INGHIRAMI, Francesco
Nacque a Volterra il 23 ott. 1772, da Niccolò, di famiglia di antico patriziato e da Lidia Venuti, di famiglia nobile cortonese.
Entrambe le famiglie, di tradizione colta, avevano avuto un ruolo nel nascere degli studi etruschi: nel primo '600 Curzio Inghirami era stato autore di discussi Etruscarum antiquitatum fragmenta (1637) e di un Discorso sopra l'opposizioni fatte all'antichità toscane (1645); nella prima metà del '700 i fratelli Ridolfino, Marcello e Filippo Venuti avevano patrocinato gli studi di antichità etrusche dando luogo all'Accademia etrusca di scienza ed erudizione, di cui Filippo Buonarroti fu il primo lucumone.
L'I., penultimo di otto fratelli (tra questi Giovanni, noto matematico e astronomo), studiò fino a 13 anni nelle scuole pie di Volterra; nel 1785 il padre lo inviò a Malta presso l'Ordine gerosolimitano, seguendo la tradizioni della famiglia, che aveva indirizzato numerosi cadetti a entrare negli Ordini di Malta e di S. Stefano. Incaricato di accompagnare il re di Napoli Ferdinando IV di Borbone nei viaggi marittimi, poté fermarsi a Napoli come cadetto reale, anche per l'appoggio dello zio materno Domenico Venuti, che a Napoli era direttore delle Regie Fabbriche delle porcellane, presidente del Museo Farnesiano e direttore degli scavi archeologici di Ercolano, sulla scia del padre che fra 1738 e 1740 aveva ricoperto a Napoli gli stessi incarichi.
Sollevato dagli impegni militari si dedicò a studi di fisica e di disegno ed ebbe modo di avvicinare importanti personaggi dell'ambiente culturale. La Dichiarazione delle pitture di un servizio da tavola modellato in porcellana (Napoli 1790) e una relazione conservata nell'archivio di famiglia (Barni, p. 56) su scavi compiuti a Telese, a San Salvatore e a Marafo come sostituto dello zio, sono i suoi primi scritti.
Nel 1791 dovette tornare a Malta per riprendere la carriera militare, di più sicuro avvenire. Ma presto, ammalatosi, fece ritorno a Volterra, dove, deceduto il padre, riprese l'archeologia. Le urne volterrane, rese note a un pubblico più vasto dai primi due volumi del Museum Etruscum di A.F. Gori (1737), suscitavano l'interesse degli eruditi per la loro peculiarità, essendo in alabastro e policrome, con scene in bassorilievo di mitologia greca e di vita pubblica e privata etrusca assenti altrove. Dopo i primi ritrovamenti, la Comunità cittadina aveva posto l'attività di scavo a Volterra sotto il controllo di una commissione, e la famiglia Inghirami era stata fra le prime a chiedere di compiere ricerche archeologiche nei propri terreni (1760-70). Alla morte del padre i fratelli Inghirami, rispettando la primogenitura, avevano ceduto la loro porzione di proprietà al maggiore, Curzio, in cambio di un vitalizio di 100 lire mensili, insufficienti per un livello di vita decoroso; così l'ambiente e le doti di disegnatore spinsero l'I. a perfezionare lo studio dei monumenti etruschi e le tecniche grafiche per riprodurli. Ciò gli permise di collaborare con il fratello Marcello, proprietario della prima fabbrica di alabastri a Volterra, nella riproduzione di modelli artistici classicheggianti assai richiesti. Fin dall'inizio, dunque, le sue attività furono molteplici, anche se prevalsero quelle di disegnatore e di archeologo.
Una pausa gli fu imposta dalla campagna antifrancese del 1799, cui partecipò come capitano di cavalleria, eletto dal governo provvisorio volterrano. Gli avvenimenti cui prese parte sono descritti nella Relazione officiale dell'imprese fatte dalle armi volterrane nel litorale toscano (Livorno 1799). Concluse le operazioni militari e fallita la manifattura del fratello, tornò ad applicarsi agli studi, completati da viaggi in Sicilia e a Roma. Aveva preso a frequentare a Pisa, tra il 1799 e il 1800, il pittore paesaggista brandeburghese Filippo Hackert, con il quale si trasferì a Firenze accompagnandolo in escursioni in Toscana per ritrarre i paesaggi e vivendogli al fianco fino alla morte (1807). Avvicinò anche il fratello, Giorgio Hackert, dal quale ricevette le principali nozioni per l'incisione su rame. Si iscrisse ai corsi di disegno dell'Accademia delle belle arti di Firenze e si avvicinò a L. Lanzi, regio antiquario lorenese dal 1790 alla morte nel 1810, che lo incoraggiò a continuare negli studi di archeologia e a perfezionarsi nel disegno e nell'incisione dei monumenti antichi, di cui cominciavano a essere grandemente richieste le riproduzioni.
