felicismo
s. m. Tendenza al perseguimento della felicità come obiettivo sociale.
• A onor del vero la carrellata di [Darrin] McMahon si presenta extralarge ma non enfatica, e invita il lettore a fruire di una doppia acquisizione: parabola della felicità come fenomeno semidivino lungo i millenni, e biografie dei singoli personaggi chiamati a testimoniarlo. Si parte canonicamente dai classici greci e latini, si attraversa il policromo Medioevo, si plaude o si irride nelle stanze dei Lumi, si esalta la romantica strada della felicità nell’Ottocento di Wordsworth, Whitman, Keats, e si approda agli additivi del «felicismo» post-moderno. (Giuseppe Cassieri, Stampa, 29 dicembre 2007, Tuttolibri, p. 7) • Per i moderni essere felici è un imperativo che surroga qualunque altro dovere, diventando contraddittorio, poiché l’ingiunzione alla felicità genera ovviamente ansie da prestazione e grandissime infelicità. Inoltre, è un diritto, sancito costituzionalmente (come avviene negli Stati Uniti), e contabilizzabile, come nella aritmetica della felicità teorizzata da Bentham, e praticata da Benjamin Constant, che nel suo diario annota con segni appositi i momenti di felicità e di godimento. Dunque, un fardello ideologico, un obiettivo per sgobboni ‒ come nei corsi di «scienza della felicità» attivati a Harvard ‒, una esigenza compulsiva che genera lo happyism, il «felicismo» che, dalle faccine ridenti degli emoticon all’ingiunzione «Smile!», ricorda quanto avessero ragione i Beatles nel paragonare la felicità a un’arma, sia pure calda. (Maurizio Ferraris, Repubblica, 5 marzo 2017, p. 48, Robinson).
- Derivato dall’agg. felice con l’aggiunta del suffisso -ismo, ricalcando il s. ingl. happyism.