MOCHI, Francesco
– Nacque a Montevarchi il 28 luglio 1580 da Lorenzo di Francesco. La buona posizione sociale della famiglia paterna, che risulta godere di una certa agiatezza economica, lascia desumere che il M. ricevette un'educazione e un'istruzione adeguate al proprio rango; difficile dire, al contrario, se fu nella cittadina natale che ebbe corso il suo apprendistato artistico. Certo è che la prima notizia di una sua attività come scultore, risalente al marzo del 1603, lo vede legato a Roma, e a Mario Farnese, duca di Latera, che, avendogli chiesto «alcune statue» (Favero, p. 131), lo ospitava nel palazzo di famiglia a Campo de’ Fiori.
In mancanza di documentazione pertinente, il problema della formazione del M. è ancora aperto e si articola intorno alle notizie fornite dai primi biografi. Passeri pone gli esordi del giovane presso la bottega di Santi di Tito: se ciò non è sempre stato ritenuto di concreta attendibilità, più credibile è parso a una parte della critica ipotizzare invece una prima formazione del M. a Firenze, che proprio negli ultimi decenni del Cinquecento stava vivendo una stagione artistica molto intensa – anche e soprattutto da un punto di vista scultoreo – garantita da un patronato mediceo molto attento. A Firenze il M. avrebbe potuto certamente trarre spunto dalle «esperienze sensoriali» (Ciardi Duprè Dal Poggetto, in F. M.: 1580-1654, p. 19) di Benvenuto Cellini e Bartolomeo Ammannati così come erano state abilmente tradotte dal Giambologna (Jean Boulogne) ma anche da un certo gusto classicheggiante che in una declinazione tutta fiorentina si stava affermando proprio sul finire del secolo.
Fondata sulle note scritte in proposito da Pascoli e Baldinucci è l’altra, e più tradizionale, ipotesi relativa ai primi anni di apprendistato del M., secondo la quale egli si sarebbe formato subito a Roma, sullo scorcio del Seicento: in un clima artistico, dunque, dominato dal gruppo dei «lombardi» – Ambrogio Buonvicino, Giovanni Antonio Paracca detto il Valsolda, Silla Longhi, Ippolito Buzzi (Buzio) e certamente Stefano Maderno – che, portatori di un’istanza classicista e arcaizzante, furono attivi in ogni importante cantiere aperto nella Roma dell’ultimo decennio del Cinquecento, soprattutto nelle cappelle Sistina e Paolina in S. Maria Maggiore. Nella bottega di Camillo Mariani il M. avrebbe preso parte in particolare all’impresa che il maestro andava compiendo in S. Bernardo alle Terme, anche se è sempre risultato difficile rintracciare la sua mano in una delle otto statue in stucco previste dal progetto complessivo. In virtù di un tale rapporto di discepolato egli sarebbe stato in seguito coinvolto nella decorazione della cappella Paolina in S. Maria Maggiore, dove Mariani fu attivo negli ultimissimi tempi della sua vita lasciando incompiute alcune opere, portate a termine dallo stesso M. che fin dal 23 luglio 1611 veniva pagato per conto degli «heredi di Mariani» (Favero, p. 153).
La prima, ben documentata, commissione che vide protagonista il M. fu quella dell’Angelo per la cattedrale di S. Maria della Stella di Orvieto, concessa nell’aprile del 1603, dietro le pressanti raccomandazioni di Mario Farnese, dai soprastanti dell’Opera del duomo che solo in un secondo momento, nel gennaio del 1608, allogarono al M. la realizzazione della Vergine Annunciata.
Il M., che si era recato subito a Carrara con Tommaso Brandi per la scelta del marmo, ricevette il primo acconto per l’Angelo in luglio; i pagamenti, per un totale di 600 scudi, proseguirono per i due anni successivi, fino al 1605: già nell’aprile di quello stesso anno la statua, che reca l’iscrizione «Opus Fra(n)c.(isc)i Moci de Monte Varco 1605», era stata collocata nel coro, alla destra dell’altare maggiore; vi rimase fino alla fine dell’Ottocento (nel 1896 era ancora all’interno del duomo) quando, nel generale clima di revival neogotico, la serie dei dodici apostoli e il gruppo dell’Annunciazione del M. (l’Angelo e la Vergine) furono rimossi per non rientrarvi più (oggi Museo dell’Opera del duomo). La scultura, di dimensioni superiori al naturale, fu considerata già dai suoi contemporanei – per conoscere nell’Ottocento un periodo di sfortuna critica – il capolavoro giovanile del M. che qui sembra offrire il proprio tributo al Giambologna, nell’ardito avvitamento e nello slancio della figura che «aggredisce» lo spazio in un senso già barocco, evidenziato dallo splendido e vaporosissimo panneggio che la avvolge e che giunge a una definizione sottilissima, quasi trasparente; il M. si mostra qui tuttavia anche attento osservatore dell’arte classica, che proprio a Roma e a palazzo Farnese, già noto per la ricca collezione di antichità, poté conoscere e gustare appieno. Sicuramente debitrice della scultura classica è poi la Vergine, per la quale si registrano pagamenti dal settembre