I problemi finanziari che lo affliggevano a Firenze non potevano certo essere risolti con lezioni private e sporadici incarichi di pittore. Nel 1809 tornò dunque a Volterra, con l'incarico di bibliotecario comunale e prefetto del Museo etrusco Guarnacci, che mantenne formalmente fino al 1815. Profittando della collezione del Museo riprese a perfezionarsi nel disegno dei reperti, aiutandosi con tecniche desunte da A. Dürer per rendere più rapida la produzione di più copie. In questo periodo maturò a Volterra l'idea di una grande opera che illustrasse i monumenti etruschi; fu formato un comitato di dodici membri, che doveva provvedere anche ai finanziamenti, del quale facevano parte, oltre a due fratelli dell'I., Curzio e Inghiramo, R. Guarnacci, il conservatore del Museo A. Ormanni e il vescovo, G. Incontri. Da un primo proposito, che si limitava a illustrare le urne del museo, si passò a quello di fare conoscere le urne volterrane, ovunque conservate; occorreva quindi una persona che risiedesse a Firenze per avere a disposizione anche i reperti del Museo lorenese e avere contatti più estesi per la realizzazione dell'opera. Così l'I. si allontanò di nuovo e definitivamente da Volterra, a parte qualche rapido ritorno, anche a seguito dell'incomprensione dei familiari per la sua scelta di sposare una colta esponente della media borghesia, Rosaria Albina Valenti, anziché una fanciulla del ceto nobiliare come nella tradizione di famiglia.
Ancora una volta la vita a Firenze inizialmente fu dura. L'I. si ingegnò anche come pittore di scene teatrali; solo nel 1815 divenne sottobibliotecario della Libreria Marucelliana di Firenze. Ma gli interessi di studio continuarono a prevalere, anche se i rapporti con il comitato di Volterra divennero difficili, finché nel 1813 egli se ne sentì svincolato e decise di procedere da solo. Intanto aveva iniziato una corrispondenza con l'epigrafista perugino G.B. Vermiglioli, mentre giovò al suo prestigio di studioso la stima del Lanzi, che lo aveva incoraggiato a pubblicare le sue obiezioni a L'Italia avanti il dominio dei Romani di G. Micali (Livorno 1810).
Sebbene premiata dall'Accademia della Crusca, quest'opera aveva suscitato perplessità nell'ambiente fiorentino; non piaceva ai letterati di età napoleonica la rivalutazione dei "piccoli stati" preromani e soprattutto l'interpretazione antimperiale. Le sue Osservazioni sopra i monumenti antichi uniti all'opera intitolata L'Italia… apparvero nella Collezione di opuscoli di scienze, lettere e arti (XIII, Firenze 1811), unica rivista fiorentina di cultura in quegli anni. La memoria dell'I., che rilevava errori di interpretazione storica e grafica delle immagini riprodotte nell'atlante, ebbe successo; fu apprezzata dall'archeologo francese D. Raoul-Rochette, che la tradusse per un'edizione parigina. I rapporti fra i due continuarono: nei suoi Monuments inédits d'antiquité figurée grecque, etrusque et romaine (Parigi 1833) il francese pubblicò alcune tavole dell'I., mentre questi in un'opera di argomento simile, la Galleria omerica, aveva più volte richiamato l'autorevolezza dell'archeologo francese. Tuttavia si scostò da lui nelle interpretazioni dei monumenti riguardanti l'Odissea, ma ciò non può meravigliare in un ambiente di studi ancora privi di paradigma scientifico. Nel secondo decennio del secolo emersero anche le linee, rimaste poi immutate, della sua discussa interpretazione astronomico-religiosa dell'arte etrusca (Lettera al sig. barone di Zac… sopra un bronzo etrusco, Genova 1819).
