FERRARI DA GRADO (de Ferrariis de Grado, ex Ferrariis de Gradibus, Ferrarius de Gradu, Ferrari d'Agrate), Giovanni Matteo
Nacque a Milano, sul cadere del sec. XIV, da Giovanni Ferrari, membro del Collegio dei medici di Milano.
Alcuni storici hanno ritenuto che il nome "da Grado" derivasse dal luogo della sua nascita: in realtà esso si riferisce non ad una località, bensì al nome di un'antica famiglia, già ricordata nelle cronache milanesi dei secoli XIII e XIV. Uno zio del F., ricordato come "Iohannes de Ferrariis", fu abate dell'abbazia di Morimondo al tempo del papa Martino V (1417-1431), mentre un altro suo zio, di nome Antonio, fu professore di medicina a Pavia.
Nulla sappiamo dell'infanzia e dei primi studi del F., il quale, intorno al 1425, si trasferì a Pavia per iscriversi alla facoltà di medicina. Qui svolse l'intero percorso dei suoi studi universitari e prese sicuramente i gradi accademici, come un decreto del luglio 1412 del duca di Milano, Filippo Maria Visconti, imponeva a tutti i cittadini del Ducato.
In questa stessa città il F. iniziò anche il suo lungo insegnamento universitario: nei Rotuli dei professori dello Studio di Pavia troviamo il suo nome, per la prima volta, nell'anno accademico 1432-33, incaricato "ad lecturam Loyce", con uno stipendio da stabilire, mentre il suo collega F. Pelacani riceveva, per lo stesso incarico, 80 fiorini. Alla cattedra di logica era anche l'anno successivo con un salario di 40 fiorini, che venne poi aumentato di 10 nel 1434 per decreto ducale. Nell'anno accademico 1436-37 occupava ancora la cattedra di logica, mentre nel 1439 lo troviamo "ad lecturam extraordinariam Pratice" con lo stipendio di 130 fiorini. Nel luglio del 1440 il F. promosse una causa contro il Collegio dei dottori in arti e medicina che non aveva accolto la sua domanda di adesione quale membro numerario dopo la morte del collega L. Bellocchi. Per risolvere la vertenza venne designato arbitro Pietro Gabriele da Oltrona, dottore in diritto canonico e civile, il quale, esaminate attentamente le sue credenziali, decise in suo. favore. Nell'anno accademico 1441-42 il F. tenne ancora la lettura straordinaria di medicina, ma con uno stipendio superiore di 180 fiorini, e contemporaneamente fu anche occupato "ad lecturam Philosophiae moralis" con lo stesso salario. In questo stesso anno lo ritroviamo fra gli esaminatori alla laurea in arti di Ambrogio Biraghi di Milano e alla licenza e dottorato in medicina di Paolo da Ozeno.
Nell'anno accademico 1443-44 il F. assunse la lectura mattutina di medicina, con lo stipendio di 250 fiorini e fu tra gli esaminatori alla laurea in medicina di G. Tassi di Pavia. Il 28 apr. 1444 ospitò nella propria casa, sita in Pavia, presso porta Lodi nella" parrocchia di S. Martino, alcuni studenti che sottoscrivevano una protesta contro una illegale elezione dei rettore degli artisti e dei medici; in quello stesso anno il F. passò alla cattedra di medicina teorica, costretto ad allontanarsi frequentemente per curare familiari o amici del duca, come dimostra una lettera del 12 maggio 1445, con la quale veniva disposto che gli fosse comunque corrisposto l'intero stipendio, nonostante le numerose assenze. Nell'anno accademico 1445-46 il F. era di nuovo alla cattedra di medicina de mane con il salario di 250 fiorini, incarico ricoperto ancora nei due anni accademici successivi con stipendi di 300 e 380 fiorini. Contemporaneamente continuò a prestare la sua opera al servizio del duca di Milano per curare suoi amici, fra i quali l'arcivescovo di Bologna Tommaso Parentucelli, futuro papa con il nome di Niccolò V, come dimostrano le lettere del 7 gennaio, dell'8 e del 20 ag. 1446 con cui ancora una volta veniva disposto il pagamento in favore del F. dell'intero stipendio, nonostante le assenze.