del 1608 al settembre del 1609. A quella data dovette essere verosimilmente già compiuta anche se fu collocata solo in un secondo momento in duomo, in posizione speculare rispetto all’Angelo e con questo, in origine, sulla balaustrata: in quel luogo cioè in bilico tra accessibile e inaccessibile, tra spazio dei fedeli e spazio del sacro (Cambareri, 2001). Colta nel momento della conturbatio, mentre all’improvviso si alza dallo scranno per proteggersi, aiutata dal libro che tiene nella mano sinistra, la possente Vergine del M. è una «statua pagana» (Luzi, p. 278) nel profilo, nell’acconciatura, nella ponderatio che assume il corpo. Se validi rimangono i riferimenti avanzati dalla critica – una Musa inserita nel gruppo dei Niobidi alla Galleria degli Uffizi, ma già a villa Medici a Roma alla fine del Cinquecento (Mansuelli) – la figura finisce per mostrare una matura consapevolezza degli apporti derivati dalla statuaria antica, rielaborati con una maestria e un gusto tali da essere già perfettamente in linea con gli straordinari esiti successivi, dai monumenti piacentini alla Veronica vaticana. Per il duomo di Orvieto il M. avrebbe realizzato anche il S. Filippo, una delle statue dei dodici apostoli che, secondo il progetto di Ippolito Scalza, dovevano ornare la navata centrale (anch’esse rimosse alla fine dell’Ottocento e oggi nel Museo dell’Opera). Commissionato nel maggio del 1609, fu eseguito in breve tempo e nel novembre dell’anno successivo veniva collocato in chiesa, firmato e datato. Le pieghe profonde che solcano le vesti di questa statua di dimensioni colossali la avvicinano piuttosto che ai precedenti manieristi alla stagione tardogotica fiorentina, in una essenzialità espressiva che denuncia fin da ora una ricerca del M., sviluppata in maniera compiuta in seguito, verso un’introspezione psicologica destinata a tradurre visivamente la spiritualità compressa e tutta interiore dei protagonisti della storia sacra.
I primi documenti romani vedono il M. impegnato in S. Maria Maggiore. Terminati nel novembre del 1607 risultano due putti reggistemma per l’«arme» di Scipione Borghese (Favero, p. 151), di cui non si ha alcuna traccia, saldati qualche mese dopo. Rimangono invece le altre opere realizzate nella basilica Liberiana dal M., il quale prese parte all’impresa della cappella Paolina che si andava decorando in quegli anni.
Per una delle nicchie della parete esterna realizzò il S. Matteo e l’angelo, iniziato nel marzo del 1608 e saldato in luglio. E portò a compimento nell’estate del 1612 le opere avviate da Mariani nel 1610: il rilievo con la Presa di Strigonia (al M. si ascrivono i due angioletti in alto a sinistra e i due guerrieri con l’elmo piumato) e la statua del S. Giovanni Evangelista, collocata a sinistra dell’altare maggiore della cappella (il M. dovette eseguire quasi certamente la testa – nella quale si riconosce un «pittoricismo» che denuncerebbe l’assorbimento ormai maturo di un modo «veneto» di trattare le superfici scultoree – e forse le braccia).
Mentre era impegnato a Orvieto, a Roma il buon esito delle sue prime opere e la mediazione di Domenico Cresti detto il Passignano (Favero, pp. 162 s.) procurarono al M. il prestigioso incarico di realizzare una delle quattro statue a ornamento della cappella di famiglia che Maffeo Barberini, per volere dello zio Francesco, stava facendo compiere in S. Andrea della Valle. Il progetto prevedeva l’impiego degli scultori più in vista presenti a Roma in quel momento: oltre al M. furono interpellati per una Maddalena Cristoforo Stati, per un S. Giovanni Evangelista Ambrogio Buonvicino e per un S. Giovanni Battista Nicolas Cordier, a cui successe nell’incarico Pietro Bernini in una vicenda che vide protagonista lo stesso M. tra il 1629 e il 1630.
Nonostante la consegna del marmo nel luglio del 1609, il M. dovette porre mano alla S. Marta forse nell’autunno del 1610, per concluderla, in ragione dei ripetuti soggiorni piacentini, solo entro il 1617, quando la statua lasciò la casa romana del M. di via Capo le Case per raggiungere la chiesa, ma non la cappella: qui, entro la nicchia appositamente preparata per riceverla, fu collocata nel 1621. Se i tempi di conclusione dell’opera appaiono dilatati, quelli di lavorazione si dovettero concentrare nei primi due o tre anni: per la vicinanza con la produzione coeva espressa principalmente nel particolare rapporto con lo spazio circostante che la figura occupa in un movimento di rotazione, accentuato dalle pieghe del ricco panneggio di decisa matrice classica.
La frequentazione del palazzo romano dei Farnese e le prove, soprattutto orvietane, condotte dal M. furono decisive per vedersi affidare l’incarico di realizzare a Piacenza i monumenti celebrativi dei duchi Ranuccio e Alessandro, ai quali lavorò nell’arco di quindici anni, tra il 1613 e il 1628.