L'impresa della pubblicazione dei Monumenti etruschi partiva dunque dal sincero interesse dell'I. per l'archeologia, e particolarmente per l'etruscologia, ma vi ebbe parte anche il successo crescente di illustrazioni di monumenti etruschi e la pubblicazione di atlanti, iniziato in Toscana con l'edizione del De Etruria regali (1723-24) di T. Dempster, completata dalle aggiunte iconografiche di F. Buonarroti. Il Museum Etruscum di A.F. Gori si era posto su questa strada e in quel momento in Toscana, dove gli scavi, privi di controllo governativo efficace, stavano assumendo dimensioni notevoli attirando studiosi, collezionisti, mercanti e speculatori, l'atlante del Micali aveva evidenziato l'interesse del pubblico per questo genere di opere. Ma per realizzare il progetto occorreva una solida impresa, in grado di affrontare le spese per la raccolta dei materiali, la retribuzione di disegnatori, incisori e tipografi, con una campagna adeguata per le sottoscrizioni. L'I. si mostrò imprenditore capace, riuscendo a sostenere con un'impresa artigianale i suoi progetti editoriali. Fin dal 1815, dopo la morte della prima moglie, si era trasferito in comodato nella foresteria della badia fiesolana dedicandosi al disegno, alla grafica e all'incisione, e raccogliendo il vastissimo materiale iconografico che gli sarebbe occorso; lo aiutò Benvenuta Luisa Salvetti, poetessa di nobile famiglia volterrana che aveva sposato in seconde nozze. Nel 1819 chiese e ottenne dal granduca Ferdinando III l'autorizzazione per impiantare in quei locali una calcografia e tipografia, non solo per portare a compimento la complessa lavorazione delle opere progettate, ma per contribuire a vivacizzare con pubblicazioni letterarie e scientifiche il panorama culturale della città, privo di stimoli in quegli anni. La Collezione di opuscoli di T. Daddi non giunse oltre il 1818 per difficoltà finanziarie, e ciò costituì un'ulteriore spinta all'impresa dell'Inghirami. Dal 1820 al 1823, attraverso i fascicoli della Nuova Collezione di opuscoli e notizie di scienze lettere ed arti, egli fornì materiale di interesse letterario, scientifico e artistico, oltre a notizie bibliografiche e giudizi stranieri su opere italiane. Particolarmente si propose di dar conto delle belle arti antiche e moderne. Tutto ciò, però, fu possibile solo fin quando la comparsa dell'Antologia di G.P. Vieusseux fece svanire il ristretto pubblico che si era rivolto al suo periodico. Rimase tuttavia legato al gruppo degli amici del Gabinetto scientifico e letterario; quando nel 1825 Vieusseux presentò al granduca il progetto, poi inattuato, per istituire un ateneo che provvedesse a completare la cultura del ceto dirigente fiorentino, l'I. figurava fra i professori. Più tardi fu chiamato a far parte formalmente del comitato dei fondatori dell'Archivio storico italiano, a dimostrazione dei rapporti che li univano.
Per organizzare la tipografia in modo da garantire risparmio, efficienza e buoni risultati grafici, l'I. si addossò gran parte del lavoro di riproduzione grafica e di incisione, ma ebbe soprattutto l'accortezza di istituire una sorta di scuola per tipografi, organizzata a convitto. In questa, coadiuvato da un piccolo numero di esperti, teneva corsi di cultura generale necessaria ai futuri tipografi e più specifici insegnamenti di calcografia e tipografia. Gli allievi, sotto una disciplina giudicata da alcuni troppo severa, prestavano come tirocinanti la loro opera e apprendevano un'arte assai richiesta. Fiducioso nelle capacità delle donne, ma probabilmente spinto dal basso costo del lavoro femminile, l'I. introdusse anche alcune operaie, ma dovette desistere presto per lo scandalo suscitato dalla pretesa promiscuità. I buoni risultati della scuola-convitto attirarono molti giovinetti: negli anni più attivi si calcola che apprendisti e dipendenti della Poligrafia fiesolana fossero circa quaranta. L'I. compose per gli scolari anche un manuale, Il Poligrafo istrutto, opera elementare, con esemplari o tavole in litografia, rimasto inedito per il giudizio contrario espresso dai professori dell'Accademia delle belle arti. Come si vede, diversi episodi mostrano il suo isolamento in questa attività. A fianco alle opere archeologiche, negli anni '30 pubblicò diversi titoli in una collana di argomento religioso, affiancata da alcune opere letterarie (le Opere scelte del Foscolo, 1835, e la Novella storica relativa a Lorenzo de' Medici del Lasca [A.F. Grazzini] sembrano le più degne di segnalazione). Si valse poi spesso della tipografia per pubblicare propri scritti.