Come possiamo desumere dall'epistolario, il F. rimase quasi sempre a Pavia, anche nei momenti di maggiori difficoltà nei rapporti con l'ambiente accademico ticinese e nonostante gli inviti di altre sedi universitarie che gli offrivano un'eccellente sistemazione. Si sa, infatti, che sia l'università di Siena sia quella di Bologna presero contatto con lui, attraverso il collega Lodrisio, che gli scrisse da Ferrara diverse lettere. Il F. non accettò di fatto tali inviti, forse solo per rispetto verso il duca di Milano, suo signore e protettore, visto che, proprio in quell'anno, egli fu oggetto di un ulteriore attacco da parte delle autorità accademiche che, senza avvertire il duca, avevano soppresso la sua cattedra, costringendolo così a impartire lezioni private nella sua casa.
Quello stesso anno era inoltre scoppiata un'epidemia di peste e sembra che in occasione delle sue lezioni il F. esortasse i suoi discepoli ad allontanarsi dalla città per riparare in luoghi più sicuri. Ciò si ricava da una lettera che il duca di Milano gli inviò, il 21 apr. 1451, nella quale egli veniva esortato a moderare i suoi interventi sulla peste per motivi che potremmo definire di "opportunità politica", nel timore che le sue esortazioni a lasciare la città andassero a detrimento del prestigio della stessa e facessero insorgere il sospetto che la politica sanitaria ivi praticata fosse insufficiente. Probabilmente, il F. ottemperò all'invito del duca, perché questi non perse occasione di ricompensarlo, intervenendo presso le autorità accademiche affinché gli fosse restituita la cattedra abolita. Il F. non ottenne però subito la cattedra e fu costretto a chiedere un secondo e più forte intervento del duca e a far intercedere in suo favore anche altri suoi autorevoli amici.
L'aiuto del duca, probabilmente concesso, non mancò questa volta di produrre il desiderato effetto: in una lettera diretta al cancelliere dell'università questi, infatti, ordinava che si pagassero al F. 200 fiorini dello stipendio perduto fino a quella data. Il duca si adoperò inoltre attivamente affinché, resasi vacante la prestigiosa cattedra di medicina ordinaria de mane, vi fosse chiamato l'amico medico con lo stipendio e i privilegi ad essa collegati per l'anno 1452 e per quello successivo. Fu questa certamente l'epoca della maggior fortuna del F. presso i signori di Milano. Una lettera del A luglio 1452 testimonia della sua inclusione nel Consiglio segreto del duca. Nonostante l'appoggio del duca, gli attacchi al F. da parte dell'università continuarono e si espressero in atti talora di palese ingiustizia, come quando, senza motivo, gli venne diminuito di 50 fiorini lo stipendio; o quando fu stabilito che gli fosse corrisposto, per ciascun esame, un importo inferiore a i fiorino, e cioè meno degli altri suoi colleghi.
L'epistolario, ricco di una sessantina di lettere, solo in parte pubblicate dal H. M. Ferrari (pp. 293-331), Offre, insieme con due delle sue opere, la Practice e i Consilia, altri particolari sulla vita del medico milanese. Sappiamo che il F. sposò una certa Elisabetta de Veliate dalla quale ebbe tre figli: di essi parla egli stesso nella Practice, quando ricorda il caso di una sua diagnosi sbagliata che riguardava proprio sua moghe e dove ricostruisce le vicende che lo portarono a diagnosticare, insieme con altri colleghi chiamati a consulto, una gravidanza inesistente, e che venne interpretata con l'ardente desiderio della sua sposa di avere un altro figlio, dopo la morte precoce dei primi due e quella fulminea del terzogenito all'età di sette anni. Con accenti commossi il F. rievoca la dolorosa circostanza che aveva portato sua moglie sull'orlo della pazzia e prodotto in lei i sintomi di una nuova gravidanza, meccanismo che la natura pietosa aveva escogitato, a suo dire, per aiutare l'infelice donna a sopportare un dolore così atroce.