Voluto dai cittadini di Piacenza nell’intento di rinsaldare un rapporto di fiducia con il duca a seguito dei disordini scaturiti nel 1611 dalla congiura dei Sanvitale, alla quale Ranuccio era scampato per miracolo, il progetto, di cui si ha un primo cenno nei documenti piacentini nel marzo 1612, prevedeva in origine due colonne sormontate dalle statue bronzee dei duchi. Per esse già il 20 dello stesso mese si parlava di uno «statuario» (Favero, p. 168) che doveva giungere da Roma per il tramite di Mario Farnese. Il nome del M. compare a partire dal 26 giugno, quando se ne attestava l’arrivo in città il 10 «co(n) doi suoi compagni scultori» (ibid., p. 169). A quella data l’idea del monumento equestre era già giunta a maturazione, e il M. con i suoi due uomini venuti da Roma, Pasquale Pasqualino e Innocenzo Albertini, risulta lavorare fino al 5 agosto al modello. Con loro furono coinvolti anche il fonditore Marcello Manachi e i suoi aiuti Orazio Alberici e Lorenzo Lancisi (il primo allontanato nel 1614 su istanza del M., che da quel momento si assunse anche l’intero onere dell’impresa, dunque anche della fusione; gli altri due licenziati nel 1619) e il «Procaccino», molto probabilmente Giulio Cesare, impegnato allora, forse, nel modello del monumento ad Alessandro Farnese, poi affidato per ragioni ignote al Mochi. Secondo quanto stabilito dai capitoli del 28 novembre, e conformemente al modello depositato presso Mario Farnese, qualche mese dopo – dal marzo 1613 si registrano i primi pagamenti al M. – si mise mano al primo dei due monumenti equestri, quello a Ranuccio, inaugurato in grande stile nel dicembre del 1620 alla presenza di tutti i cittadini. Per compierlo e superare le difficoltà legate alla fusione di un complesso di così grandi dimensioni, nella primavera del 1616 il M. intraprese «con grandissimo gusto et soddisfazione dell’animo» – così nella lettera a Ranuccio del 21 aprile (De Luca Savelli, in F. M.: 1580-1654, p. 117) – un viaggio di studio a Padova e a Venezia, dove ebbe modo di confrontarsi con le opere di Donatello e del Verrocchio, anche se dovette rimanere profondamente impressionato dai cavalli di S. Marco, vista l’eco che se ne ritrova in quelli piacentini e in misura maggiore in un piccolo esemplare in bronzo della collezione Pallavicini (ibid., p. 50, n. 9), già ritenuto di epoca classica. All’inizio del 1618 tutto era pronto, e il 28 gennaio si procedette al getto del cavallo (Favero, p. 217). Mancava la figura del duca. Ranuccio è un cavaliere «all’antica» – e così lo richiedevano i capitoli (ibid., p. 173) – ma il suo volto, ritratto dal vero prima di fondere la statua (21 luglio 1619), non ha alcuna idealizzazione. La sua è una figura viva, e gli effetti del suo buon governo sono illustrati allegoricamente nell’alto basamento entro due bassorilievi in bronzo, anch’essi «all’antica», non ancora pronti al momento dell’inaugurazione. Lo erano invece le due targhe dedicatorie dei lati brevi, sormontate da coppie di putti.
Del tutto corrispondente al primo è il secondo monumento equestre, quello ad Alessandro Farnese, che conobbe un’esecuzione molto più rapida. La grande cera del cavallo – un primo stadio di lavorazione potrebbe essere costituito dalla piccola cera del Bargello (ibid., p. 59 n. 10) – fu iniziata con ogni probabilità nell’estate del 1621 e già nel giugno dell’anno successivo ne veniva completata la fusione, seguita nel dicembre del 1623 da quella della figura del duca. Inaugurato nel 1625, questo secondo monumento esprime una concezione della statuaria a tutto tondo distante dal suo pendant e già pienamente barocca, forse dovuta alla conoscenza diretta delle opere di Pieter Paul Rubens grazie a brevi soggiorni a Mantova e Genova, in realtà non troppo distanti da Piacenza. Se a tutta evidenza il cavallo è ancora classico, la nervosità del suo scatto e il modo con cui si pianta nel piedistallo denunciano l’apertura a soluzioni nuove, ulteriormente sottolineate dall’arioso mantello del duca, quasi una nuvola berniniana.
Il M. provvide anche a fornire i disegni (il «modello di legno»: De Luca Savelli, in F. M.: 1580-1654, p. 125) delle cancellate dei due monumenti equestri (1623 circa). Per i bassorilievi bronzei, saldati nell’aprile del 1629, fu siglato un contratto il 3 sett. 1625 e il M. ebbe precise indicazioni dai committenti per ciò che riguarda il soggetto (Favero, p. 55): un’Allegoria del buon governo e un’Allegoria della pace per esaltare il ducato di Ranuccio; La costruzione del ponte sullo Schelda e La liberazione di Parigi per celebrare le doti militari del padre (ibid., pp. 62 s.). Da rilevare l’effetto prospettico dei rilievi ottenuto per mezzo di una tecnica del tutto particolare, che prevede un aggetto minore o maggiore delle figure, quasi ritagliate dal fondo, in rapporto alla loro posizione in profondità: una tecnica utilizzata anche nella Crocefissione in bronzo del J. Paul Getty Museum di Los Angeles, forse uno sportello di tabernacolo, che si ascrive pertanto al M. (Allen - Cambareri).
