DEL ZIO, Floriano
Nacque a Melfi (Potenza) il 2 apr. 1831 da Tolomeo, che aveva uno studio notarile in città, e da Anna Maria Mandile di antica e facoltosa famiglia.
Un fratello del padre, Antenodoro, aveva militato nell'esercito murattiano ed era stato ferito a Tolentino; aveva ricoperto alte cariche nella carboneria nel 1820-21 ed era stato costituzionalista nel 1848: il suo impegno politico aveva esercitato una notevole influenza sulla formazione del D. e dei suoi fratelli, Ireneo e Basilide. Questi ultimi, l'uno letterato e l'altro medico e studioso di storia patria, furono entrambi personalità di rilievo della vita culturale lucana.
Compì gli studi nel seminario di Melfi sotto la guida di Luca Areneo e, per l'entusiasmo con cui visse i fatti del 1848, fu ben presto sospettato di simpatie liberali dal vescovo I. M. Sellitti. Nel 1850 si trasferì a Napoli per intraprendere gli studi universitari; iscrittosi alla facoltà di giurisprudenza, iniziò a frequentare i corsi di E. Pessina, che teneva uno studio privato di carattere giuridico-filosofico, seguito tra gli altri anche da P. D'Ercole e A. Angiulli, e fu da lui avviato allo studio delle dottrine del filosofo del diritto C. Ch. Fr. Krause. Anche nella capitale fu controllato dalla polizia, e poté proseguire gli studi grazie alla protezione del concittadino mons. M. Navazio. Laureatosi in legge, non volle esercitare l'avvocatura com'era nei desideri paterni, ma, in seguito a un dissesto finanziario, si trovò a non godere più dell'appannaggio mensile che il padre gli aveva passato per mantenerlo agli studi. Spinto dalla necessità di un guadagno immediato, si dedicò, a partire dal 1853, all'insegnamento privato della filosofia, a cui si era sempre più appassionato nel corso dei suoi studi.
Come egli stesso ricordava in un'importante lettera a Bertrando Spaventa del 15 apr. 1861 (ed. in G. Vacca, Nuove testimonianze, pp. 47 ss.), il clima culturale in cui era costretto a operare a Napoli dopo la restaurazione del 1849 era molto pesanie: segnalato come sospetto dalla polizia borbonica, non ebbe mai la licenza d'insegnare e fu costretto a dettare clandestinamente le sue lezioni a classi poco numerose.Il D. apparteneva all'esiguo gruppo di pensatori liberali che continuò a diffondere a Napoli nel decennio preunitario la dottrina filosofica e giuridica tedesca, all'"eletto cenacolo", come lo chiamava N. Marselli, che annoverava S. Gatti, G. B. Ajello che insieme al D. insegnava clandestinamente l'hegelismo, lo stesso Marselli, P. D'Ercole e F. Persico studiosi di filosofia tedesca, G. Racioppi che si occupava di estetica e di economia, e infine A. Turchiarulo ed E. Salvetti, conoscitori della filosofia del diritto tedesco. Insieme ad essi il D. diede vita nel 1854 ad "un circolo, che doveva avere per fine di cospirare contro il governo, e diffondere, sotto sembianze innocenti, le nuove idee" (ibid.). Entrarono, infatti, in corrispondenza con l'hegeliano K.L. Michelet di Berlino e con molti collaboratori della Revue philosophique et religieuse di Parigi, il cui programma era progresso, libertà e razionalismo, e che fu soppressa alla fine del 1858.
In quegli anni, ricordava ancora il D., i nemici più fieri non furono tanto la curia napoletana e la polizia (cfr. su di esse la lettera del 1861 del D. al consigliere di luogotenenza incaricato del dicastero della Pubblica Istruzione, in Arch. di Stato di Napoli, Minist. Pubblica Istruzione, II inv., fasc. 707), ma "quel partito ben numeroso a Napoli, che si compone di giobertisti, di dommatici, di condillacchiani, e di voltairiani, i quali tutti si accordano nel dispregiare l'idealismo assoluto e la scoperta del vero metodo" (ibid.). Chiunque si permetteva di criticare Gioberti, di difendere Bruno, Fichte o Hegel, di leggere Strauss, Feuerbach o Mazzini era esposto a continue persecuzioni, ed era accusato di essere ateo, panteista, demagogo, comunista. Lo stesso D. fu "colpito dalla più viva sorveglianza politica ed ecclesiastica per aver fatto venire da Genova un buon numero d'esemplaridella Religione del secolo XIX di Ausonio Franchi, e predicato la necessità di rivoluzionare l'idea religiosa per muovere alla conciliazione di tutta la storia e affrettare l'avvenimento dello spirito assoluto" (ibid.).