La maggior parte delle lettere citate dal Ferrari riguardano ovviamente l'attività di medico del F. e ce lo presentano al culmine della fama, quando la sua opera era richiesta in varie città d'Italia, e persino all'estero, da una clientela di altissimo rango: è il caso, ad esempio, del duca di Mantova, che richiedeva a quello di Milano il permesso di far partire il F. al fine di averne i servigi. In un'altra occasione fu l'ambasciatore di Francia che si rivolse alla corte milanese per ottenere dal F. un intervento a favore di Luigi XI sofferente di emorroidi, al quale il F. rispose, nel 1466, con un consulto rimasto famoso. Il F. non svolse solo le funzioni di medico, assistendo la persona del duca e degli altri membri della sua famiglia (si ricordano i servigi resi alla duchessa Bianca Maria, che lo aveva in grandissima stima), ma assunse anche incarichi di carattere pubblico. Sappiamo infatti che esercitò, insieme con il collega G. Marliani, il servizio sanitario di Pavia, come si rileva da una lettera al duca del 18 giugno 1468, in cui denuncia il comportamento di alcuni impiegati corrotti che pretendevano determinati pagamenti per rilasciare autorizzazioni dovute.
In quegli anni il F. stese anche il suo testamento, che fu da lui sottoscritto il 4 genn. 1465, confermato il 14 marzo 1466 e completato con un codicillo il 5 genn. 1472. Esso è molto interessante, perché ci permette di conoscere la biblioteca che il F. aveva raccolto nella sua lunga carriera di medico e professore, una biblioteca notevole per i tempi, che egli lasciava in parte ai suoi nipoti e in parte all'ospedale S. Matteo di Pavia. Essa è stata ricostruita dalla Gasparrini Leporace.
Gli ultimi tempi della vita del F. furono spesi nell'ultimazione delle sue opere e nella loro stampa. Morì a Pavia il 30 dic. 1472.
Opere: L'attività scientifica del F., oltre che con l'insegnamento e la pratica della medicina, si espresse con la composizione di tre opere, tipiche della letteratura medica del sec. XV. La prima, in ordine cronologico, sembra essere la Practice cum textu Rhasis libri noni ad Almansorum, edita una prima volta nel 1472 dal tipografo milanese Filippo di Lavagna e successivamente ristampata per lo meno otto volte fino al 1560, in varie città italiane e a Lione (si veda per le edizioni del sec. XV Gesamtkatalog der Wiegendrucke, VIII, coll. 355-358). Sia la prima sia la seconda parte dell'opera sono precedute da una lettera di dedica: la prima al figlio del duca Galeazzo Maria Sforza, il giovane Ermete; la seconda al duca stesso, che nel 1466 era succeduto a Francesco Sforza e aveva continuato a proteggere il F., affidandogli altresì la cura del figlio.
Come si ricava dal titolo, l'opera contiene un commento al IX libro di Rhazes, libro che costituiva un passaggio necessario per ogni professore di medicina, visto che era testo obbligatorio di lettura in tutte le università dell'epoca. In esso era infatti contenuta una specie di summa terapeutica per tutte le malattie del corpo umano, partendo con ordine dalla testa fino ai piedi. La Practice segue nella sua esposizione l'organizzazione del testo di Rhazes e si divide in cinque parti, in cui sono trattate le malattie della testa e dei nervi, dei polmoni e degli organi della respirazione, degli organi della nutrizione e della generazione (con particolare attenzione agli organi genitali della donna) e, infine, delle estremità del corpo. Prima di dare inizio alla spiegazione dei testo di Rhazes, il F. presenta una raccolta delle formule migliori dei medico arabo, la cui conoscenza egli riteneva assolutamente necessaria allo studente di medicina.
La Practice, sebbene sia legata nel suo impianto organizzativo, alla prassi dell'insegnamento universitario, e sia quindi un testo di tipo scolastico in cui si segue una precisa tecnica di commento, rivela tuttavia l'intento dell'autore di riproporre i temi trattati dal medico arabo dal proprio punto di vista, integrando e sviluppando il discorso con proprie esperienze e considerazioni.
Le altre opere composte dal F. videro la luce dopo la sua morte. Le Expositiones super tractatum de urinis et vigesimam secundam fen tertii Canonis domini Avicennae vennero infatti stampate a Milano, da lacopo Sannazzaro nel 1494. A questa edizione ne seguirono altre nel sec. XVI, quasi sempre comprese nelle stampe dell'opera di Avicenna, accanto alle esposizioni di Gentile da Foligno, Giacomo de Partibus, Dino Fiorentino, Ugo da Siena, Averroè, Taddeo Fiorentino, ed offrono una testimonianza della reputazione del F. come espositore di Avicenna.