Nell’ambito dell’attività piacentina del M. si devono collocare anche la statua in stucco di Ranuccio Farnese in ginocchio e il conio di due medaglie dedicate ai duchi. La prima fu voluta dai padri cappuccini e realizzata tra il 1615 e il 1616 per la chiesa di S. Maria di Campagna alla quale il duca, che considerava la Madonna lì venerata fautrice della propria salvezza durante i fatti della congiura, era particolarmente devoto (Ceschi Lavagetto). Il M. fu legato alla chiesa anche qualche anno dopo, nel 1623, quando doveva ricoprire il ruolo di soprastante ai lavori di decorazione che si andavano compiendo in quegli anni, se tra il settembre e il novembre anticipava un acconto per Daniele Crespi ed esprimeva il proprio giudizio per il conferimento di un incarico al pittore lucchese Paolo Pini (Favero, pp. 228, 259). Circa le medaglie, note ciascuna in quattro esemplari (quella di Ranuccio: Roma, collezione Incisa della Rocchetta; Venezia, Ca’ d’Oro; Cambridge, Fitzwilliam Museum; Londra, British Museum; quella di Alessandro: Firenze, Museo nazionale del Bargello; Venezia, Ca’ d’Oro; Berlino, Staatliche Münzsammlung; Londra, British Museum), poiché in ciascuna di esse è presentato sul verso il monumento equestre corrispondente al Farnese ritratto di profilo sul recto, si devono ritenere eseguite in relazione all’impresa pubblica, anche se la critica non concorda se intorno al 1615, all’avvio dei lavori, o piuttosto a celebrazione conclusiva di essi, quindi circa al 1625.
Nel 1622 fu incaricato di lavorare a un nuovo progetto per il monumento funebre a Margherita d’Austria, la madre di Alessandro Farnese, in S. Sisto, in sostituzione di un primo, ideato e avviato da Simone Moschino pochi anni dopo la morte di Margherita (1586), e già in buono stato di avanzamento esecutivo. Dell’opera del M. non si fece nulla, se non quattro putti in bronzo, oggi dispersi (De Luca Savelli, in F. M.: 1580-1654, p. 123).
A Piacenza il M. rimase fino al 1629 ininterrottamente, se si escludono il viaggio di studio del 1616 e quello a Montevarchi nel 1622, in occasione delle nozze con Contessa Nacchianti, giovanissima esponente di uno dei più importanti casati locali. Nella città farnesiana, dove nacquero tra il 1623 e il 1628 cinque degli otto suoi figli (Lorenzo, Maria Maddalena, Teresa, Alessandra e Giovanni Battista), il M. fu molto apprezzato tanto dalla Comunità, che l’11 maggio 1628 gli conferì la cittadinanza e i privilegi a essa connessi, quanto naturalmente dai Farnese: da Mario, morto nel 1619, documentato tramite per le vicende piacentine e suo costante sostenitore; da Ranuccio, naturale interlocutore in merito alle diverse questioni sorte durante l’avanzamento dei lavori; e alla sua morte, nel 1622, dal cardinale Odoardo, reggente il Ducato in quanto tutore del nipote, che in luglio, giunto in città, ebbe modo di vedere e apprezzare il bronzo del cavallo appena gettato del monumento al duca Alessandro.
Il 6 apr. 1629, con il saldo per i monumenti farnesiani, finì la stagione piacentina del M., che un Avviso del 12 maggio diceva giunto a Roma, su invito di Urbano VIII (Maffeo Barberini). Furono infatti i Barberini, per il quali il M. aveva già lavorato, a offrire un patronato allo scultore che almeno dal febbraio 1630 risulta abitare con la famiglia nell’«isola del Collegio de Propaganda Fide» (qui nacquero, tra il 1630 e il 1634, Isidoro, Giuseppe e Anna Maria: Favero, p. 243). Già in quello stesso anno divenne membro dell’Accademia di S. Luca, di cui fu principe nel 1633, e presso la quale avrebbe assunto diverse cariche, da consigliere a visitatore degli infermi a stimatore di sculture (1638 e 1645, con Alessandro Algardi: ibid., pp. 248, 252).
La commissione barberiniana più importante fu naturalmente quella, di cui si dirà, per la Veronica, destinata a occupare uno dei nicchioni della crociera di S. Pietro in Vaticano. Il M. fu tuttavia impegnato anche nella celebrazione «privata» della potentissima famiglia romana, e tornò a lavorare nella cappella in S. Andrea della Valle, con l’incarico di eseguire non solo, forse, i due putti reggistemma posti sopra la porta laterale di sinistra, ma soprattutto un S. Giovanni Battista, che con ogni probabilità avrebbe dovuto sostituire quello di Pietro Bernini e occupare quindi una delle quattro nicchie: si è già notata nell’opera del M. la ricorrenza di alcune caratteristiche formali (le gambe poste ad altezza diversa; la sporgenza del busto; le braccia protese) presenti nelle altre sculture pensate a ornamento delle nicchie della cappella (Müller). Il marmo fu consegnato al M. nel giugno del 1629, quando si registrano anche i primi mandati di pagamento; nel febbraio successivo l’opera doveva essere già a buon punto, se Carlo Barberini, che dopo l’elezione al soglio pontificio del fratello Maffeo – autore tra l’altro di un’ode in onore di s. Giovanni Battista contenuta in una raccolta, Poemata, data più volte alle stampe in questi anni, con cui l’opera del M. è stata messa in relazione (Moser) – si era assunto l’impegno di portare a compimento i lavori nella cappella di famiglia, scriveva da Bologna al segretario G.B. Scannaroli, chiedendone notizie, che alla sua partenza da Roma essa era «assai bene abbozzata» (Favero, p. 164). Nonostante la rapida esecuzione dell’«anticlassico» (Martinelli, 1951, p. 230) S. Giovanni, possente e vibrante al tempo stesso, la collocazione in situ non ebbe corso, forse per l’opposizione di Gian Lorenzo Bernini, appena eletto architetto della Fabbrica di S. Pietro (Passeri, pp. 133, 136), o più probabilmente per la morte improvvisa nel 1630 di Carlo Barberini: ceduto dalla vedova del M. ad Alessandro VII Chigi su suggerimento di Girolamo Farnese, maggiordomo del papa e, certo in quanto figlio di Mario, esecutore testamentario del M., il marmo giunse nella Hofkirche di Dresda, dove attualmente si trova, a seguito della vendita di parte della collezione Chigi ad Augusto il Forte, principe elettore di Sassonia, avvenuta nel 1728.
