò fino al 1845 e conobbe il generale L.-J. de Lamoricière, comandante delle truppe francesi nella campagna d’Africa del 1843-47. Compiute alcune campagne d’Africa con i generali M.-A. Bedeau, Lamoricière e L.-E. Cavaignac e ottenuta la promozione a tenente, il M. fu convinto dalla famiglia a fare ritorno in patria, dove sembrava attenderlo un debutto nella vita politica.
Rientrato a Bruxelles verso la fine del 1845, riprese la vita di guarnigione, ma in una lettera al cognato Montalembert del 14 dic. 1846 manifestò per la prima volta l’intenzione di dedicarsi alla vita ecclesiastica. Alla metà di ottobre del 1847, su consiglio del cognato, partì per Roma, dove consultò sulla sua vocazione il teologo Ph. Gerbet, il teatino G. Ventura di Raulica e il gesuita Joannes Janssen; scartata l’idea di farsi religioso, decise di entrare nel clero secolare. Alunno del Collegio romano, ricevette la tonsura nel settembre del 1848, ma dovette lasciare il collegio dei gesuiti quando costoro, nello stesso 1848, si videro costretti con l’aggravarsi della situazione interna ad abbandonare lo Stato pontificio.
Tali turbolenze, culminate nella fuga del papa a Gaeta, segnarono certamente l’animo del M., che nell’aprile 1849 ricevette il diaconato. Ordinato sacerdote il 22 sett. 1849, si diede a opere di carità. Già in quell’anno G. Corboli Bussi lo definiva «ottimo prelato belga ch’io conosco solo di riputazione» (A. Manno, L’opinione religiosa e conservatrice in Italia dal 1830 al 1850 ricercata nelle corrispondenze e confidenze di mons. Giovanni Corboli Bussi, Torino 1910, p. 258).
Subito dopo l’ordinazione il M. fu cappellano militare presso la guarnigione di Viterbo e venne nominato cameriere segreto soprannumerario. Al ritorno di Pio IX a Roma (12 apr. 1850) il M. chiese udienza al pontefice per congedarsi e far ritorno in patria, ma il papa, grazie alle informazioni in suo possesso, lo trattenne a Roma e il 17 aprile lo nominò cameriere segreto partecipante, quanto bastava per legarlo alla città (Arch. segr. Vaticano, Palazzo apostolico, Titoli, 55, f. 3). Iniziava così una vicinanza del M. a Pio IX destinata a durare circa vent’anni; il papa apprezzava il suo carattere franco e sincero, anche se con il tempo ne intuì pure la durezza.
La politica del giorno per giorno scelta dal segretario di Stato, cardinale G. Antonelli, per fare fronte ai liberali italiani senza scuotere l’apatia dei governi europei non poteva piacere all’indole intraprendente del M.: se Antonelli, realisticamente, non aveva mai pensato a un esercito papale in grado di difendere lo Stato pontificio da un eventuale attacco e sperava nel soccorso delle potenze europee, egli, troppo fiducioso nell’attaccamento al papa dei cattolici, era convinto che fosse possibile l’allestimento di un valido esercito e che i sudditi pontifici avrebbero dato oro e uomini per difendere lo Stato. Per tale divergenza di fondo il M., dal 1850 in poi, divenne mano a mano, nella Curia, il capo dell’opposizione ad Antonelli.
Il 17 apr. 1859 il M. fu nominato canonico di S. Pietro, ufficio che, nonostante gli impegni politici, pare svolgesse con pietà e costanza; ma l’incarico di maggior prestigio gli fu affidato nel febbraio 1860 quando fu scelto come proministro delle Armi (sebbene il rescritto tardasse fino al 17 aprile e la nomina a ministro non potesse aversi per essere il M. un ecclesiastico e non un laico). Sin dall’inizio tenne un comportamento altero e repressivo di ogni minima indisciplina, tanto da alienarsi le simpatie sia dei più stretti collaboratori sia dei subalterni nelle truppe.