Tra gli scritti minori dell'I. vanno almeno ricordati (le opere senza indicazione di luogo sono stampate presso la Poligrafia fiesolana): Estratto dal libro intitolato "De pateris antiquorum", Firenze 1815; Descrizione dell'imperiale e regio palazzo Pitti di Firenze (ibid. 1819 e, in traduzione francese, 1832); Alcune figurine di Arezzo (s.l. 1820); Delle influenze lunari, 1820; Descrizione della badia di Fiesole, 1820; Sopra il libro intitolato "Equeiade", 1820; Osservazioni sulle antichità di Selinunte, 1825; Lettere di etrusca erudizione, 1828; Al ch. sig. cav. Abate C.B. Zannoni (s.l. 1830); Etrusco museo chiusino, I-II, 1832-33; La galleria dei quadri esistente nell'imperiale e real palazzo Pitti, 1834; Sulle ricerche di Vetulonia, Firenze 1837; Memorie storiche per servire di guida all'osservatore in Fiesole, 1839.
Sebbene la gestione totalmente personale e la scarsezza di mezzi finanziari con cui aveva sempre dovuto fare i conti portassero poi la tipografia a un lento declino, nel giro di un anno fu in grado di pubblicare i primi numeri della Nuova Collezione di opuscoli e notizie di scienze lettere e arti (1820) e il primo volume dei Monumenti etruschi o di etrusco nome incisi, illustrati e pubblicati (1821-26, 10 voll.).
Molti furono gli amici cui si rivolse per raccogliere materiali e sottoscrizioni, per finanziamenti e per propagandare l'opera. Raggiunse G. Capponi a Parigi e a Londra con richieste di disegni di materiale etrusco presente nelle collezioni locali. Finanziariamente fu aiutato da J.G. Eynard, consigliere del granduca, cui si aggiunsero lo stesso Capponi, G. Pucci, M.A. de Boutourline, P. Torrigiani e altri. I volumi, poderosi in 4°, uscivano in fascicoli; il manifesto di presentazione parla di 600 incisioni miniate su rame e di 2000 pagine totali. Si stamparono 300 esemplari, di cui 15 su carta speciale. Il prezzo totale alla sottoscrizione era di 600 lire toscane. L'opera comprendeva dunque un testo di interpretazione e commento e le tavole, copie assai fedeli degli originali e unitarie nello stile, rimaste punto di riferimento degli studiosi per tutto il secolo. L'I. aveva progettato serie distinte: urne etrusche in pietra scolpita, bronzi etruschi, specchi mistici, vasi fittili ecc., ma non vi si attenne. Ripropose l'interpretazione astronomico-religiosa già presentata nel 1815, secondo cui le immagini tramandate dagli Etruschi nascondevano simbologie religiose e astronomiche, riferendosi alla relazione costante delle anime con il Sole. Insistette sul rapporto fra Greci ed Etruschi, contraddicendo nuovamente il Micali, e corresse la lettura di alcune immagini sepolcrali. Successo unanime ebbe la tesi, anch'essa già presentata nel 1815, che vedeva nelle così dette patere sacrificali gli specchi mistici manubriati su cui si era largamente documentato. Sui vasi fittili - un genere cui s'interessava un pubblico sempre più vasto - tornò più tardi, riproducendo reperti di nuova acquisizione, pur senza aggiungere novità interpretative (Pitture dei vasi fittili, per servire allo studio, alla mitologia ed alla storia degli antichi popoli, 4 voll., Poligrafia fiesolana, 1835-37). Altra opera di grande impegno tipografico fu la Galleria omerica o Raccolta di monumenti antichi per servire allo studio dell'Iliade e dell'Odissea (3 voll., Poligrafia fiesolana, 1831-35). Nel presentare monumenti antichi che illustravano Omero, significativi per le belle arti, l'I. affrontò la questione allora assai dibattuta della molteplicità delle tradizioni di quei poemi.
La sua dottrina lo rese noto presso i più impegnati archeologi, ai quali cercò di fornire assistenza, consigli e materiali con generosità. Con i direttori dell'Instituto di corrispondenza archeologica di Roma, E. Gerhard ed E. Braun, ebbe un nutrito scambio epistolare e talvolta collaborò anche alle riviste dell'Instituto. Ciò nonostante rimase estraneo al traffico dei reperti antichi, nel quale l'Instituto aveva un ruolo primario per conto dei collezionisti tedeschi. Nel 1830 si impegnò per alcuni mesi a scavare in Maremma alla ricerca dell'antica Vetulonia e più tardi fu a Populonia, a visitare quanto A. François aveva portato alla luce. Di questo, come estimatore e amico, appoggiò presso Leopoldo II (1845) la richiesta di patrocinio pubblico per una campagna di scavi in Toscana, un avvenimento importante che poteva vincere l'indifferenza con cui fino ad allora le autorità avevano guardato al commercio archeologico nel territorio. Fu ancora l'I. a spingere il canonico G.B. Pasquini, del Museo di Chiusi, a pubblicare una rassegna illustrata degli scavi là compiuti fra 1818 e 1834 (L'EtruscoMuseo chiusino… con brevi esposizioni…, 2 voll., Poligrafia fiesolana, 1833-34), una sorta di primo catalogo ufficiale per frenare i trasferimenti illeciti di materiale, particolarmente rilevanti in quella città.
