finanza pubblica
Insieme degli atti finanziari, politici e amministrativi tesi all’acquisizione e all’impiego delle risorse monetarie necessarie al perseguimento degli obiettivi pubblici. Le discipline giuridiche che studiano la f. p., genericamente individuate dalla locuzione diritto pubblico dell’economia, possono essere ricondotte al diritto amministrativo, per lo studio dell’apparato e delle procedure di f. p., al diritto tributario, per quanto attiene il prelievo fiscale, alla contabilità p., per quanto attiene le norme ragionieristiche che regolano i flussi in entrata e in uscita. La disciplina che studia gli aspetti economici della f. p. è, invece, la scienza delle finanze (➔ p), che, in linea generale, si pone l’obiettivo di studiare e definire la ripartizione delle risorse, tenendo in conto le esigenze dell’ente pubblico, le necessità della collettività, nonché la distribuzione finale dei beni e dei servizi prodotti con criteri che rispondano alla logica dell’efficienza e dell’equità.
I primi studi economici, a carattere sistematico, sui problemi della f. p. si possono far risalire all’inizio del 18° sec., quando l’emergere degli Stati nazionali in Europa pose l’esigenza di una gestione più razionale delle entrate e delle spese pubbliche. Da allora tali studi hanno conosciuto una continua evoluzione teorica e, pur intrecciandosi con gli sviluppi dell’economia politica (➔), si sono ben presto resi autonomi anche da quest’ultima. Nel corso del 20° sec., avvertendosi sempre più palesemente i limiti economici e specialmente sociali del laissez faire (➔), nacque una nuova branca della teoria economica a natura normativa, che fu poi denominata economia del benessere (➔ benessere, teoremi dell’economia del; public choice). Data l’impossibilità di realizzare le condizioni per un mercato di libera concorrenza perfetta, occorreva formulare proposte normative per individuare, da un lato, i mezzi e i modi occorrenti per raggiungere gli obiettivi ritenuti desiderabili, dall’altro, le soluzioni ritenute ottimali per la collettività quale insieme d’individui. Il nuovo approccio raggiunse un’impostazione organica e concreta con l’opera di A.C. Pigou (➔), nella quale si individuava nelle esternalità il principale ostacolo al raggiungimento del massimo benessere sociale, a causa della divergenza tra interessi privati e sociali. Pigou costruì un dettagliato programma di politica economica, volto a eliminare le discrepanze tra costi e benefici privati, da un lato, e costi e benefici sociali, dall’altro. Nelle situazioni in cui i benefici sociali siano maggiori di quelli privati, è necessario corrispondere ai singoli un sussidio, per tenere conto dei benefici addizionali (esterni) non riflessi nella loro domanda. Viceversa, nelle situazioni in cui i costi sociali siano maggiori dei costi privati, è necessario ricorrere all’imposizione per tenere conto dei costi addizionali (esterni). Imposte e sussidi sono il metodo per fare fronte all’inadeguatezza del mercato. Nacque così l’economia pubblica (termine coniato da S.-C. Kolm e L. Johansen verso la metà degli anni 1960), filone teorico che sfrutta le impostazioni dell’economia del benessere e, in particolare, la teoria del second best (➔), in base ai trade off (➔) tra efficienza ed equità. Tale filone prescrive l’utilizzo di strumenti distorsivi (imposte, tariffe, prezzi regolamentati di imprese private, sussidi ecc.) per correggere condizioni di equilibrio non paretiano. Con riferimento allo studio delle imposte, il momento di maggiore rilevanza è rappresentato dalla teoria della tassazione ottima, indiretta e diretta, in ripresa a partire dal noto lavoro di P.A. Diamond e J.A. Mirrlees sui temi di F.P. Ramsey e A.C. Pigou (The theory of optimal taxation, 1971), che hanno poi trovato una trattazione sistematica nell’approccio basato sul concetto di second best. Tra i successivi sviluppi della teoria della f. p. occorre inoltre segnalare gli strumenti per l’attuazione di politiche economiche volte al controllo dei cicli, delle fluttuazioni economiche e dello sviluppo, lo studio dei problemi associati all’aumento dell’indebitamento pubblico, la redistribuzione intergenerazionale e intragenerazionale del reddito realizzata dal sistema di sicurezza sociale, la questione del rapporto tra sostenibilità del debito pubblico e crescita economica, le distorsioni provocate dai conflitti di interessi e di obiettivi degli agenti della pubblica amministrazione (➔ political economy).
La dottrina prevalente (a partire dal classico lavoro di R. Musgrave The theory of public finance, 1959) individua 3 funzioni che devono essere svolte dal settore pubblico: allocativa, redistributiva e di stabilizzazione. La funzione allocativa, descritta già dagli economisti classici del 18° sec., ha come scopo principale la produzione e la fornitura di beni pubblici. Per questa ragione, si focalizza non solo sulle spese per realizzarli, ma anche sulle entrate per finanziarli. Di conseguenza, in quasi tutti gli Stati moderni la gestione di beni pubblici (➔ bene pubblico p) puri, quali la giustizia, la difesa e molti altri servizi nazionali è demandata allo Stato. La teoria economica ha recentemente individuato altre situazioni (asimmetrie informative, costi di transazione, economie di scala, esternalità ecc.) che possono pregiudicare l’allocazione efficiente del libero mercato e consigliano di ampliare la sfera dell’intervento pubblico. La funzione redistributiva cominciò a essere rivendicata nella seconda metà del 19° sec.; essa è finalizzata a realizzare la distribuzione del reddito e della ricchezza che la società, attraverso il processo democratico, individua come la più equa. I suoi fondamenti sono meglio collocabili in scelte politiche o sociali piuttosto che in principi economici; questi assumono rilevanza nel garantire che l’equità sia perseguita in una cornice di efficienza. La funzione di stabilizzazione è svolta in quasi tutte le economie avanzate dalla prima metà del 20° sec.: essa viene praticata in modo sempre più intenso per perseguire obiettivi di occupazione, sviluppo e stabilità dei prezzi. Il ruolo economico invasivo assunto nella sfera economica dalla pubblica amministrazione ha peraltro provocato a partire dagli anni 1970 una forte critica a tale impostazione e l’auspicio del ritorno a uno Stato più snello, accompagnato da una diminuzione dei tributi. Il dibattito teorico e la contrapposizione politica fra i sostenitori delle due tesi sono ancora molto accesi, soprattutto dopo che la crisi del 2007-08 ha di nuovo minato la fiducia nel mercato.
Con riferimento al diritto pubblico dell’economia, la contabilità pubblica è chiamata ad assicurare i mezzi finanziari necessari attraverso la programmazione economica (➔ anche bilancio pubblico). Per quanto concerne l’apparato amministrativo italiano, che deve garantire in concreto l’acquisizione delle risorse necessarie al funzionamento statale, fino al 1991 sono state operative le intendenze di finanza, amministrazioni periferiche del ministero delle Finanze, istituite dal r.d. 5286/1869. Con la l. 358/1991 tali enti sono stati soppressi e le competenze devolute alle direzioni regionali delle entrate; dal 2001 sono in funzione le cosiddette agenzie fiscali (➔ Agenzia delle entrate), in virtù del d. legisl. 300/1999 (Riforma dell’organizzazione del Governo).
Per gli strumenti impositivi ➔ tributo.