FILOPEMENE (Φιλοπόιμην, Philopoemen)
Figlio di Craugide, nacque a Megalopoli circa il 252 a. C. Mortogli presto il padre, che apparteneva a una ragguardevole famiglia di quella città, fu educato da Cleandro, esule di Mantinea, e dai megalopoliti Ecdelo e Megalofane nell'amore della libertà e nella disciplina delle armi. Quando Megalopoli, che da tempo aveva aderito alla Lega achea, si trovò implicata con Sparta nella guerra detta cleomenica, gli Spartani riuscirono a impadronirsene per sorpresa, e F., scampato con altri a Messene, impedi che i fuggiaschi si accordassero con Cleomene per ritornare in patria separandosi dalla Lega achea. Cleomene dovette abbandonare Megalopoli e fu vinto poco dopo nel 222 da Antigono Dosone nella decisiva battaglia di Sellasia. In questa battaglia si segnalò per ardita iniziativa il giovane F., che vi partecipò tra i cavalieri achei. Nel 210-9 F. pervenne alla seconda dignità della Lega achea, l'ipparchia, e come ipparco riordinò la cavalleria achea e le procurò qualche notevole successo. Ciò lo condusse presto, nel 208-7, alla prima dignità della Lega, la strategia. Come stratego egli seppe ordinare ed agguerrire l'esercito acheo, fino a quel tempo deficientissimo, e condurlo all'importante vittoria di Mantinea su Macanida signore di Sparta. Questa vittoria accrebbe assai il credito della Lega e quello di F., che fu rieletto stratego per la seconda volta nel 206-5 e solennemente festeggiato nelle Nemee del 205 ed ebbe poi per la terza volta la strategia nel 201-0. Sotto questa sua strategia s'iniziò la seconda guerra macedonica dei Romani, ed egli, pur non vedendo di buon occhio l'incremento della potenza romana, desideroso d'altra parte di non rinvigorire la potenza macedonica e di non esporre la Lega ai pericoli di un'alleanza con Filippo V, si tenne neutrale. La sua neutralità, piuttosto benevola verso la Macedonia, fu presto sostituita, alla sua uscita di carica, con una neutralità piuttosto benevola verso Roma, che si mutò poi in alleanza coi Romani. F. malcontento dell'andamento delle cose, lasciò il Peloponneso e si recò a combattere nell'isola di Creta, dove già era stato un'altra volta dopo la battaglia di Sellasia, offrendo la sua spada nelle lotte che funestavano ininterrottamente quell'isola. Tornò dopo la vittoria di Cinoscefale e dopo la partenza delle truppe romane e fu eletto stratego per la quarta volta nel 193-2. Nella sua assenza Nabide re di Sparta era stato vinto dagli Achei alleati con Roma e costretto a cedere le città perieche della Laconia, compresa Gizio, l'arsenale marittimo di Sparta. Ora, prendendo pretesto da stragi che vi erano avvenute, Nabide la strinse d'assedio. F. cercò di soccorrerla per mare, ma la sua flottiglia, poco agguerrita e in pessimo assetto, prese la fuga dinnanzi alle navi di Nabide. Poi lo stratego fece alcuni vani tentativi per indurre Nabide a lasciare l'assedio e, non essendovi riuscito, invase finalmente con forze notevoli la Laconia. Ma Gizio dovette capitolare appunto mentre egli entrava nel paese nemico, e Nabide gli si fece incontro con tutte le forze. Sennonché, battuti gli Spartani in un'avvisaglia, essi deliberarono di ripiegare su Sparta, e la loro ritirata si mutò in rotta, sicché F. poté devastare impunemente tutta la Laconia. Gizio fu ricuperata all'apparire di una squadra romana. Altri successi non si ottennero perché i Romani, i quali non vedevano di buon occhio gl'incrementi della Lega, indussero Nabide e F. ad una lunga tregua. Prima che la tregua spirasse Nabide fu assassinato dall'etolo Alexameno che si era recato a Sparta sotto colore di soccorrerlo. E della confusione che ne seguì e della lotta scoppiata tra gli Spartani e gli Etoli di Alexameno profittò F., che comparve sotto le mura di Sparta con un esercito acheo per indurre gli Spartani a entrare nella Lega, promettendo ad essi il mantenimento dello statu quo, cioè delle riforme sociali con cui s'era preteso di rinnovare l'ordinamento licurgheo. Subito i Romani, ai quali non garbava che Sparta fosse entrata nella Lega senza il loro beneplacito, cominciarono