Come la dedica a Francesco Sforza sottolinea, il F. intende qui cimentarsi nell'esposizione di una parte del Canone diAvicenna generalmente considerata peroscura, e per ciò stesso poco trattata dagli studiosi di medicina. A questo il suo modo di porsi al servizio del suo signore, aiutandolo a mantenere in buona salute il suo esercito, e occupandosi cioè di quelle malattie che colpiscono soprattutto gli uomini d'arme, come appunto le ernie, che insorgono in seguito al salire e scendere da cavallo, la "elefantiasi", che colpisce i fanti che devono stare a lungo in piedi, la podagra, le varici. Il F. sceglie dunque un capitolo difficile del Canone, ma senza la pretesa di apportare personali contributi o di staccarsi dal grande maestro, giacché egli ritiene opera assai fruttuosa anche il solo esporre le sue opinioni.
Particolarmente importanti sono la parte che riguarda le ernie e quella che contiene interessanti lezioni di chirurgia: sono in proposito assai significative le proposte per la cura chirurgica delle ernie, dell'idrocele e delle varici.
L'opera in cui più chiaramente si manifesta la fisionomia della medicina praticata dal F. è costituita dai Consilia ad diversas aegritudines..., edita a Pavia da Damiano Confalonieri intorno al 1478, ed in seguito (secondo le indicazioni del Ferrari, pp. 258-262) stampata ancora altre sette volte fino all'edizione di Lione del 1535, dove l'opera figurava come ordinata "secundum viam Avicennae" insieme con altri trattati di medicina. I 108 consulti medici (tanti ne figurano nell'edizione lionese) riportati dal F. sono una diretta espressione della sua fortunatissima attività di medico pratico e costituiscono, insieme con l'epistolario, una ricca fonte di informazioni, non solo sulla sua vita e sui suoi rapporti personali, bensì anche sulla storia sanitaria e sociale dell'epoca.
Il F. fa riferimento a precisi episodi della sua vita professionale e dimostra una notevole spregiudicatezza nella descrizione di casi scabrosi, talora anche di natura sessuale, indicando sovente nome e cognome del paziente, spesso personaggio di posizione sociale assai elevata. I Consilia ci mostrano attraverso quali vie si riusciva ad entrare in contatto con il celebre medico e fanno luce su molte sue abitudini, come quella di farsi sempre accompagnare da qualche bravo allievo e di scongiurare il rischio di contagi con lanterne e profumi anticontagiosi. Nella cura delle varie malattie il F. riservava un posto fondamentale alla dieta e, secondo la tendenza dell'epoca, privilegiava sempre l'aspetto teorico su quello pratico, dando ai rimedi medici la precedenza e la prevalenza su quelli chirurgici, che rappresentavano solo l'"extrema ratio" della terapia. Interessante è altresì in quest'opera, così legata per altri versi alle idee correnti dell'epoca, l'assenza di riferimenti all'astrologia. Certamente anche il F. condivideva con i suoi contemporanei l'idea che l'evoluzione felice o nefasta di certi processi patologici dipendesse, o fosse comunque in qualche modo influenzata dalle congiunzioni astrali, ma non sembra farvi ricorso; ed anche di certi amuleti e pietre da mettere attorno al collo come mezzo per risolvere qualche situazione critica egli fa raramente uso. Nei Consilia il F. viene a trattare dei più svariati problemi medici: da quelli relativi alle diete da assumere in un certo tipo di attività ("pro scholaribus studere volentibus, pro itinerantibus", ecc.), a quelli che riguardano alcune malattie del capo, come le cefalee, da quelli che concernono certi tipi di depressione psichica, come la malinconia, a quelli riguardanti le malattie nervose.
Fra i vari consulti editi nella raccolta particolarmente famoso risulta il consulto "pro emorroydibus pro rege Francie", espressamente redatto, come è stato già ricordato, per Luigi XI, che offre una chiara e minuziosa trattazione della terapia della flussione emorroidaria quattrocentesca. Oltre alle conoscenze libresche, in primo luogo di Avicenna, il F. fa ricorso in questa occasione, a terapie frutto della sua diretta esperienza, la cui efficacia aveva constatato su altri malati.
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