Alla fine di febbraio del 1860 partì misteriosamente da Roma e il 3 marzo, accompagnato dal fratello Werner, si presentò al generale Lamoricière nel castello di Pouzel in Piccardia per offrirgli a nome di Pio IX il comando delle milizie pontificie. Lamoricière accettò; temendo che Napoleone III potesse impedire il passaggio in Italia, il generale e il M. non percorsero la via di Marsiglia, ma si diressero a Colonia e, passando per Vienna e Trieste, giunsero ad Ancona e di lì a Roma dove entrarono la sera del 1° aprile.
L’azione congiunta del M. e di Lamoricière fece aumentare la consistenza dell’esercito papale da 14.700 a 21.677 uomini, che nei progetti dovevano salire a 28.242 unità (P. Dalla Torre, L’anno di Mentana. Contributo ad una storia dello Stato pontificio nel 1867, Milano 1968, p. 53). Comune a entrambi era stato il proposito di rendere lo Stato pontificio autosufficiente in materia di difesa; ma presto vennero gli smacchi militari nell’Umbria e nelle Marche, e i due ne furono ritenuti responsabili. A questo fallimento si accompagnarono alcuni episodi che fu facile collegare alla rivalità con Antonelli: così l’arresto per ordine del M. di Carlo Maggiorani, medico insigne, posto agli arresti domiciliari e poi esiliato; così il caso scoppiato nel febbraio 1863 con l’arresto di L. Fausti, spedizioniere pontificio e gentiluomo d’onore del cardinale Antonelli, accusato e processato in quanto spia e fautore del movimento nazionale, ma in realtà usato per colpire il segretario di Stato.
Intanto il M., per costruire nuove caserme, progettava strade nel rione di Termini, in parte acquistandone i terreni per sé, in parte vendendoli con buoni introiti per l’Erario pontificio; suoi furono i progetti urbanistici riguardanti i quartieri delle Quattro Fontane e di S. Vitale.
In quegli stessi anni il M. riuscì a entrare in rotta anche con il generale francese G.-O. Lannes duca di Montebello che lo accusò di tollerare le insolenze rivolte dai militi pontifici ai soldati francesi, venendo a sua volta incolpato di continue ingerenze negli affari del ministero della Guerra (Arch. segr. Vaticano, Carte Kanzler-Vannutelli, b. A.34). Napoleone III, dopo aver ricevuto il suo generale a Parigi nel settembre 1863, lo rimandò a Roma nell’ottobre con istruzioni di agire contro il M.; giunto a Roma, Montebello pretese addirittura il diritto di rilasciare i passaporti e di porsi a capo delle forze di polizia: «Se tanto ardisse – avrebbe detto il M. – chiamerei io stesso le truppe italiane ad occupare Roma» (I documenti diplomatici italiani, s. 1, IV, p. 427). Dopo una tregua provvisoria fra i due, nel gennaio del 1864 i dissapori si riaccesero a causa di un incidente fra militari francesi e pontifici, con l’uccisione di alcuni fra questi ultimi (Diario di Nicola Roncalli, II, pp. 501 s.). Le cronache di Roma di quei mesi parlavano di bombe, frequenti aggressioni, rapine e fatti sacrileghi. Dalle carte lasciate dal M. appare chiaro che egli aveva informatori pagati in Roma e nelle province, ricevendo parimenti denunce spontanee tanto da parte di fedeli sudditi pontifici quanto da parte di liberali, i quali tutti ovviamente si aspettavano in cambio congrue ricompense.
Si deve senza dubbio al M. una certa pressione su Pio IX (al contrario di quanto faceva Antonelli) per la pubblicazione dell’enciclica Quanta cura contro gli errori moderni (Aubert, 1970, 1, p. 396); è difficile dire se in ciò abbia pesato più la preoccupazione di affermare alcuni principî ecclesiologici e politici o l’avversione alla linea temporeggiatrice del segretario di Stato; la spuntò però il M. (Martina, 1962, p. 481).