L'ultima sua opera, La storia della Toscana divisa in sette epoche, susseguita da una biografia degli illustri toscani e da una bibliografia storica… un indice di materie… e un atlante geografico, archeologico e artistico (Poligrafia fiesolana, 17 volumi, 1841-45), fu lungamente pensata e, pur nella generale impostazione di conformismo patriottico, riveste ancora oggi aspetti storiografici interessanti. Altrettanto indicativo è il momento della pubblicazione, coincidente con gli inizi dell'Archivio storico italiano, che uscì nel marzo del 1842.
Non meraviglia che alla Toscana preromana l'I. dedicasse ben tre volumi, attenendosi per l'origine degli Etruschi alle posizioni di B.G. Niebuhr e attribuendo loro la prima formulazione del diritto delle genti. Per l'Alto Medioevo si attenne ai Discorsi storici di V. Borghini, collocando la restaurazione dell'Italia e di Firenze per mano di Carlo Magno e rigettando la tesi più radicale delle Storie fiorentine di B. Varchi, appena pubblicate. Nella sua visione i secoli repubblicani erano stati tempi di libertà, iniziati con la ribellione di Matilde di Canossa all'Impero; la soggezione di Firenze e della Toscana era tornata con Clemente VII. Interessano nell'opera l'ampio spazio dedicato per ogni epoca ad argomenti di storia materiale allora poco frequentati (storia dell'alimentazione, dell'agricoltura, del vestiario, dei costumi domestici, del commercio ecc.) e l'atlante storico-geografico, per il quale l'I. fu aiutato da A. Zuccagni Orlandini e da E. Repetti. Significativa è l'attenzione per i centri minori e, quanto all'epoca repubblicana, la sezione degli statuti di tutte le città toscane.
L'impegno indiscusso, le capacità artistiche e il prestigio raggiunto non valsero all'I. la carica di regio antiquario, resasi vacante nel 1832: pesarono la preparazione da autodidatta e la mancanza della conoscenza dell'epigrafia e delle lingue orientali.
L'I. morì alla badia di Fiesole il 17 maggio 1846; dopo la sua morte la tipografia cessò ogni attività.
Fonti e Bibl.: Le carte dell'I. sono custodite nell'archivio di famiglia a Volterra; ivi presso la Biblioteca Guarnacci, nel Fondo Maffei si trovano le carte ufficiali relative alle proprietà della famiglia. Presso l'Istituto archeologico germanico di Roma è conservato il carteggio con gli esponenti dell'allora Instituto di corrispondenza. Alcune lettere a G. Capponi si trovano in Firenze, Biblioteca nazionale, Carteggi, XIX secolo, Capponi, VIII, 47; F. Polidori, F. I., in Arch. stor. italiano, III (1846), Appendice, pp. 752-764; V. De Vegni, Notizie biografiche del cav. F. I., Volterra 1849; R. Ciampini, Gian Pietro Vieusseux. I suoi viaggi, i suoi giornali, i suoi amici, Torino 1953, ad ind.; P. Defosse, La figure de F. I. à travers sa correspondance avec G.B. Vermiglioli, in Hommage à M. Renard, III, Bruxelles 1969, pp. 174 ss.; M. Cristofani, Il cratere François nella storia dell'archeologia "romantica", in Bollettino d'arte, LXII (1977), serie spec. dedicata a Il vaso François, pp. 11-21; M.G. Marzi, La scoperta, ibid., pp. 27-50; M. Cristofani, Accademie, esplorazioni archeologiche e collezioni nella Toscana granducale (1730-1760), ibid., LXVI (1981), 9, pp. 59-82; E. Barni, F. Inghirami. Una vita per la cultura, in Rassegna volterrana, LXIII-LXIV (1987-88), pp. 56-136; L. Rombai, P. Giovanni Inghirami astronomo, geodeta e cartografo: l'illustrazione geografica della Toscana, Firenze 1989, passim; C. Pazzagli, Nobiltà civile e sangue blu. Il patriziato volterrano alla fine dell'età moderna, Firenze 1996, passim.