Il piccolo bronzo nella collezione di famiglia (Favero, pp. 74 s.) si deve con ogni probabilità collocare nell’ambito della serie di imprese miranti a celebrare la memoria di Carlo Barberini, generale di S. Romana Chiesa, che confluirono nella decisione di realizzare un monumento in Campidoglio affidato a Gian Lorenzo Bernini e Alessandro Algardi e una memoria funebre, pure di Bernini, in S. Maria in Aracoeli. Si tratta forse di un modello per un monumento pubblico di grandi dimensioni per il quale non è escluso che il M. avesse utilizzato la cera del Bargello, di cui il bronzetto risente visibilmente. In stretta relazione con ciò, è da porre però soprattutto il Busto di Carlo Barberini, di chiara destinazione familiare e privata e forse commissionato da Urbano VIII per la galleria di ritratti di antenati che stava iniziando a formare nel palazzo di famiglia. Il generale vi appare idealizzato e privo di qualsiasi emozione, avvolto in un mondo senza tempo: traspare anche una profonda riflessione su alcuni capolavori fiorentini, e per tutti il Busto di Cosimo I in bronzo di Benvenuto Cellini. Citato nel palazzo di famiglia dal 1642, e confluito nelle collezioni del Museo di Roma a palazzo Braschi, questo straordinario brano di scultura è forse (Lavin - Aronberg Lavin, pp. 140-142) pendant del Busto di Antonio Barberini (Museum of Art di Toledo, OH), di grande raffinatezza e intensità espressiva, già assegnato a Gian Lorenzo Bernini e realizzato intorno al 1638, quando Antonio, che è ritratto in vesti cardinalizie (nomina nel 1629), ricevette la carica di camerlengo (De Luca Savelli, in F. M.: 1580-1654, pp. 77 s.).
Il Busto di Carlo Barberini – del quale esiste un’altra versione nel palazzo di famiglia a Palestrina, ma di qualità inferiore e probabilmente non autografo (Di Gioia, p. 47, fig. 12) – è in stretta relazione stilistica e tipologica con il Busto di Ladislao d’Aquino in S. Maria sopra Minerva. L’acuto ritratto del cardinale, morto a Roma nel 1621, fu commissionato al M. da Giovanni Ricci da Pescia, maestro di Camera di Carlo Barberini, che il M. conobbe per suo tramite ai tempi della S. Marta. Se si deve escludere, come sembra dalla documentazione, un soggiorno romano del M. nel 1621, è più probabile porre la messa in opera del Busto di Ladislao al ritorno da Piacenza e terminato il modello della Veronica vaticana, dopo il 1632 dunque, quasi certamente in contiguità con la realizzazione del Busto di Arcasio Ricci, vescovo di Gravina morto nel febbraio del 1636 e fratello di Giovanni. Fu quest’ultimo infatti a volerne onorare la memoria allogando al M., che riceveva da Giovanni Ricci un pagamento il 20 maggio 1636 (Pellegrini), il busto da porre nella cattedrale pugliese, dove si trova ancora oggi.
Già nel novembre del 1629 il nome del M. compare nei registri di spese vaticani per «la statua della Veronica» (Favero, p. 229) ed è citato in relazione a essa da Fausto Poli quando il 10 dicembre espose alla Congregazione generale della Fabbrica di S. Pietro il progetto di Urbano VIII, predisposto da Gian Lorenzo Bernini (ibid.). Per ornare le quattro grandi nicchie ricavate nei pilastri su cui si imposta la cupola della basilica e al di sotto dei tabernacoli con le preziose reliquie fu pensata la presenza di altrettante statue, una S. Elena eseguita poi da Andrea Bolgi, un S. Longino dello stesso Bernini, un S. Andrea realizzato da François Duquesnoy e appunto la Veronica del M., che nell’agosto del 1632 ricevette il saldo per il modello in stucco. In ragione del mancato arrivo del marmo da Carrara, solo nell’aprile del 1635 il M. iniziò a scolpire la colossale statua che, conclusa, alla fine di agosto del 1639 fu trasportata in S. Pietro da casa del M., l’unico dei quattro scultori impegnati nell’impresa ad aver lavorato nel proprio studio e non negli spazi appositamente adibiti in Vaticano. Collocata nella sua nicchia, il 4 novembre dell’anno successivo fu scoperta alla presenza del papa che «si soffermò a guardarla per essere molto bella e ben fatta» (così un Avviso: De Luca Savelli, in F. M.: 1580-1654, p. 134).