In mezzo a trambusti di ogni genere, alla diffidenza (mista a disprezzo) nutrita da Pio IX verso Napoleone III, ai temporeggiamenti del card. Antonelli e all’azione repressiva del M., il generale Lamoricière, molto stimato e caro anche al pontefice, venne a morte il 10 sett. 1865. Era giunto il momento tanto atteso da Antonelli di allontanare dal papa il M. prendendo spunto dall’ormai imminente ritiro dei Francesi dallo Stato e dalla necessità di provvedere l’esercito di un più equilibrato e duttile comandante in capo.
Pio IX fece chiamare il suo proministro il 6 ott. 1865 e prendendo lo spunto dal nuovo accesso di febbre che aveva colpito il M., non senza imbarazzo gli annunciò di volerlo sostituire al ministero della Guerra, soprattutto per salvaguardare la sua salute. Gli chiese le dimissioni, ma era un vero e proprio licenziamento. Pio IX si disse indotto a quel passo, che personalmente gli rincresceva, dalla durezza delle posizioni del M. di fronte ai Francesi e il 22 novembre confidò al plenipotenziario belga H. Carolus: «Le Saint Père aurait reconnu que le caractère trop absolu, trop ardent de Mgr de Mérode n’était guère propre à faire traverser, sans secousse violente, la période de transition qui suivra le départ de l’armée française» (Aubert , 1955, p. 379). Il capo del governo italiano Alfonso Ferrero della Marmora accolse con soddisfazione la notizia (Balan, p. 140).
Uomo di carattere e convinto del proprio retto comportamento, il M. rifiutò le dimissioni e nell’ultimo suo ordine del giorno alla truppa usò un linguaggio molto chiaro: «La Santità di Nostro Signore si è degnata, per benigni riguardi alla mia salute, esonerarmi dall’ufficio di Pro-Ministro delle armi» (La Civiltà cattolica, s. 6, XVI [1865], vol. 4, p. 484). Il posto del M. al ministero delle Armi, dopo un breve interim di Antonelli, fu preso il 28 ott. 1865 dal generale H. Kanzler; toccò a lui il 20 sett. 1870 l’ingrato quanto inutile compito di difendere porta Pia dai soldati italiani.
Le mosse dei nemici del M. non avrebbero raggiunto il loro scopo se egli si fosse ancora occupato, come faceva da tempo, del piano urbanistico di Roma. Perciò convinsero Pio IX a convocare il M. il giorno successivo alla sua destituzione e a fargli capire che non conveniva a un prelato ormai libero dagli impegni politici di farsi vedere «tra manovali e terrazzieri»; avrebbe dovuto piuttosto attendere agli studi sacri quando il suo ufficio di cameriere segreto gliene lasciasse tempo. In effetti il M. aveva acquistato diversi terreni sull’Esquilino e vi fabbricava con celerità, dirigendo egli stesso i cantieri; né bastarono due cadute e la rottura di una gamba a farlo desistere. Sua fu l’idea di far passare una lunga strada fra Castro Pretorio e il Quirinale: così il quartiere prese il nome da lui (dopo il 20 settembre il nome della strada fu mutato in via Nazionale). I suoi progetti urbanistici e viari si espandevano a tutto lo Stato della Chiesa; nel settembre del 1860, per esempio, aveva chiesto al card. Antonelli di trovare fondi per la prosecuzione della ferrovia che da Roma doveva condurre a Ceprano. Si adoperò anche affinché fosse attivata la linea telegrafica da Frosinone a Velletri, fino a Ceccano.
Quando comprese che il suo potere in questo ambito era finito, il M. cercò di lasciare al fratello Werner la sistemazione degli affari pendenti per i nuovi quartieri di Roma che aveva avviato a ristrutturazione.
