LANDO, Francesco
Figlio di un Pietro di nobile famiglia veneziana, nacque verso il 1350, presumibilmente a Venezia; non si conosce il nome della madre.
Alla fine del 1367, quando papa Urbano V era tornato a Roma da Avignone, il L. - già avanti negli studi di diritto romano - ottenne, per decisione del Senato di Venezia, una lettera di raccomandazione del doge per una sua visita alla Curia, certamente per ottenere benefici ecclesiastici.
Di fatto egli fu ben presto in possesso di due canonicati nei capitoli delle cattedrali, rispettivamente di Corone e Modone, colonie veneziane sulla costa del Peloponneso. Sono note solo le entrate di Corone, stimate in circa 400 fiorini, quando il canonicato fu riassegnato nel 1407. Nell'agosto 1373 il L. si accingeva a partire per Corone e nel settembre ottenne dal Senato veneziano il permesso di intraprendere il viaggio di ritorno da Modone su una delle galee di Stato.
Nell'estate 1373 si fregiava del titolo di baccelliere in utroque. Nel maggio 1375 - come emerge da una sua testimonianza in un testamento - aveva già ottenuto la solenne promozione a doctor utriusque iuris; in questa occasione si dice di lui: "qui habitat Padue in contrata Sancte Catarine"; si può quindi supporre che egli avesse compiuto, o almeno concluso, gli studi all'Università di Padova.
Il L. fu presto attratto nell'orbita della Curia papale, che si trovava nuovamente ad Avignone dove, sotto Gregorio XI, il 15 febbr. 1376 prestò giuramento come giudice (auditor) della Sacra Rota e fece parte della familia di un cardinale, verosimilmente il giurista Simone da Borsano, morto nel 1381. Nel 1376-77 il L. prese parte al viaggio a Roma di Gregorio XI. Nell'aprile 1377 i legati veneziani in Curia dovettero raccomandarlo al papa; nel gennaio 1378 ottenne l'appoggio del Senato per le sue aspirazioni all'episcopato di Ceneda (oggi Vittorio Veneto), rimaste tuttavia senza successo. Più tardi, l'8 aprile, fu testimone oculare a Roma della turbolenta elezione di Urbano VI, presso la Curia del quale egli, in un primo momento, rimase: in qualità di uditore di Rota, fece redigere a Roma un documento ancora il 24 settembre, ossia quattro giorni dopo l'elezione, a Fondi, dell'antipapa Clemente VII. In data non nota il L. aderì all'obbedienza avignonese, trovandosi così contro la politica ecclesiastica della sua patria, che non si distaccò dall'obbedienza a Urbano VI.
Si ignora se il suo passaggio di campo fosse già avvenuto quando il L., il 18 apr. 1382, ottenne nuovamente dal Senato veneziano il permesso di imbarcarsi su una galea di Stato per il suo viaggio di ritorno da Modone.
Il passaggio alla parte di Clemente VII è attestato per la prima volta da un incarico da questo affidato al L. - qualificato come uditore di Rota e canonico di Nicosia, Corone e Modone - che portò a termine il 24 ott. 1383 a Montélimar, nella Francia meridionale. Clemente VII gli conferì poi il patriarcato di Grado, sede metropolitana delle sei diocesi del Dogato veneziano, nucleo originario della Repubblica. Questa promozione deve essere avvenuta prima del 26 sett. 1384, data in cui il papa concedette al L. l'amministrazione del vescovato di Corone, poiché egli non aveva potuto prendere possesso del patriarcato; i Veneziani infatti si erano schierati contro il L. perché partigiano dell'opposta obbedienza, mentre accettarono un patriarca nominato da Urbano VI. Queste resistenze, però, non significarono una completa rottura. Al contrario, il L. risulta nuovamente a Venezia già il 19 genn. 1385, quando affidò a un notaio il suo testamento, redatto il giorno prima.
In esso erano predisposti due cicli annuali di messe quotidiane per la salvezza dell'anima del testatore e 300 ducati da versare agli ospedali e ai poveri di Venezia. Eventuali entrate ancora spettantigli dai canonicati di Corone e Modone dovevano essere divise sul posto; altri 50 ducati dovevano essere impiegati in quei luoghi per una serie di paramenti liturgici, nel caso che egli non li avesse già donati in vita; come erede principale era indicato il fratello Vitale al quale, dopo l'esecuzione dei legati, doveva andare il resto del patrimonio.