Del sistema hegeliano il D. privilegiò l'estetica e la filosofia della storia, conosciute attraverso la lettura dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche. Principale obiettivo era per lui il raggiungimento del metodo: infatti la scientificità della concezione costituiva il presupposto per una teoria e una critica dell'arte e per la corretta comprensione del fondamento razionale che presiede allo sviluppo della storia e ne congiunge i fatti come specifiche manifestazioni di un ordine ideale da cui deriva la storia del mondo. Un simile approccio, unilaterale ed acritico al sistema hegeliano comporta inevitabilmente una rigida e intransigente riproposizione dei suoi schemi, come risulta nel primo scritto del D., La tragica odierna dei rapporti accidentali e dell'animo bello, apparso nel 1857 in quattro puntate sulla rivista letteraria napoletana IlNomade (nn. 45-48, pp. 181 ss., 185 ss., 189 s., 191 s.).
Richiamandosi alla concezione hegeliana, pone a fondamento del suo discorso il concetto dell'autocoscienza dello spirito nell'età moderna: "il predominio della riflessione dello spirito su sé medesimo è legge assoluta del mondo presente" (Latragica odierna, p. 182). Tale legge richiede, secondo la rigida interpretazione dello spirito assoluto formulata dal D., che l'arte, sacrificando la perfezione della forma, si debba risolvere nella scienza, che la poesia divenga poesia riflessa e che la tragedia moderna, figlia del cristianesimo, assuma il contenuto delle sue rappresentazioni dallo spirito puro. Secondo il D. "l'odierno spirito drammatico inclina a generare una tragica dei rapporti esteriori e non più degli interni e concreti, ma della quale però sa giovarsi provvidenzialmente l'artista per esprimere un profondo ideale" (ibid.). Prevalendo così l'elemento soggettivo dell'anima dell'artista, l'opera teatrale moderna "viene ad essere per necessità una lirica drammatizzata, essenzialmente consonante per altro collo spirito della pittura e con quello della musica" (ibid.). L'autore intende applicare questo canone estetico all'opera di Tommaso Arabia Saffo e, attraverso un'accurata analisi di molti brani del dramma, giunge a dimostrare che lo scrittore ha seguito nel suo lavoro questa tendenza generale dei drammatici moderni e conclude che l'elemento dominante dell'opera è "il predominio di un'anima bella in mezzo a caratteri che non si poggiano su contrapposti morali e sopra una dialettica di collisioni" (ibid.).
Nel 1858 per la scomparsa del giovane E. Salvetti, autore del saggio Eduardo Gans e le sue opere, prefazione alla traduzione del Diritto romano delle obbligazioni, da lui pubblicata a Napoli nel 1856, il D. compose un discorso commemorativo Sulla vita di Eduardo Salvetti (Napoli 1858). Sul finire dello stesso anno aderì al Comitato dell'ordine, sorto a Napoli e che inizialmente radunava sia le forze moderate filocavouriane sia il più ridotto gruppo democratico e filomazziniano, successivamente promotore del Comitato d'azione. Nel 1860 il precipitare degli eventi politici riportò il D. in Basilicata dove fu tra gli animatori della Brigata lucana che, agli ordini del colonnello C. Corte e del generale G. Medici, si batté valorosamente al Volturno, a Caserta e a Sant'Angelo. Quando alla guida del movimento moderato lucano furono inviati G. Albini e C. Boldoni, il Comitato d'ordine napoletano inviò il D. a Melfi come commissario insurrezionale col compito di organizzare le giunte rivoluzionarie a Melfi, Rapolla, Barile, Rionero e Atella.
Al suo arrivo a Melfi, il 19 agosto, trovò una situazione molto critica: il vescovo I. M. Sellitti era fuggito a Lecce per non assistere nel duomo al giuramento di fedeltà al nuovo governo mentre i conservatori diffondevano voci allarmistiche, come quella dell'imminente arrivo di truppe borboniche dalla vicina provincia di Bari, agli ordini dei generale F. Flores. Il D. diede ordine di pubblicare un manifesto per smentire le voci e il 30 agosto, dopo aver parlatoin piazza alla popolazione, tenne nella cattedrale un discorso col quale, richiamandosi alla gloriosa tradizione della città. proclamava Vittorio Emanuele re d'Italia.
