LARDEREL, Francesco de
Nacque a Vienne, in Francia, il 17 nov. 1789 da Abel Philibert, negoziante e ufficiale della milizia nazionale, e da Marie Acloque (Grenoble, Archives départementales de l'Isère, Paroisse St-Sévère, BMS 1757-1792, 5Mi 344) e fu battezzato con i nomi di Jacques-François. Trasferitosi a Livorno in età napoleonica, è descritto negli almanacchi del 1814 come "chincagliere". Nel successivo quindicennio, sfruttando le risorse geologiche dei lagoni del Volterrano, promosse e sviluppò l'industria dell'acido borico, accumulando un cospicuo patrimonio e ottenendo un titolo nobiliare; si impose così come il maggiore imprenditore della Toscana granducale, simbolo di un'aristocrazia borghese in cui si intrecciavano potere economico e status sociale.
Il 30 nov. 1814 sposò la cugina Paolina Morand (Livorno, Archivio diocesano, Cattedrale, Registri dei matrimoni, 1814), da cui ebbe otto figli, dei quali tre morti in tenera età. La scelta dei padrini di battesimo rivela peraltro l'intento di rafforzare i vincoli nazionali ed economici che legavano il L. alla regione di provenienza e ai francesi residenti a Livorno: basti ricordare che il primo figlio, Francesco Federico, nel 1815 fu battezzato da Luigi La Motte (poi socio nell'impresa del borace), a nome dei parenti Morand, e che nel 1833 Edoardo, l'ultimo figlio, ebbe come madrina Anna Gurlié, vedova Chemin, e come padrino Francesco Prat, fondatori dell'azienda di Larderello; questi ultimi, in particolare, avevano ottenuto nel 1818 la concessione dei lagoni di Montecerboli dalla Comunità di Pomarance, strappandola ai precedenti gestori.
Socio secondario della ditta insieme con La Motte, il L. si trasferì nel 1818 a Montecerboli con la famiglia per organizzare l'impianto della produzione. I primi anni furono durissimi: i due soci ebbero però la capacità di imprimere un nuovo sviluppo all'impresa, tanto che il 5 ott. 1822 la Camera di commercio di Livorno dovette registrare che la società per la fabbricazione dell'acido borico agiva sotto i nomi della vedova Chemin, di Prat, La Motte e Larderel. Il L. fece frequenti viaggi per stringere contatti con industriali e scienziati europei; egli stesso investì nella ricerca. Il borace si affermava nella nascente industria chimica come componente nella produzione di generi di consumo molto diffusi, quali i vetri colorati, gli strumenti ottici e soprattutto pentolame in ferro smaltato e stoviglie di ceramica che, con particolari trattamenti, acquistavano la durezza e la brillantezza della porcellana.
Nel 1822 l'esportazione, che aveva raggiunto la quota di 15.000 libbre annue, subì un brusco calo a causa dei dazi protettivi inglesi. Nel 1827, dopo molti infruttuosi tentativi, l'impiego dell'energia a vapore riuscì ad abbassare i costi e a realizzare l'obiettivo principale del L., quello di "produrre allo infinito come la moderna Inghilterra costuma" (F.D. Guerrazzi, Difesa del visconte Sercey e del conte de Larderel…, Livorno 1842, p. 23).
In effetti, il vapore dei soffioni sfruttati come forza motrice, convogliato per far bollire le caldaie, e poi insieme negli essiccatoi, produsse un enorme risparmio di legna, di tempo e di lavoranti, tanto più che attraverso intelligenti trivellazioni fu possibile utilizzare le risorse geologiche nei pressi delle fabbriche. Anche la sostituzione delle caldaie di ferro con caldaie in piombo, fabbricate da operai non specializzati, e quella della carta paglia per foderare i barili, contribuirono ad abbassare i costi e ad aumentare il volume del prodotto immesso sul mercato. Dalle 195.000 libbre circa del 1828 la produzione salì nel 1834 a un milione e mezzo di libbre.
Nel 1835, con l'acquisto delle quote dei soci, il L. riuscì a ottenere la piena proprietà dell'impresa, valutata 3.000.000 di lire toscane. Da unico proprietario, si orientò soprattutto ad acquistare i terreni lagonici e le fonti idriche per assicurarsi il monopolio della produzione, così che dal 1838 furono attive nove fabbriche che operavano con sistema integrato.
Vennero allora i primi riconoscimenti pubblici: Lapo de' Ricci, socio dell'Accademia dei Georgofili - in un articolo pubblicato nel Giornale agrario toscano, IX (1835), pp. 336-351 - metteva in luce il "genio intraprendente" del L., capace di trasformare in sorgente inesausta di ricchezza quel "luogo di orrore dove la natura era lacera e squassata, si sollevava per bollore l'acqua nerastra e si alzava fumo biancastro e fetente"; e un altro elogio gli veniva da E. Repetti nel secondo volume del Dizionario geografico fisico storico della Toscana (Firenze 1835, p. 626). Lo stesso L., peraltro, affidò ai giornali, a opuscoli e alle immagini litografate la celebrazione della sua impresa, sotto l'egida delle allegorie dell'industria e del progresso, cui contribuì - a partire dal 1835 - la partecipazione alle esposizioni toscane e internazionali.