La presenza del L. a Venezia è documentata anche il 12 giugno 1391, quando lui e il fratello Vitale si concessero a vicenda la procura riguardante un'amministrazione ereditaria. Diversamente da quanto accadde per il patriarcato di Grado e la diocesi di Corone - anche per questa Urbano VI avrebbe disposto altrimenti, al più tardi nel 1386 - il L. poté godere per molto tempo dei già citati canonicati (con le loro entrate). Comunque rimase in contatto con la Grecia anche in seguito. Nell'estate 1403 fu catturato da pirati turchi nel mar Ionio; nella delibera del Senato in cui si ricorda questa disavventura non appare altro titolo all'infuori di "dominus". Prima del 1407 egli sembra aver rinunciato al canonicato di Corone: Gregorio XII lo assegnò a Gabriele Condulmer, il futuro papa Eugenio IV, con l'espressa indicazione del L. come precedente titolare. In cambio di esso il L. ricevette nel 1404 dal papa avignonese Benedetto XIII l'arcidiaconato di Agde e nel 1406 la prepositura di Embrun. Con quest'ultimo titolo - manifestamente il suo beneficio di rango più elevato - e non come patriarca, il L. venne qualificato quando, dall'aprile 1406 alla fine del 1407, fu a capo della Cancelleria pontificia in assenza del vicecancelliere.
Singoli indizi indicano che il L. era rimasto in contatto con Venezia; l'appartenenza a una diversa obbedienza del grande scisma d'Occidente non costituiva evidentemente un ostacolo insuperabile. Agli inizi del 1405 il Collegio reggente deliberò di mantenere i contatti epistolari con il L. per certe questioni diplomatiche attraverso il fratello Vitale, ma successivamente fu chiesto apertamente il suo aiuto per un ambasciatore inviato a Genova al fine di comporre le controversie tra le due Repubbliche. Il L. inviò dalla Liguria una delega notarile, del 15 nov. 1407, al nipote Marino, figlio di Vitale, affinché questi anche per suo conto fungesse da esecutore testamentario per l'eredità di Vitale, nel frattempo defunto; Vitale lo aveva peraltro costituito erede residuario, data la giovane età dei figli.
Naufragate nel maggio 1408 le trattative tra i due papi contendenti, il L. si unì alla maggioranza dei cardinali che avevano preso le distanze da ambedue; andò al concilio di Pisa, aperto il 25 marzo 1409, nel corso del quale gli fu chiesto di testimoniare nel processo contro Benedetto XIII e Gregorio XII, e il 5 giugno sottoscrisse la sentenza di deposizione di ambedue i papi, usando di nuovo il titolo di "electus Gradensis" (nell'elenco dei partecipanti egli è per lo più chiamato addirittura "patriarcha Gradensis"). In quel momento, però, vi era anche un altro patriarca di Grado, Giovanni Zambotti, che ricopriva questo ufficio dal 1406 e che i governanti della Repubblica di Venezia non volevano in alcun modo far dimettere. Alessandro V, il papa eletto dal concilio, definì la situazione della doppia aspettativa allo stesso beneficio già a Pisa il 22 ag. 1409, conferendo al L. il patriarcato di Costantinopoli.
Anche questa prelatura riguardava il dominio veneziano, perché la sua sede ufficiale era a Negroponte (Eubea) e importanti possedimenti si trovavano a Creta. Le autorità locali furono avvertite all'inizio del 1410 di consegnare le entrate al procuratore del patriarca appena nominato; tale avvertimento era probabilmente necessario, perché Gregorio XII aveva dapprima riservato per sé i redditi del patriarcato, del quale era stato titolare fino al 26 ag. 1409, quando egli lo aveva assegnato al veneziano Giovanni Contarini.
Nonostante la sua nomina, il L. sembra essere rimasto regolarmente presso la Curia pontificia. Lì, alla fine del 1409, i governanti veneziani lo incaricarono del disbrigo di una questione di politica ecclesiastica.
Egli si trovava a Roma quando il nuovo papa Giovanni XXIII il 5 giugno 1411 lo creò cardinale prete di S. Croce in Gerusalemme. Il L. adottò abitualmente la denominazione di "cardinalis Venetiarum", senza dubbio per sottolineare il perdurante legame con la sua patria. Egli ottenne il permesso di utilizzare le entrate del suo patriarcato come amministratore per ulteriori tredici mesi. Nel giugno 1413 il L. fuggì da Roma alla volta di Bologna con Giovanni XXIII, davanti alle truppe del re di Napoli Ladislao d'Angiò Durazzo ed era presente quando questo pontefice, alla fine dello stesso anno, si incontrò a Lodi con il re dei Romani Sigismondo di Lussemburgo per indire il previsto concilio generale.
Lungo il viaggio egli informò, il 26 novembre da Modena, i governanti di Venezia sugli sforzi del papa per giungere alla conclusione di una pace tra il re e la Repubblica; a lui sarebbe spettato il compito di difendere l'onore di Venezia contro le calunnie di Sigismondo.