Sul finire del 1860 fece ritorno a Napoli, dove riaprì la sua scuola privata e riprese gli studi sulla filosofia hegeliana e sulle opere dei suoi principali interpreti in Germania e in Italia. Nella già citata lettera a B. Spaventa del 15 apr. 1861 si schierava apertamente a favore delle tesi della circolazione del pensiero italiano in quello europeo, esposte nella prolusione bolognese del 1860: "i carnefici del pensiero napoletano ci abborrono, di già proclamano sofisma il nobilissimo vostro concetto di mostrare le relazioni di armonia, che passano tra la speculazione alemanna e l'italiana: di più sussurrano che con voi entra nell'Università di Napoli lo spirito dell'empietà e del razionalismo teologico" (G. Gentile, Documenti inediti, pp. 398 s.). Il 30 giugno si rivolse nuovamente allo Spaventa per riferirgli alcune osservazioni che gli aveva suggerito la lettura dell'opera di A. Vera L'hegelianisme et la philosophie, pubblicata in quell'anno a Parigi. Il problema che a suo giudizio non veniva sufficientemente trattato era quello delle "pluralità de' mondi" e della sua conciliabilità con la dottrina hegeliana dello spirito assoluto. Dopo aver chiamato in causa le teorie del Krause e di A. Tari, il D. concludeva che era "necessario approfondire maggiormente l'infinito matematico nell'infinito filosofico, e sottomettere così l'astronomia al concetto della finalità assoluta, lo Spirito". Nello stesso anno si preparava ad un corso di lezioni sull'Enciclopedia di Hegel; per quell'occasione aveva scritto una Prolusione al corso di lezioni sulla Enciclopedia delle scienze filosofiche di Hegel, letta il 15 e il 18 nov. 1861 (Napoli 1861).
L'opera, considerata da Gentile "uno scritto pieno di giovanile entusiasmo e di ardore filosofico", contiene numerosi riferimenti ai principali interpreti dell'idealismo hegeliano: accanto alle opere di Vera sono ricordati gli scritti di K. Werder e di K. L. Michelet. Il D. dà anche notizia di una sua traduzione del System der Wissenschaft, ein philosophisches Eincheiridion di K. Rosenkranz (Könisberg 1850) e di un saggio in via di preparazione dal titolo Studii sul rapporto del sistema della scienza di Krause e quello di Hegel;ma nessuno dei due scritti fu poi pubblicato.
Secondo il D. l'idealismo assoluto è il sistema che "è, nella sua essenza generale, se non nella sua esecuzione, il più compiuto e perfetto, e per conseguenza l'ultimo fra tutti i possibili sistemi". Dopo aver brevemente svolto il concetto della Fenomenologia dello Spirito, giunge all'ultimo grado del divenire della coscienza, allo spirito assoluto, in cui "risiede la forza che dovrà consapevolmente invadere ogni cosa ... prevedendo così la prossima elevazione di tutto il sistema dell'umanità alla coscienza dello spirito assoluto e della vita eterna in esso". Da queste premesse deriva una visione unitaria dell'universo in cui tutte le contraddizioni vengono conciliate: "un Dio che non contraddica alla Scienza, una Fede che non ripugni alla ragione, un'autorità che non violi la giustizia, una legge che non calpesti la morale, questo lo spirito novello ... a cui tutte le istituzioni politiche, religiose e civili debbono ormai ritemprarsi" (Prolusione, pp. 68 s.).
Il 9 maggio 1861 il D. offriva la candidatura per il collegio elettorale di Melfi a F.D. Guerrazzi, esponente della corrente democratica, che il 22 maggio comunicava di aver già accettato quella per il collegio di Casalmaggiore e proponeva di far presentare l'amico L. Castellani Fantoni. Anche G. Ferrari, che ebbe profonda influenza sul pensiero politico e filosofico del D., esprimeva la sua adesione al progetto (Cioffi, pp. 174 ss.). L'elezione però fu vinta, in seconda votazione, dall'ex garibaldino A. Argentini.
Nel febbraio 1862 il D. fu nominato da F. De Sanctis, ministro dell'Istruzione pubblica, professore di filosofia nel liceo di Cagliari come successore di E. Nitti. A conclusione del suo insegnamento privato a Napoli, indirizzò ai suoi allievi un opuscolo Intorno alla definizione della logica, pubblitato nello stesso anno.