È possibile conoscere gli stati di avanzamento dell’idea attraverso alcune importanti testimonianze. Il progetto iniziale dovette essere quello tracciato da Gian Lorenzo Bernini nel 1627: una Veronica statica e frontale, molto tradizionale, così come è riprodotta in un volume di disegni conservati a Vienna (Graphische Sammlung Albertina: Lavin, p. 19, n. 87). Su questa prima intenzione intervenne il M., che apportò un cambiamento sostanziale. Egli immaginò infatti la Veronica in atto di correre, con le vesti e il velo sul quale è impresso il volto di Cristo al vento. Così è infatti nella stesura finale, anche se in corso di elaborazione dell’idea ci fu un mutamento. Lo attesta inequivocabilmente un disegno che, come per le altre tre statue, riproduce il modello colossale in stucco. Parte, come gli altri tre, del volume Prospetti e piante di tutti gl’edificij eretti sì dentro come fuori di Roma dalla felice memoria d’Urbano VIII, disegnati da Domenico Castelli (Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat., 4409), il disegno fu elaborato quasi certamente in occasione della visita del papa alla crociera, avvenuta tra il febbraio e il marzo del 1632, testimoniata da Torrigio, con gli stucchi collocati nelle rispettive nicchie (cfr. da ultimo Boudon-Machuel, pp. 103 s., figg. 99-100). In esso la Veronica è già pensata in movimento, ma qui il velo è decisamente più arretrato rispetto alla figura, tanto che la donna si gira a guardarlo, e rappresentato piuttosto di lato. Ciò avrebbe evidentemente creato problemi di stabilità nella realizzazione del grande marmo e soprattutto di visibilità della reliquia: e il modello subì un intervento successivo. Lo attestano due piccoli bronzi – uno perduto ma un tempo nella collezione dello scultore francese François Girardon e riprodotto nella sua Galerie (Montagu, p. 437, fig. 51), l’altro in collezione privata inglese (ibid.), forse più tardo della Veronica e non fuso dal M., ma tratto da suo modello – nei quali significative varianti sono lo sguardo frontale della Veronica e la presenza del volto di Cristo sullo stesso velo della donna, un scelta iconografica che non ha precedenti.
La Veronica è una straordinaria invenzione. È una sfida alla materia, nella estrema sottigliezza delle vesti e del velo raggiunta a forza di levare e levigare, e nella definizione da cesellatore di ogni particolare, per la quale il M. portava il frutto dell’esperienza dei grandi bronzi piacentini; nel movimento, è un’esplosione di pathos («Skulpturale Mimesis», la definisce Preimesberger, 1993) contenuto a stento nel marmo, il prorompere in uno spazio «altro» rispetto a quello costituito; è una matura, libera appropriazione della statuaria classica (ancora il gruppo dei Niobidi di villa Medici) forse vista attraverso le «violente» rielaborazioni del Quattrocento fiorentino e non solo (Hess, pp. 312 s., la relaziona alla figura del Nabucco colto dalla pazzia di Santi di Tito nelle storie per il Belvedere vaticano); è un insieme di scelte meditate e ardite, anche in merito alla tradizione iconografica e testuale; infine, ma non da ultimo, è un audace, quasi imbarazzante, messaggio del suo autore che, destando la «meraviglia di tutti» (così un documento orvietano del febbraio 1641: Favero, p. 150) ma anche aspre critiche (De Luca Savelli, in F. M.: 1580-1654, p. 76), irrompeva nella scena romana con la forza e la vitalità di questa donna, portatrice dell’unica verità, impressa nel sacro lenzuolo: una ninfa fiorentina e warburghianamente ripensata a livelli colossali, in maniera dunque del tutto originale, per sopraffare l’umanità con la propria intensità religiosa ed emotiva (Lingo).
Mentre conduceva i lavori vaticani, il M. ricevette altre importanti commissioni. Orazio Falconieri lo incaricò di realizzare il gruppo del Battesimo di Cristo per la cappella di famiglia in S. Giovanni dei Fiorentini (Passeri, p. 135; Pascoli, pp. 417, 422): le due statue di Cristo e del Battista – forse realizzate su modello in legno e in stucco di Pietro Berrettini da Cortona, come recitano due Avvisi del 1634 – non furono mai collocate sull’altare della chiesa, e rimasero sicuramente incompiute nello studio del M., come risulta dall’inventario dei beni redatto al momento della morte. Acquistate in seguito dagli stessi Falconieri su pressanti istanze di Girolamo Farnese e Alessandro VII, rimasero nel loro palazzo per andare poi, a seguito della vendita alla Chiesa, a ornare la testata di ponte Milvio (oggi al Museo di Roma). La sfortunata vicenda, anche critica, del gruppo è legata tuttavia e in qualche modo a quella del suo autore, attivo in una Roma dominata dall’astro e dalle influenze di Bernini. Le due statue sono concepite in maniera innovativa: legate da un rapporto intensamente spirituale, le figure sono come fermate nell’atto sacro e, pur occupando lo spazio nell’arco di un semicerchio con una essenziale gestualità e una meditata reciproca disposizione, non lo travalicano come nel gruppo giovanile dell’Annunciazione o nella Veronica. Il pathos è contenuto, compostamente classico.
