NOMI, Federigo
NOMI, Federigo. – Nacque ad Anghiari (Arezzo) il 31 gennaio 1633 da Giovanni Battista e da Ottavia Canicchi.
Compiuti gli studi nella città natale, a 23 anni fu ordinato sacerdote a Sansepolcro dal vescovo Cherubino Malaspina. La precoce volontà di inserirsi nella vita culturale del suo tempo è testimoniata dalla partecipazione all’Accademia degli Scompigliati di Anghiari con il nome di ‘Inutile’, ma l’occasione per rendersi noto al di fuori del ristretto ambito provinciale gli giunse nell’aprile 1659 con la nomina a maestro della prima scuola di umanità di Arezzo.
La fase aretina fu caratterizzata da una rapida ascesa sociale e dal crescente riconoscimento dei meriti intellettuali di Nomi, che si impose sulla scena cittadina coniugando l’attività pastorale con quella letteraria. Due fattori contribuirono in particolar modo alla sua affermazione: l’ingresso, con il nome di ‘Incerto’, nell’Accademia dei Discordi e l’incontro con Francesco Redi, che fu suo amico e sostenitore per tutta la vita. Il 17 dicembre 1663 ottenne la cittadinanza aretina e venne insignito del titolo nobiliare.
La prima pubblicazione importante, preceduta da alcuni interventi in miscellanee d’occasione, fu il volume di Poesie liriche edito a Perugia nel 1666 per i tipi di Sebastiano Zecchini: nella raccolta, dedicata a Redi, confluirono canzoni e sonetti i cui tratti barocchi risultano moderati dall’influsso di suggestioni latine, petrarchesche e classicheggianti.
Nel 1666 si recò a Firenze per conoscere Antonio Magliabechi, cui desiderava chiedere aiuto per pubblicare una sua traduzione delle liriche di Orazio. Nacque così un’altra amicizia determinante per le sorti dello scrittore, durata fino alla morte. Fu il bibliotecario fiorentino a porre Nomi sotto la protezione di Cosimo III e, nel corso degli anni, a tenerlo aggiornato sulle ultime novità in campo letterario.
Nonostante i riconoscimenti ottenuti, l’ambizione spinse Nomi a cercare nuove possibilità al di fuori di Arezzo. Esonerato dall’incarico di maestro il 2 ottobre 1669, si trasferì a Pisa nel gennaio dell’anno successivo, nominato rettore del Collegio ducale della Sapienza.
Per quanto l’approdo pisano rappresentasse il raggiungimento di un agognato traguardo, l’esperienza nella città toscana fu segnata fin dall’inizio da molteplici difficoltà. Lo Studio stava affrontando proprio in quegli anni una fase di disordine, dovuta agli scontri tra il partito dei ‘galileisti’, favorevoli a introdurre nell’insegnamento le dottrine scientifiche moderne, e quello degli ‘aristotelici’, che invece respingevano qualsiasi innovazione. La situazione era molto tesa e Nomi non fu probabilmente del tutto in grado di padroneggiarla.
La traduzione di Orazio giunse al termine nel 1670, ma fu sottoposta a una scrupolosa revisione prima di essere pubblicata. I quattro libri delle poesie liriche di Orazio Flacco (Firenze 1672) furono stampati con dedica a Cosimo III. Nomi dovette essere in questo periodo vicino all’ambiente di corte, dal momento che buona parte della sua produzione encomiastica risulta centrata sugli eventi che interessavano la famiglia granducale. Sentita fu, per esempio, la partecipazione alle celebrazioni per la morte di Ferdinando II, cui dedicò alcuni testi pubblicati nell’Accademia fatta in Pisa per la morte del Sereniss. Ferdinando II (Lucca 1671). Il progetto di traduzione di Orazio proseguì con Il libro degli Epodi di Orazio trasportato in Toscana favella, giunto alle stampe quattro anni più tardi (Firenze 1675).
I costanti scambi con Redi alimentavano gli interessi scientifici di Nomi, che in questo periodo tradusse in latino le Esperienze intorno a diverse cose naturali dell’amico (con dedica ad Athanasius Kircher). Nel frattempo continuava ad allargare la cerchia delle sue conoscenze erudite e nel 1673 entrò in contatto con Jacob Gronow. Nominato dottore in utroque iure il 12 giugno 1671, nel 1674 ottenne l’incarico di lettore de feudis nel Collegio dei Legisti: la scelta, tuttavia, non fu apprezzata dai colleghi docenti, che criticarono la sua attività a partire dal suo discorso inaugurale.