Nell'ottobre 1414 il L. compì con la Curia il viaggio da Bologna a Costanza; sembra non aver lasciato la sede del concilio sino alla sua conclusione, nemmeno quando Giovanni XXIII, nella notte tra il 20 e il 21 marzo 1415, fuggì dalla città e ingiunse ai cardinali e agli altri curiali di seguirlo; la metà di essi obbedì all'ordine. Il L. evitò in ogni modo di partecipare alle sedute solenni di marzo e aprile, nelle quali furono ribadite soprattutto la legittimità del concilio anche senza la presenza del papa e la sua ininterrotta validità; probabilmente come giurista aveva qualche difficoltà a condividere tale posizione. Già a metà maggio il suo nome compare nuovamente tra quelli dei cardinali presenti alle riunioni. Era presente alla deposizione di Giovanni XXIII il 29 maggio e alla condanna di Jan Hus per eresia, il 6 luglio. Nel novembre 1416 e nell'aprile 1417 fu citato come testimone nel processo di deposizione contro Benedetto XIII ed è testimoniata la sua partecipazione a numerose sessiones dedicate alla prosecuzione di tale questione, culminanti il 26 luglio 1417 con la deposizione, per la seconda volta, di un papa di cui il L. era stato fautore. Nell'insieme è chiaro che il L. si defilò più di altri suoi colleghi e sembra aver rinunciato a iniziative personali.
Questo comportamento lo rese inoltre gradito a molti elettori papali. Infatti nel conclave da cui, con un procedimento elettorale altamente complicato, uscì eletto Oddone Colonna, Martino V, come papa del compromesso (8-11 nov. 1417), il L. risultò quarto in entrambe le votazioni; per la vittoria gli mancò soprattutto il sostegno della nazione tedesca e di quella inglese. Egli stesso mostrò nel suo voto una chiara preferenza per i cardinali dell'ex obbedienza avignonese: sulla sua scheda di voto egli indicò - oltre all'uditore di Rota Giacomo Turdi da Campli, vescovo eletto ma non confermato di Penne e Atri - Jean de Brogny e Amedeo di Saluzzo; nella seconda elezione, inoltre, Guillaume Fillastre.
Anche sotto Martino V il L. rimase il più importante uomo di fiducia di Venezia presso la Curia. Tali contatti sono attestati da numerose delibere del Senato nelle quali sono citate comunicazioni del L. e sono formulati incarichi per lui; così fu per il sostegno all'ambasceria veneziana dell'inizio del 1418 che doveva non solo congratularsi con il nuovo papa e prestare il giuramento di obbedienza, ma anche chiedere la sua mediazione per la conclusione di una pace con Sigismondo di Lussemburgo, perché la fine della tregua quinquennale era vicina. In seguito, saltuarie informazioni mostrano come la Repubblica, nella sua politica verso la Chiesa, cercò sempre l'appoggio del Lando.
Il L. rimase fino alla morte ininterrottamente vicino a Martino V. Insieme con lui lasciò la città del concilio il 16 maggio 1418; dopo lunghe permanenze a Ginevra, Torino, Mantova e Firenze, la Curia, il 28 sett. 1420, giunse a Roma, dove il papa rimase durante tutto il suo pontificato, eccetto temporanei soggiorni nelle immediate vicinanze.
Dal 16 dic. 1417 il L. svolse la funzione di sostituto del camerario del Collegio cardinalizio ("camerariatus officium ipsius collegii regens") Amedeo di Saluzzo che era assente, come aveva già fatto due volte, negli anni 1413-15, ogni volta per alcuni mesi; dopo la morte del titolare dell'ufficio fu nominato suo successore il 19 luglio 1419. Il 23 dic. 1424 giunse poi per il L. una promozione di rango, con la nomina a cardinale vescovo di Sabina.
A Roma, il L. diede inizio alla realizzazione di una spettacolare fondazione, destinata a tenere a lungo vivo il ricordo del suo nome.
Come presupposto, il 16 giugno 1421 ottenne da Martino V il permesso di testare. Acquistò poi a Roma sei edifici destinati ad abitazione, i cui redditi sarebbero serviti a finanziare la fondazione. Il 20 maggio 1423 fece redigere formalmente una donazione somigliante a una disposizione testamentaria. In quel momento aveva già fatto erigere un monumento sepolcrale per sé nella basilica romana di S. Maria Maggiore e vicino all'altare maggiore una cappella il cui altare fu dedicato all'Assunzione di Maria e a S. Francesco. Il L. stabilì espressamente, per l'incremento del clero della basilica, entrate annue complessive di 100 fiorini, ricavate dalle rendite delle case, per due cappellani, affinché in eterno si celebrasse ogni giorno la messa presso quell'altare. Un particolareggiato statuto in venti punti stabiliva i dettagli relativi al patrimonio, alla manutenzione delle case - due delle quali erano previste come abitazione per i due preti -, alle qualifiche e ai doveri dei cappellani, alla loro nomina, al loro controllo da parte del capitolo di S. Maria Maggiore. Il L. si fece confermare l'intero testo lo stesso giorno da parte del capitolo e il 13 giugno dal papa.