All'attività di sagace imprenditore il L. venne inoltre coniugando quella di filantropo aperto e generoso. A Montecerboli, per le famiglie dei lavoratori immigrati fu fondato un villaggio in cui le case per gli operai erano fornite di un piccolo orto; il villaggio fu dotato di asilo, scuola elementare, scuola di tessitura per le ragazze, teatro, scuola di musica, spaccio alimentare e di una farmacia dove oltre allo speziale operava un medico. Un acquedotto, un ponte sospeso sul fiume Cecina e un altro sul torrente Possera completarono i lavori che condussero in quelle terre la civiltà dando vita a una piccola società isolata (alcune migliaia di persone), ferreamente disciplinata da un regolamento che elencava i "sacri doveri" degli operai, incentrati sui valori della famiglia, della religione e della fedeltà al padrone.
L'inserimento del L. a Livorno ebbe invece carattere pienamente borghese. La costruzione in città di un palazzo di quattro piani, terminato nel 1832 e costato 70.000 lire, gli aprì le porte del notabilato cittadino e fece della sua residenza un centro della vita sociale e mondana della città. Arricchito di arredi e di una collezione d'arte antica e moderna, il palazzo pose il L. nel novero dei mecenati e dei benefattori cittadini. Significativi erano anche la sua adesione agli ideali progressisti dei sansimoniani e i legami con il gruppo fiorentino dei Georgofili e con l'Antologia di G.P. Vieusseux, nonché la presenza sua e dei familiari nel settore bancario, nelle associazioni filantropiche e nei circoli più esclusivi.
Nel 1836 il L. iniziò un processo di avvicinamento alla corte e ai riconoscimenti nobiliari. La commenda di patronato per sé e i figli Francesco Federico e Adriano nell'Ordine dei cavalieri di S. Stefano gli permise di porre i beni immobili, esenti da imposte, al riparo da pignoramenti, e di entrare a far parte di quei circoli che facevano riferimento alla corte, mentre l'acquisto di palazzo Giacomini, sulla centrale via Tornabuoni a Firenze, e della villa della famiglia de' Ricci a Pozzolatico aprì al L. le porte dell'aristocrazia e della colonia straniera fiorentina che era sotto l'egemonia dei Napoleonidi e dei russi Demidoff (Demidov).
Risale al 1837 l'editto sovrano che gli permise di assumere e usare il titolo di conte di Montecerboli, la località nella quale aveva "eretto i grandiosi stabilimenti di sal borace" (Arch. di Stato di Firenze, Segreteria di Stato 1814-48, 530, inss. 60, 38); e non a caso nello stemma nobiliare, riprodotto in marmo o in ghisa su tutte le proprietà della famiglia, risalta l'immagine dei soffioni e delle fabbriche. Fregiato di tale titolo - poi riconosciuto come ereditario -, di quello di cavaliere di S. Giuseppe, onorato dell'ingresso al casino dei nobili di Firenze e della nomina del figlio Enrico a regio ciambellano (1851), il L. poté accedere alla corte granducale, con la conseguente opportunità di stringere legami matrimoniali con famiglie di grande prestigio e antica nobiltà, come i Rucellai e i Salviati, e infine anche con i Savoia (nel 1872 la nipote Bianca sposerà il figlio morganatico del re d'Italia, il conte di Mirafiori Emanuele Alberto).
Tuttavia il L. non negò mai l'origine della sua ricchezza e anzi incaricò il giovane M. Tabarrini di illustrare con iscrizioni per medaglie e lapidi commemorative, scritti per nozze e necrologi, i valori borghesi della sua impresa mettendo in risalto i meriti della nuova aristocrazia "salita a grandezza, a differenza dell'antica, non sulla violenza delle armi e sull'oppressione, ma da coraggiosa perseveranza nel lavoro e da atti compiuti in servizio dell'umanità" (lettera dedicatoria, ms. e a stampa, di M. Tabarrini, in Arch. di Stato di Firenze, Conte Tabarrini Marco, b. 9, ins. 2).
Nel 1846 gli fu concesso di dare ai luoghi dell'insediamento da lui promosso il nome di Larderello. L'avvenimento è ricordato da una colonna, sulla quale spicca il busto del granduca Leopoldo II, che nella piazza centrale del paese rappresenta il punto focale di un percorso segnato da lapidi rievocative dell'opera filantropica del L. e del figlio Francesco Federico, insieme con gli uomini illustri e gli scienziati che incoraggiarono e contribuirono ad ampliare l'impresa del borace.
Gonfaloniere di Livorno dal febbraio 1847 al maggio 1848, il L. si prodigò per la costruzione del teatro Leopoldo (oggi teatro Goldoni), per l'istruzione elementare e, in qualità di componente della commissione di ornato, per l'espansione della città in un'area dieci volte superiore al vecchio centro storico. Liberale moderato, aderì al programma di emancipazione degli ebrei - poi riconosciuto dallo statuto del 17 febbr. 1848 -, sostenne l'istituzione della guardia civica e organizzò pubblici festeggiamenti per la concessione della libertà di stampa; ma già un mese prima, al tempo dei tumulti livornesi, aveva confidato a Guerrazzi di volersi ritirare dalla vita pubblica, lontano dalla quale sarebbe rimasto per il resto della vita (Archivio del Museo di Larderello, Copialettere, 8 sett. 1848).