A compensare i dispiaceri dovuti all’ostilità dell’ambiente accademico giunse il successo in campo teatrale: il debutto come autore avvenne nel gennaio 1677, con la commedia La Fortuna, ovvero Ricchezza partorisce Lusso, e questo Miseria. Il principe Francesco Maria e la granduchessa Margherita Luisa d’Orléans, che avevano assistito allo spettacolo, ne incoraggiarono la stampa, avvenuta nel 1678 per i tipi del Marescandoli di Lucca, con il titolo di Fortuna o Dormi overo la Ricchezza partorisce il Lusso, e questo la Miseria.
La partecipazione agli eventi cittadini e l’omaggio di testi encomiastici a grandi e piccoli dignitari non bastarono a impedire che improvvisamente nel 1682 gli fossero revocati gli incarichi e venisse allontanato dalla città per ragioni non sufficientemente chiare. Tutte le fonti antiche, e lo stesso Nomi attraverso le sue composizioni successive, lasciano intendere che un ruolo di primo piano fu svolto da Giovanni Andrea Moniglia, professore presso lo Studio pisano e medico del granduca. Si è ipotizzato che Nomi, vicino ai galileisti, possa essere stato coinvolto negli scontri avvenuti in quegli anni con gli aristotelici, di cui Moniglia era un fiero esponente (Bianchini, 1984, pp. 21 s.).
Il 15 novembre 1682 giunse a Monterchi come nuovo pievano della chiesa di S. Simeone profeta. L’isolamento presso la piccola località non lontana da Anghiari fu vissuto con frustrazione e desiderio di rivalsa da parte di Nomi, che reagì intensificando l’attività letteraria ed epistolare. A quel periodo risale l’opera più famosa, il Catorcio di Anghiari (postumo, Firenze 1830), che, come molti altri testi dell’autore, fu oggetto di numerose revisioni prima di essere terminato verso la fine dell’estate 1684.
Il Catorcio di Anghiari è un poema eroicomico in ottave, composto da quindici canti. Sulla base del racconto del priore Picconi di come gli abitanti di San Sepolcro trasformarono in trofeo di guerra il chiavistello di una delle porte di Anghiari, Nomi costruì una serie di avventure comiche e fantastiche nelle quali la rappresentazione scherzosa di ambienti e persone reali vivacizza la memoria di molteplici letture. Gli aspetti più interessanti del poema, che non si distingue per particolare originalità, sono le digressioni di carattere scientifico (come la spiegazione della circolazione sanguigna nel canto III), le descrizioni di alcune consuetudini dell’alta valle del Tevere e la complessità del tessuto linguistico.
Contemporaneamente al Catorcio, compose anche le Canzoni spirituali, una raccolta manoscritta di 11 canzoni e 4 sonetti dedicata alla granduchessa Vittoria della Rovere, in cui espresse con accenti petrarcheschi la propria intensa fede nel solco di una visione pessimistica dell’uomo. Notevole impatto ebbe su di lui la notizia delle vittorie ottenute dagli imperiali sul fronte turco, celebrate nelle Nove canzoni (Firenze 1686). Ma fu la conquista della città di Buda a ispirargli un’opera di maggiore respiro, composta tra il 1686 e il 1701: Buda liberata (Venezia 1703).
Poema eroico di imitazione tassesca, composto da 24 canti in endecasillabi, vi si racconta dello scontro tra ungheresi cattolici e protestanti per la conquista di Buda, sullo sfondo dei tentativi ottomani di assalto all’Impero asburgico. Il poema è preceduto da un prologo nel quale Nomi descrive le difficoltà affrontate nel comporre l’opera, tra cui il bisogno di legittimare la scelta di un evento contemporaneo, la necessità di adattare nomi esotici al ritmo dell’endecasillabo e quella di modificare la verità storica per incrementare la forza allegorica della vicenda. Considerata da Nomi il suo capolavoro, la Budaè sempre stata giudicata opera piuttosto mediocre dalla critica.
A rendere possibile tanta operosità contribuiva l’aiuto del chierico Giovan Battista Tavecchia e del nipote Ottavio, che visse con lo zio per 22 anni. Intorno al 1687 Nomi ottenne il titolo di vicario della S. Inquisizione e fu ascritto, con il nome di ‘Arguto’, all’Accademia dei Concordi di Ravenna.
Il 1688 si segnalò per nuovi scritti indirizzati a personaggi della corte medicea, come un Capitolo o Supplica nel quale pregava il granduca di mettere fine alla sua umiliante condizione di esiliato: nei 166 versi in terzine che lo compongono, Nomi descrisse tra il serio e il faceto il disagio di trovarsi circondato da rozzi villani mentre ricordava i suoi meriti di predicatore, insegnante, traduttore, intellettuale, filosofo e scrittore.