Nel 1631 giunse un’altra commissione da parte dei Soprastanti dell’Opera del duomo di Orvieto per eseguire il S. Taddeo, ancora per la serie dei dodici apostoli della navata. Il M. vi lavorò solo a compimento della Veronica, e dunque dal 1640, quando si registrano i primi pagamenti; nell’estate del 1644 un carro trainato da «nove para de bufali» (Favero, pp. 150 s.) trasportò da Roma a Orvieto la statua che, durante il viaggio, subì la rottura del grande libro tenuto aperto sul braccio dall’apostolo mentre con le dita è impegnato nel computo. Per un «espressionismo linearistico» (Martinelli, in F. M., p. 16) quasi tedesco, il S. Taddeo del M. si colloca perfettamente nella sua produzione tarda, che se da un lato riflette una condizione di sofferenza per l’insufficiente apprezzamento di alcune opere del suo autore – alcune non collocate o aspramente criticate – dall’altro porta a maturazione certe tendenze già evidenziate nel corso della sua attività, in primis la ricerca di una profonda spiritualità del personaggio resa attraverso la severità dei gesti, dei panneggi, delle linee che solcano la figura.
Opera tarda, e in linea con la produzione contemporanea, devono pure ritenersi S. Pietro e S. Paolo, commissionati dai monaci di S. Paolo fuori le Mura verso il 1635. Le statue colossali dei due apostoli – sicuramente in lavorazione nel 1638 quando Totti, nel Ritratto di Roma moderna pubblicato quell’anno, e Baglione, nelle Nove chiese di Roma dell’anno successivo, citavano in loco i modelli in stucco – furono completate entro il 1652 (Favero, p. 94), ma non vennero mai collocate nel luogo per cui erano state pensate, l’una in relazione all’altra (si veda il bellissimo gioco di sguardi), su due piedistalli di fronte al ciborio di Arnolfo di Cambio: al centro di un’azione legale da parte della vedova del M. nei riguardi dell’inadempienza dei monaci, furono acquistate da Alessandro VII ancora su consiglio di Girolamo Farnese e poste nel prospetto esterno della porta del Popolo nel 1658, nell’ambito dei lavori di rifacimento condotti sotto la supervisione di Gian Lorenzo Bernini (ora a palazzo Braschi, sostituiti da calchi in gesso). Straordinaria oggi ma certamente troppo audace dovette apparire allora questa «irata, dolorosa invettiva a due voci» (Di Gioia, p. 86). Entrambi a bocca spalancata, colti quasi in un grido, sono in aperto dialogo tra loro e con l’osservatore: Paolo è al culmine dell’azione oratoria mentre con una mano addita il cielo e accigliato guarda Pietro, che fissa davanti a sé lo spettatore indicando risolutamente il libro aperto. La forza della parola e la tensione morale si traducono nel realismo impressionante della resa anatomica ma soprattutto nei laceranti panneggi scavati in profondità, brani di grande impatto emotivo.
Oltre a incarichi minori in città – forse opere di scultura a ornamento dell’abside e dell’altare maggiore di S. Maria in Via Lata, citati nel contratto del 1636 tra Francesco d’Aste e lo scalpellino Santi Ghetti (Favero, p. 157); un busto di Pio V presso l’appartamento del papa nel Palazzo apostolico vaticano e una statua di S. Pietro nell’appartamento del Belvedere, opere citate da Taja e non rintracciate (ibid., p. 24); il bellissimo Busto di Pompilio Zuccarini, uditore segreto di Camera di Urbano VIII e strettamente legato alla famiglia Barberini, realizzato per S. Maria ad Martyres, di cui era canonico, in concomitanza dell’incarico di reggenza della Compagnia di S. Giuseppe dei Virtuosi al Pantheon ricoperto dal M. nel 1638 – il M. ricevette anche altre commissioni fuori Roma: per un busto di Marcantonio Eugenj, destinato alla chiesa di S. Agostino a Perugia e non rintracciabile; per una statua di Urbano VIII, richiesta nel 1637 dal Civico Consiglio di Pesaro, poi però fatta eseguire a Lorenzo Ottoni molti anni dopo. A ciò si aggiunge la notizia secondo la quale il re di Francia Luigi XIII gli avrebbe offerto un lauto stipendio e la copertura delle spese di viaggio per un trasferimento che non si sarebbe mai concretizzato: l’unica testimonianza di un rapporto d’Oltralpe, forse mediato ancora dai Barberini (De Luca Savelli, in F. M.: 1580-1654, p. 84, n. 25), è offerta dalla Statua del cardinale Richelieu del Musée du Pilori di Niort, mutila e in pessimo stato di conservazione, databile intorno al 1640-41, quando nei documenti orvietani si fa cenno riguardo al M. a una committenza importante e straniera (Favero, p. 150).
Gli ultimi anni di attività del M. furono caratterizzati da delusioni e insuccessi: dal 1645 la sua presenza non è più registrata alle riunioni dell’Accademia di S. Luca; si vide revocare a favore di Algardi l’incarico di realizzare la statua in bronzo di Innocenzo X, destinata alla sala dei Conservatori nel palazzo del Campidoglio, incarico che il Senato Romano gli aveva affidato all’inizio del 1646 (ibid., p. 253); non portò a compimento l’ultima importante commissione risalente all’aprile del 1647 e per la quale ricevette un pagamento per il modello in gesso (ibid., pp. 157 s.), relativa alle statue di S. Matteo e S. Marco per la basilica di S. Giovanni in Laterano, nell’ambito del complessivo progetto di ristrutturazione, ideato da Francesco Borromini e realizzato solo in parte e molto tempo dopo, che prevedeva, tra l’altro, l’esecuzione delle statue degli apostoli da parte dei più importanti scultori del momento.