Il L. morì a Firenze il 5 giugno 1858.
Alla sua scomparsa l'impresa conservava il suo carattere familiare ed era incentrata sulla produzione dell'acido borico (nel 1860 la produzione era di 1860 tonnellate, con un utile di oltre un milione di lire). Il patrimonio del L. fu valutato, nel prospetto della successione, oltre 11 milioni di lire toscane, benché fosse gravato da passività e ipoteche: gli stabilimenti dell'acido borico 9.215.818 lire, le proprietà immobiliari e gli oggetti di lusso oltre 3 milioni. L'enorme valore della proprietà essenzialmente urbana dislocata a Livorno e a Firenze e il pregio degli arredi (mobilia, argenteria, collezioni d'arte antica e moderna, possesso di palchi a teatro e cappelle) danno indicazioni fondamentali su uno stile di vita signorile, costruito grazie alla perspicacia di un imprenditore abile nello stabilire un sistema di relazioni economiche e sociali che dovevano sostenere la sua ascesa e permettergli di finanziare e consolidare la sua impresa.
Sebbene nella gestione degli stabilimenti fossero stati cooptati per tempo i figli Francesco Federico, in qualità di direttore, e Adriano - che aveva conseguito la laurea in chimica a Parigi (un insegnamento elementare di chimica era stato istituito a Livorno) -, il L. non riuscì a organizzare l'azienda in un sistema verticale. Cedendo i diritti di commercio nel 1835 alla società francese d'Hesèque e nel 1847 all'inglese T. Lloyd e C., che imposero la vendita del prodotto grezzo, il L. si limitò a produrre materie prime semilavorate e a raffinare nella fabbrica di Livorno solo quantità marginali di borace.
Fonti e Bibl.: L. Pescetti, La famiglia de Larderel, conti di Montecerboli, Livorno 1940; G. Mori, Per la storia dell'iniziativa industriale in Italia nel sec. XIX. F. de L. e gli avvii dell'industria dell'acido borico in Toscana, in Annali dell'Istituto Giangiacomo Feltrinelli, II (1959), pp. 595-607 (in App., pp. 608-627: F. Larderel, Memoria sull'acido boracico scoperto in Toscana e sulle sue applicazioni, Montecerboli, 1° dic. 1830); Mostra del Fondo de Larderel - Viviani della Robbia.Dalla storia di una famiglia in Toscana (1841-1943): industria, nobiltà e cultura (catal.), a cura di S. Ferrone, Firenze 1982, pp. 20-23; Larderello alle origini dell'energia geotermica, a cura di G. Marinelli, Firenze 1990 (con i contributi del curatore su I prodromi dell'energia geotermica: l'utilizzazione dei prodotti legati ai soffioni dell'Alta Maremma toscana; di M.G. Ciardi Dupré Dal Poggetto, Le litografie dell'album de Larderel; di Z. Ciuffoletti, La famiglia de Larderel dall'acido borico alla geotermia); D. Barsanti, Le commende dell'Ordine di S. Stefano attraverso la cartografia antica, Pisa 1991, pp. 282-288; Palazzo de Larderel a Livorno. La rappresentazione di un'ascesa sociale nella Toscana dell'Ottocento, a cura di L. Frattarelli Fischer - M.T. Lazzarini, Milano 1992 (con i contributi di R. Romanelli, Famiglia e patrimonio nei comportamenti della nobiltà borghese dell'Ottocento, pp. 9-27; M. Scardozzi, F. L., un imprenditore dell'Ottocento tra "centro" e "periferia" dello sviluppo, pp. 28-47; L. Frattarelli Fischer, I volti dell'uomo pubblico. Costruzione di immagine e rapporti sociali, pp. 48-70; C. Giannini, Enrico ed Amicie de Larderel "francesi a Firenze". Gusto, collezionismo, mondanità e relazioni di una colonia straniera, pp. 71-93; M. Ferretti, Residenze e opifici de Larderel sullo scorcio dell'età neoclassica, pp. 94-134; M.T. Lazzarini, Apparati decorativi e collezionismo nelle residenze de Larderel, pp. 135-186; R. Bordone, Il "gabinetto gotico" di palazzo de Larderel: un episodio nella storia del gusto, pp. 187-199); S. Fettah, Note sull'élite livornese dell'Ottocento. I soci fondatori dell'Accademia del casino di Livorno, in Nuovi Studi livornesi, V (1997), pp. 148 s.; Id., Les limites de la cité. Espace, pouvoir et société à Livourne au temps du port franc (XVIIe - XIXe siècle), dissertazione, Université d'Aix-Marseille I, 1999, pp. 591 s.; M. Mirri, Epigrafi italiane moderne "murate nelle città", in Società e storia, 2003, nn. 100-101, pp. 458-463.