La discreta serenità con cui, dopo le prime violente e furibonde reazioni, accettò le decisioni papali gli valse la promozione all’episcopato. Nel concistoro del 18 giugno 1866 il M. fu eletto arcivescovo titolare di Melitene e consacrato il 1° luglio. Il 22 giugno fu eletto elemosiniere segreto; il 3 ag. 1866 il M. fu eletto fra i vescovi assistenti al soglio pontificio.
Sensibile ai bisogni dei poveri, il M. fece aprire in via delle Zoccolette un consultorio medico e una farmacia gratuita. Prese parte al concilio Vaticano I ma vi ebbe una parte assai marginale, date le sue scarse cognizioni teologiche (Tizzani lo definiva «più soldato che prete»); fu fra i presuli antinfallibilisti, affermando che «Mastai ha rovinato il governo temporale coll’amnistia, rovinerà il governo spirituale col decreto della infallibilità» (Diario di Vincenzo Tizzani, p. 210; Croce, I, p. 338); ma sembra che la sua posizione fosse dettata più che da motivi ecclesiologici o teologici da dubbi sull’opportunità della pubblicazione della formula infallibilista. Essendo in disaccordo con la linea del papa e continuamente attaccato dalla stampa integralista (specie da L’Unità cattolica) il 17 marzo 1870 rassegnò le dimissioni da elemosiniere segreto, ma se le vide respingere.
Nel frattempo non cessava di inveire contro la Curia e anche contro il papa. Nella seduta conciliare del 13 luglio 1870 votò contro il decreto sull’infallibilità, ma il 19 seguente inviò a Pio IX la formula della sua adesione, redatta (come egli confessava) sul formulario assai generico di Pio IV per l’adesione al concilio tridentino. Può darsi che il cambiamento di parere del M. fosse dovuto alla gentilezza con cui PioIX lo aveva ricevuto in udienza la sera del 18 luglio. Ciò però non bastò al papa, bene informato sugli agitati discorsi del M. durante il concilio, tanto che pochi giorni dopo mise «à la porte monseigneur de Mérode, parce qu’il ne veut pas faire adhésion au dogme de l’infallibilité» (I documenti diplomatici italiani, s. 1, XIII, p. 189). Il 10 settembre il M. fu chiamato al S. Uffizio e dovette sottoscrivere una nuova professione di fede, finalmente giudicata sufficiente dal pontefice.
Dopo la presa di Roma e dopo l’interruzione del concilio, il M. cominciò a declinare nella salute; pur non riducendosi del tutto a vita privata, mantenne come uniche occupazioni le molte opere di carità cui si dedicava come elemosiniere segreto, gli uffici che gli competevano come canonico di S. Pietro e la collaborazione con l’archeologo G.B. De Rossi per gli scavi nelle catacombe di Domitilla, che egli aiutò a portare in luce. Istituì anche, a palazzo Altemps, una «università» resa operante con tre facoltà: scienze fisiche e medicina, matematiche, legge civile e canonica; i docenti erano ovviamente reclutati fra i professori che non avevano prestato il giuramento al governo italiano.
Si trattava di un’altra delle illusioni del M., perché il governo italiano non avrebbe mai riconosciuto i titoli accademici eventualmente conseguiti nell’Università cattolica (si diceva ironicamente «vaticana») di palazzo Altemps che in pratica cessò lo stesso giorno in cui moriva il M. provocando da parte del Fanfulla del 18 luglio 1874 una ironica e sprezzante caricatura.
Il M. morì a Roma l’11 luglio 1874.
I funerali furono celebrati, per espresso desiderio di Pio IX, nella basilica di S. Pietro il 13 luglio; le sue spoglie furono sepolte nel cimitero dei Tedeschi (oggi Campo santo teutonico) in Vaticano.