In esso ribadiva l'importanza di questa categoria all'interno del sistema dell'idealismo assoluto: essa potrebbe definirsi come "la scienza dell'idea nella forma astratta del pensiero". Di fronte al delinearsi in Italia, dopo il 1860, delle due correnti dell'hegelismo, quella critica e quella ortodossa, il D. mostrò chiaramente in questo scritto di schierarsi a favore della seconda capeggiata dal Vera. Espresse infatti parole di entusiasmo per quel suo "benemerito concittadino che, costituendosi interprete dell'idealismo assoluto in Italia, in Francia ed in Inghilterra, adempie a un'opera solenne di conciliazione morale, ed è come il simbolo della comunione universale del sapere fra le nazioni sorelle" (ibid.). L'ortodossia diventava in questo modo un espediente per usare alternativamente tesi critiche (sul carattere nazionale della filosofia) o ortodosse (sulla compiutezza definitiva dei sistema). Il D. fu tra quelli che, come osserva Gentile, "girarono attorno a Hegel, ricevendone magari ispirazione e suggestioni feconde, senza scoprire il principio vero del suo pensiero".
Giunto a Cagliari nel mese di marzo, confidava all'amico A. Bertani in una lettera del 18 marzo 1862 (Roma, Bibl. d. Ist. per la storia del Risorgim., 433/231) le sue speranze politiche: per completare l'unificazione nazionale bisognava seguire il metodo di Ferrari e Mazzini, che prevedeva la creazione di una rete capillare di società, circoli, comitati e associazioni attraverso cui predicare alle masse i valori democratici. Collaborò alla Gazzetta popolare, organo della democrazia sarda, e nel 1864 fu vivacemente attaccato dal giornale milanese IlPromotore: in sua difesa si schierò dapprima un suo allievo, E. Ferrando; successivamente il D. stesso rispose con una appassionata lettera apologetica. Al suo arrivo aveva trovato una situazione culturale alquanto arretrata e il suo insegnamento della filosofia hegeliana faticò non poco a imporsi in un ambiente poco disposto ad accogliere nuove teorie. Risale a quegli anni il suo progetto di un "Manuale di filosofia", che però non fu mai completato. Nel 1865 venne trasferito a Ferrara. ma non vi insegno, perché, essendo state convocate in autunno le elezioni politiche, il collegio elettorale di Melfì lo presentò in alternativa al generale G. Pallavicino, divenuto impopolare per aver fermato Garibaldi all'Aspromonte. Durante la campagna elettorale il D. indirizzò ai suoi elettori uno scritto (Alcollegio elettorale di Melfi. Programma politico, Napoli 1865).
Secondo il D., il voto non era uno strumento per il raggiungimento di fini secondari, ma l'attuazione di un'alta ispirazione morale volta al miglioramento delle condizioni di vita del popolo e alla vittoria della giustizia sociale. A tale scopo erano indispensabili riforme economiche tese ad alleviare i gravissimi mali del Mezzogiorno. L'Italia, in virtù del suo grande passato, era chiamata a compiere un'importante missione: alla prima unità fatta con le armi dall'Impero, alla seconda fatta con la fede dal Papato, doveva seguire la terza e ultima fatta dalla scienza con la propaganda della verità, della giustizia, dell'uguaglianza e della fratellanza dei popoli. "La prossima soluzione del gran problema di Roma, che restituirà all'Italia in nome dell'unità dell'incivilimento fatto dalla scienza, la signoria che le spetta, farà si che i popoli non saranno più servi" (p. 24).
Eletto deputato, il D. rinunciò all'insegnamento per dedicarsi alla vita politica. Alla Camera sedette a sinistra: fu rieletto ininterrottamente per cinque legislature fino al 1880 dal collegio di Melfi; battuto da G. Fortunato nel maggio 1880 per 560 voti contro 404, fu eletto nel mese di luglio come candidato per il collegio di Tricarico, in sostituzione di F. Crispi, che aveva optato per Palermo. Fu rieletto anche nell'82 quando il collegio confluì in quello di Potenza III.