Il 7 ag. 1426 egli aggiunse al patrimonio della sua fondazione tre case, che aveva comprato nel frattempo, per altri due cappellani e infine, il 15 novembre, un capitale investito alla Camera dei prestiti di Venezia dal quale dovevano derivare rendite annue dell'ammontare di 64 fiorini, come compenso per altri due cappellani e un chierico e per la loro assistenza.
Col suo testamento, chiuso e sigillato il 13 sett. 1426 alla presenza degli ambasciatori veneziani presso il papa, tra i quali il celebre umanista Francesco Barbaro, il L. completò i suoi legati ad pias causas. Accanto a elargizioni annue per complessivi 121 ducati ai poveri di due parrocchie veneziane (S. Provolo, S. Zane Novo, dove probabilmente si trovava la casa paterna) - che "imperpetuum" avrebbero dovuto derivare dalle citate rendite veneziane - spicca soprattutto una borsa di studio: il L. destinò, del pari in perpetuo, rendite per un ammontare di 120 ducati all'anno - dei quali 80 per il sostentamento e 40 per i libri - a uno studente di giurisprudenza della propria famiglia o della sua parentela allargata. Il testamento contiene inoltre dettagliate disposizioni per la salvezza dell'anima, per la quale erano da celebrare, una dopo l'altra, messe per trenta giorni in otto conventi veneziani di Ordini mendicanti e da parte di due preti secolari, per 60 giorni dopo la sua morte. Erano previste somme di denaro, parte in contanti e parte investite in prestito pubblico, per la cognata "Zaneta", per i nipoti Marino e Pietro, figli di Vitale, infine per il completamento delle doti delle figlie di Marino. Ciò che sarebbe rimasto dopo l'esecuzione di tutti i legati doveva essere interamente speso "pro anima nostra", per i poveri, per la costruzione di chiese, per i debitori condannati al carcere, per la dote di fanciulle bisognose. Il L. nominò suoi esecutori testamentari i procuratori di S. Marco, e precisamente quelli che erano competenti per le commissarie nei tre sestieri "de citra Canali". Il 25 apr. 1427 il L. dettò ancora un codicillo con il quale soprattutto aumentava gli stanziamenti per la dote delle quattro figlie di Marino.
Queste pie donazioni degli ultimi anni della sua vita colpiscono particolarmente, se si paragonano alle elargizioni che lo stesso L. aveva previsto nel testamento del 1385. Le differenze chiariscono quali immense ricchezze materiali in quel tempo fossero a disposizione di un ecclesiastico dopo che per una quindicina di anni aveva ricoperto la dignità cardinalizia e ne aveva goduto le corrispondenti entrate.
Il L. non fu esecutore testamentario solo di suo fratello Vitale; anche il figlio di questo, Marco, nelle sue ultime volontà del 29 nov. 1424, lo aveva nominato al primo posto nella stessa funzione, affinché la sua voce fosse determinante nelle controversie; inoltre egli autorizzava il L. a fare variazioni a sua discrezione. Marco, contro la volontà del padre, era divenuto ecclesiastico e, in quanto tale, godeva della protezione dello zio. Gli aveva fatto visita a Costanza ed era certamente già lì quando il 15 dic. 1417 Martino V - benché Marco non avesse raggiunto la prescritta età di 30 anni - lo aveva promosso vescovo di Castello, diocesi che corrispondeva alla città di Venezia. Marco morì appena un anno dopo la stesura del suo testamento, presumibilmente il 12 nov. 1425. Anch'egli fondò una cappella, ancora oggi esistente in S. Pietro di Castello, l'antica cattedrale di Venezia.
Il L. si trovava presso la Curia, a Roma, quando morì il 26 dic. 1427.
Della sua cappella in S. Maria Maggiore, sopravvissuta sino al XVII secolo, oggi non c'è più traccia. Del sepolcro monumentale, posto allora nel luogo originario, rimangono il coperchio del sarcofago con la scultura del cardinale giacente e l'iscrizione sepolcrale completa, ora collocati presso le scale della canonica.
Per quanto riguarda la fortuna delle sue donazioni, sono state tramandate notizie solo su quelle di cui dovevano occuparsi i procuratori di Venezia, perché il loro archivio si è conservato: il capitale per i legati perpetui fu da loro amministrato sino al XVI secolo, ma già dalla metà del XV allo Stato veneziano riusciva sempre più difficile garantire realmente il rendimento assicurato del suo prestito pubblico: cosicché gradualmente venne a mancare il denaro per la realizzazione dello scopo delle donazioni.
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