Il M. morì a Roma il 6 febbr. 1654, infermo, come si desume dal testamento redatto il 12 gennaio (ibid., pp. 253 s.), e fu sepolto, secondo il suo volere, in S. Andrea delle Fratte.
All’indomani della morte, il 13 marzo, fu steso l’inventario dei beni che, privo di indicazione di oggetti di valore, conferma la difficile situazione finanziaria del M. negli ultimi anni della sua vita. Nella casa di via Gregoriana, dove si era trasferito nel 1649, erano ancora presenti il S. Pietro e il S. Paolo, il gruppo con il Battesimo di Cristo, «un san Giovanni picolo di marmo … un Cavallino di cera con la figura», molto probabilmente l’esemplare del Bargello (ibid., pp. 158 s.).
Fonti e Bibl.: Il contributo monografico più recente sul M. è M. Favero, F. M. Una carriera di scultore, Trento 2008, in cui si trascrive per esteso la maggior parte dei documenti, editi e inediti, relativi al M.: si è scelto dunque questo quale riferimento per le citazioni documentarie, al quale si rimanda dove non altrimenti indicato. Per il resto si veda: F.M. Torrigio, Le sacre Grotte vaticane, Roma 1635, pp. 206, 219, 283; P. Totti, Ritratto di Roma moderna, Roma 1638, p. 117; G. Baglione, Le nove chiese di Roma …, Roma 1639, p. 80; G.B. Passeri, Vite de’ pittori, scultori ed architetti che hanno lavorato in Roma, morti dal 1641 al 1673 (post 1679), a cura di J. Hess, Leipzig-Wien 1934, pp. 130-137; F. Baldinucci, Notizie de’ professori del disegno … (1681-1728), IV, Firenze 1846, pp. 424 s.; V, ibid., p. 631; L. Pascoli, Vite de’ pittori, scultori ed architetti moderni, II, Roma 1736, pp. 411-422; A. Taja, Descrizione del palazzo apostolico vaticano, Roma 1750, pp. 282, 364; L. Luzi, Il duomo di Orvieto, Firenze 1866, ad ind.; W. Müller, Johannes der Taufer in der Hofkirche su Dresden, in Jahrbuch der Preussischen Kunstsammlungen, XLVII (1926), pp. 112-117; J. Hess, Nuovi aspetti dell’arte di F. M., in Bollettino d’arte, XXIX (1936), pp. 309-319; V. Martinelli, Contributi alla scultura del Seicento. I. F. M. a Roma, in Commentari, II (1951), pp. 224-235; G.A. Mansuelli, Galleria degli Uffizi. Le sculture, Roma 1958, I, scheda n. 83; I. Lavin, Bernini and the Crossing of St. Peter, New York 1968, ad ind.; I. Lavin - M. Aronberg Lavin, Duquesnoy’s «Nano di Créqui» and two busts by F. M., in The art bulletin, LII (1970), pp. 137-149; F. M.: 1580-1654 (catal., Montevarchi), Firenze 1981; J. Montagu, A model for the «Saint Veronica», in The Burlington Magazine, CXXIV (1982), pp. 430-436; I. Wardropper, A new attribution to F. M., in Italian drawings at the Art Institute: recent acquisitions and discoveries, Chicago 1991, pp. 102-119; P. Ceschi Lavagetto, Da un’occasione effimera i monumenti equestri ai Farnese di F. M., in Centri e periferie del barocco, I, Il barocco romano e l’Europa, a cura di M. Fagiolo - M.L. Madonna, Roma 1992, pp. 769-799; R. Preimesberger, Skulpturale Mimesis: M. Hl. Veronika, in Künstlerischer Austausch. Akten … 1992, a cura di T.W. Gaehtgens, Berlin 1993, pp. 473-482; E. Pellegrini, Giovanni Ricci e F. M.: il busto di Arcasio Ricci nel duomo di Gravina, in Commentari d’arte, V (1999), 12, pp. 26-28; M. Cambareri, F. M.’s «Annunciation» group for Orvieto cathedral, in The sculpture journal, VI (2001), pp. 1-9; J. Moser, Poesie und Rhetorik in Marmor: zu F. M. Dresdener Johannes, in Ars et scriptura. Festschrift für R. Preimesberger zum 65. Geburtstag, a cura di H. Baader et al., Berlin 2001, pp. 45-62; D. Allen - M. Cambareri, in Italian and Spanish sculpture: catalogue of the J. Paul Getty Museum collection, a cura di P. Fogelman - P. Fusco - M. Cambareri, Los Angeles 2002, pp. 200-207 e ad ind.; E.B. Di Gioia, Le collezioni di scultura del Museo di Roma. Il Seicento, Roma 2002, pp. 39-48, 62-71, 79-90; M. Cambareri, in The Encyclopedia of sculpture, a cura di A. Böstrom, New York 2004, II, pp. 1098-1102; M. Boudon-Machuel, François du Quesnoy. 1597-1643, Paris 2005, ad ind.; R. Preimesberger, «Respice faciem Christi tui», in L’immagine di Cristo. Dall’Acheropita alla mano d’artista. Atti … 2001, a cura di Ch.L. Frommel - G. Wolf, Città del Vaticano 2006, pp. 397-411; E. Lingo, M.’s edge, in The Oxford art journal, XXXII (2009), 1, pp. 1-16; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXIV, pp. 601 s.