Si dedicò con grande impegno all'attività parlamentare, battendosi nel primo decennio dalle fila dell'opposizione sui grandi temi della questione romana e del completamento della rete ferroviaria nella valle dell'Aufido. Dopo la presa di Roma, partecipò attivamente al complesso dibattito parlamentare sulla legge delle guarentigle e intervenne nella discussione sui tempi del trasferimento della capitale. Nel discorso (Per il trasferimento della capitale a Roma, Roma 1914) tenuto nella seduta del 23 dic. 1870, si pronunciava a favore della proposta della minoranza, che chiedeva il trasferimento entro tre mesi (non sei come sosteneva il governo), e la convocazione del Parlamento entro quattro mesi. Nel 1874 raccolse nel volume La ferrovia dell'Aufido (Roma 1872-74) una serie di documenti relativi alla costruzione dei tronchi ferroviari nel Melfese (benché prevista da un'apposita legge e dotata della necessaria copertura finanziaria, la costruzione non veniva completata provocando enormi disagi alle popolazioni lucane). Nell'introduzione l'autore, dopo un lungo excursus dedicato alla storia della nazione italiana, concludeva che il progresso dei popoli era fondato su una corretta gestione dell'istruzione pubblica e su un'accorta politica dei lavori pubblici, entrambe volte a migliorare le condizioni di vita delle popolazioni meridionali.
Nel 1874 il D. partecipò alla discussione dei progetti di legge sui provvedimenti finanziari; prese la parola nélla tornata del 18 aprile (Discorso sui provvedimenti finanziari, Roma 1874) e si pronunciò contro il bilancio criticando le proposte di tassazione avanzate da Minghetti per ottenere il pareggio. Nel 1876 fu nominato membro della giunta per le nuove costruzioni ferroviarie, della quale fu anche segretario. Nel dicembre 1878, come risulta da alcune lettere inedite al presidente della Camera, D. Farini (Roma, Bibl. d. Ist. per la storia d. Risorgimento, 308/661 -8), rassegnò le dimissioni dalla giunta, in linea con quelle del ministro dei Lavori pubblici A. Baccarini dovute alla caduta dei governo Cairoli.
Battuto nel maggio 1886 da G. Imperatrice, si ritirò a Melfi per dedicarsi agli studi. Il 20 nov. 1891, nonostante le sue forti reticenze, fu nominato senatore.
Morì a Roma il 1º febbr. 1914.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli, Min. Pubbl. Istr., II inv., fasc. 707, lettera al consigliere di luogotenenza per il dicastero della Pubblica Istruzione, 1861; Roma, Bibl. d. Ist. per la storia d. Risorg., 433/231: lettera ad A. Bertani, Cagliari, 18 mar. 1862; Ibid., 308/661 -8: otto lettere a D. Farini, Roma, 21 dic. 1878-Melfi, 12 nov.1894. Necrol. in La Vita, Roma, 3 febbr. 1914; in IlLucano, Potenza, 5-6 febbr. 1914; in La Nazione, Firenze, 9 febbr. 1914; G. Gentile, Documenti ined. sull'hegelismo napoletano, in La Critica, IV (1906), pp. 397-410 (e nei Frammenti di storia della filosofia, I, Lanciano 1926, pp. 181-236); Id., Le origini della filosofia contemp., III, Messina 1921, pp.188 s.; G. Fortunato, F. D., Roma 1914; R. Cotugno, Itempi e la vita di F. D., Melfi 1925; F. Del Secolo, Un puro idealista. F. D., in La Basilicata nel mondo, maggio-giugno 1925, pp. 169 s.; F. Cioffi, L'uomo, l'opera, il pensiero, ibid., pp. 171-176; G. Solari, F. D. a Cagliari e l'introduz. dell'hegelismo in Sardegna, in Arch. stor. sardo, XIII (1921), pp. 23-74; S. De Pilato, F. D. a Cagliari, in Nuovi profili e scorci, Potenza 1928, pp. 29 s.; S. Cilibrizzi, F. D. padre spirituale di G. Fortunato, in Igrandi lucani nella storia della nuova Italia, Napoli [1956], pp. 147-153; T. Pedio, La Basilicata nel Risorg. politico italiano. Saggio di un dizionario biobibliografico, Potenza 1962, p. 291; Id., F. D. nel cinquantenario della morte, Potenza 1964; Id., Storia della storiografia lucana, Bari 1964, ad Ind.;G. Vacca, Nuove testimonianze sull'hegelismo napol., in Atti dell'Accademia di scienze morali e politiche (Napoli), LXXVI (1965), pp. 4750; G. Oldrini, La cultura filos. napoletana del'Ottocento, Bari 1973, pp. 327-333, 363, 373, 376; Studi lucani e meridionali, a cura di P. Borraro, Galatina 1978, pp. 193 s.; Diz. del Risorgimento naz., ad vocem;A. Malatesta, Ministri, deputati, senatori dal 1848 al 1922, I, Milano 1940, ad vocem.