Giudicato da G. Martina «fedelissimo, pio, generoso, pieno di zelo» ma anche «impulsivo, rude nei modi e nel linguaggio, incapace di attirarsi la simpatia dei suoi collaboratori» (Pio IX: 1867-1878, p. 12), il M. fu descritto con toni vivaci ma molto realistici da Tizzani in una lunga pagina inedita delle sue memorie sotto la data dell’11 luglio 1874: alla biografia, ricostruita nelle grandi linee e con qualche tocco di ironia, seguiva un giudizio abbastanza impietoso sull’uomo: «Alto di statura, scarno nella persona, senza colorito, naso prolungato, occhi loschi, facile nel parlare italiano, sempre progettista, privo di umani riguardi, non la perdonava ad alcuno. Se avesse avuto amici sinceri ed intelligenti il Demerode [sic] avrebbe occupato il primo posto nella romana città. Disgraziatamente diffidando di tutti, solo dava la sua fiducia a chi faceva più l’interessi propri che quelli del prelato. Carattere bizzarro, aveva gli slanci di un eroe senza averne la prudenza, generoso fino a privarsi della Croce della Legion d’Onore perché, venduta, supplisse ai bisogni di una povera famiglia. Non era allora il Demerode milionario, viveva da semplice soldato, mangiando il pane di razione e dormendo in un piccolo giaciglio. Disordinato nella sua vita sia nel prender cibo, sia nel prender riposo; avrebbe voluto né mangiare né dormire per essere sempre in azione. Onesto, amava PioIX ma non lo stimava; stimava invece il papato che avrebbe egli voluto elevato a sterminata potenza. Non credeva infallibile il papa e sottoscrisse al dogma dell’Infallibilità (dopo il concilio perché il papa lo minacciò di scomunica) […]. Era temuto da tutti ed egli sel sapeva» (cit. in Clementi, cap. 96, pp. 41 s.).
Fonti e Bibl.: Arch. segr. Vaticano, Archivio concistoriale, Acta Camerarii, 61, c. 526b; Archivio della Nunziatura apostolica in Parigi, b. 138, ff. 419-422; Archivio particolare di Pio IX, Sovrani e particolari, 357, 449, 457, 1441; Carte De Mérode, Carte Kanzler-Vannutelli, bb. A.34, A.35; Carte Soderini-Clementi, bb. 1-9, contengono il dattiloscritto (con correzioni, aggiunte, modifiche di mano di Clementi): G. Clementi, Pio IX e il Risorgimento italiano: preparato per la stampa presso l’editore Zanichelli in 7 volumi nel 1927, non fu pubblicato e rimase alla fase di abbozzo per la vertenza giudiziaria che oppose don Giuseppe Clementi (vero e indubitabile autore dell’opera) al conte E. Soderini (finanziatore e preteso ideatore); l’opera, divisa in 103 capitoli per migliaia di pagine, abbraccia il periodo 1832-78; Dataria apostolica, Processus Datariae, 228, cc. 233-242; Secretaria brevium, Registra brevium, 5435, cc. 37-40; 5436, cc. 362-364; 5723, cc. 222r-225v; Segreteria di Stato, a. 1855, rubr. 222, c. 14; a. 1858, rubr. 291, c. 40; a. 1860, rubr. 165, f. 52, c. 96; f. 57, cc. 135-139; a. 1861, rubr. 165, f. 72, c. 167; a. 1865, rubr. 190, f. unico; a. 1911, rubr. 270, cc. 101-102; ibid., Spogli di cardinali e officiali di Curia, b. F. de Mérode; Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 14298 (sub voce Mérode); Arch. di Stato di Roma, Ministero delle Armi, bb. anni 1860-65; I documenti diplomatici italiani, s. 1, 1861-1870, IV, VI, XIII, Roma 1963-81, ad indices; N. Bianchi, Storia documentata della diplomazia europea in Italia dall’anno 1814 all’anno 1861, I-VIII, Torino 1865-72; La questione romana negli anni 1860-1861. Carteggio del conte di Cavour con D. 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