a crear difficoltà agli Achei proponendo il ritorno in patria di coloro che per effetto della rivoluzione sociale ne erano stati discacciati. Ciò diede occasione a torbidi, durante i quali, essendosi Sparta momentaneamente distaccata dalla Lega, lo stratego Diofane insieme col legato romano Flaminino invase la Laconia per farvela rientrare. Ma, più pronto di loro, F. si recò a Sparta e negoziò il ritorno di Sparta nella Lega achea sulla base dello statu quo e all'infuori della mediazione romana. Tuttavia alla pressione dei Romani per il rimpatrio degli esuli in Sparta non era possibile che gli Achei resistessero, e gli esuli si vennero a poco a poco concentrando nelle città marittime della Laconia che erano allora sotto il dominio degli Achei. Ciò indusse gli Spartani a una nuova presa d'armi, mentre F. era stratego per la quinta volta (190-89). Fallito peraltro il loro tentativo su Las, alle minacce degli Achei risposero separandosi dalla Lega e mettendo a morte trenta dei loro partigiani. Allora F. stratego per la sesta volta (189-8), prese risolutamente le parti dei fuorusciti, invase con essi la Laconia, costrinse gli Spartani alla resa, si fece consegnare 70 dei responsabili dell'insurrezione, che furono messi a morte, abolì gli ordinamenti rivoluzionarî e la legislazione licurghea e sottomise Sparta alle leggi comuni degli Achei. Questo atto di forza portò a una serie di complicazioni con Roma per effetto delle quali, non solo nel 184 si dovette dichiarare Sparta esclusa dalla Lega, ma si ribellò anche Messene, che vi aveva aderito dal 191 quando gli Achei, con l'aiuto dei Romani, vittoriosi in Grecia di Antioco, avevano compiuto l'unificazione del Peloponneso. Ma questa unificazione era instabilissima, come si era veduto a Sparta e come si vide anche a Messene, dove Dinocrate, che s'era messo a capo della secessione, contava appunto sull'aiuto romano. Anche ora F., che era stratego per l'ottava volta (183-2), credette che convenisse far presto, prima che i Romani potessero intervenire, e ordinò a Licorta d'invadere con l'esercito della Lega la Messenia, mentre egli da un'altra parte vi penetrava con la cavalleria. Licorta non poté effettuare l'invasione e F. si trovò solo con pochi cavalieri di fronte al grosso delle forze nemiche. Caduto prigioniero fu condotto in Messenia e quivi costretto a bere il veleno. Licorta lo vendicò, costringendo Messene e Sparta a cedere e restaurando per un momento quell'unità peloponnesiaca che era stata l'ideale di F.
Per questa unità F. s'era battuto per tutta la vita, ma senza avvedersi che essa non aveva alcun valore effettivo, se basata unicamente sul beneplacito di Roma, e che non poteva assicurarsi in effetto se non mediante una politica risolutamente nazionale. Invece non è dubbio che la politica di F., nonostante qualche sua impotente velleità di resistenza a Roma, contribuì a spianare ai Romani la via del predominio nella Grecia. Egli non s'avvide mai della necessità d'una leale cooperazione con la Macedonia per la salvezza comune. Né mai si avvide che, per dare alla Lega achea una qualche effettiva potenza, sarebbe convenuto costituirvi una flotta da guerra. Il che, tenuto conto dei porti del Peloponneso e particolarmente di Corinto e delle sue gloriose tradizioni marinare, non sarebbe stato difficile purché la classe abbiente avesse potuto rassegnarsi ai necessarî sacrifici. E insomma, guerriero valoroso, ufficiale esperto, politico sagace sebbene di vedute ristrette, F., pur deprecando il dominio romano, non seppe preparare né gli animi né i mezzi per contrastarne l'avvento, al contrario di ciò che fece con indomita energia, specie nell'ultima parte del suo regno, il suo contemporaneo Filippo V di Macedonia. E perciò meglio che l'ultimo dei Greci, come a torto fu chiamato, merita d'essere detto il primo dei Graeculi.
Bibl.: G. De Sanctis, Storia dei Romani, III, 2, Torino 1917 e IV, i, Torino 1923, passim; M. Holleaux, in Cambridge Ancient History, VIII, Cambridge 1930, p. 116 segg. con bibliografia; G. Colin, Rome et la Grèce, Parigi 1905, passim.