L’instancabile penna di Nomi diede nuovi frutti nel 1691, anno cui risale il manoscritto del Santuario, una raccolta di 330 poesie ispirate ai santi del martirologio, disposte secondo l’ordine delle festività. Il Santuario è dedicato all’erudito bollandista Daniel Papenbroeck, che Nomi conobbe probabilmente attraverso Benedetto Bacchini.
A partire dagli anni Novanta si assistette a una progressiva riduzione della produzione letteraria, forse in virtù di una maggior accettazione dei nuovi ruoli assunti dopo l’allontanamento da Pisa. La composizione di testi encomiastici, la corrispondenza con i colleghi letterati e l’ascrizione a nuove accademie (è del 1691 l’affiliazione agli Incitati di Faenza con il nome di ‘Acciottolato’) non si interruppero, ma gli impegni pastorali e di insegnamento – fu nominato maestro della scuola di Monterchi il 17 agosto 1692 – occuparono gradualmente sempre più spazio.
L’unico nuovo, grande progetto portato a termine in questo decennio fu la stesura del Liber satyrarum sexdecim cui lavorò a partire dal 1691. La revisione delle sedici satire, composte in latino su imitazione di Orazio e Giovenale, fu affidata a Gronow, che si occupò anche della stampa.
I componimenti della raccolta delineano nel complesso un quadro di decadenza religiosa e civile che corrisponde alla situazione attraversata allora dal Granducato di Toscana. Prevalgono i temi dell’ingiustizia (satire V, XI, XIV, XVI) e della prevaricazione, tuttavia senza toni eccessivamente astiosi o violenti. La critica ai vizi del tempo è infatti anche occasione per elogiare i sovrani, cui l’autore rivolge fiducioso la richiesta di interventi che sappiano ristabilire moralità e giustizia. Compaiono anche motivi più personali e legati alla biografia dello scrittore: il personaggio di Curculione, in particolare, sembrerebbe riconducibile alla figura di Moniglia, che ancora in questi anni fu bersaglio dei più amari versi di Nomi.
Grave dovette essere il lutto per la scomparsa di Francesco Redi, nel 1698, con cui i rapporti si erano mantenuti ottimi fino alla fine. Lo stesso Nomi aveva nel frattempo incominciato a soffrire di problemi di salute, specialmente di calcoli e artrosi, ma per quanto sentisse gravare il peso della vecchiaia non dismise le sue attività. Proseguì con le corrispondenze epistolari e progettò una nuova raccolta di Epistole latine. Nel 1698 scrisse addirittura una tragedia, forse intitolata Il Clodoaldo o Il Dionigi (titoli ricordati da Fabroni, 1795, p. 356).
Numerose furono anche le ascrizioni a nuove accademie: entrò a far parte degli Accesi di Bologna e, come ‘Fumoso’, dell’Accademia della Botte. Partecipò inoltre personalmente alla creazione dell’Accademia dei Ricomposti di Anghiari, cui appartenne col nome di ‘Negghiente’. Ma l’ascrizione più importante fu senza dubbio quella all’Arcadia, con lo pseudonimo di ‘Cerifone Nedeatide’, avvenuta nel 1703 grazie alla mediazione della marchesa Petronilla Paolini Massimi.
Nomi dedicò gli ultimi anni della sua vita alla stampa e alla diffusione delle opere a lui più care. Nel 1703 furono finalmente editi il Liber Satyrarum e la Buda liberata, quest’ultima con l’aiuto del balì Gregorio Redi, cui andò la dedica.
Morì a Monterchi la notte del 30 novembre 1705.
I Ricomposti, che persero così il loro principale animatore, organizzarono per l’inizio dell’anno successivo un’accademia funebre. Nel testamento lo scrittore raccomandò ai nipoti Alessandro e Giuseppe, nominati eredi universali, di non disperdere i suoi manoscritti e di far incidere la lapide sepolcrale conservata ancor oggi a Monterchi.
Per la bibliografia completa delle opere di Nomi, a stampa e manoscritte, si rimanda a Bianchini (1984, pp. 49-299). In edizione moderna sono stati ripubblicati Il Catorcio d’Anghiari, a cura di E. Mattesini (Città di Castello 1984) e Santuario: poesie sacre. Un calendario liturgico in versi di fine ’600, a cura di G. Bianchini (Roma 1996).
Fonti e Bibl.: G.M. Crescimbeni, Notizie storiche degli Arcadi morti, II, Roma 1720, pp. 260-264; A. Fabroni, Historiae Academiae Pisanae, III, Pisa 1795, pp. 354-358; A. Buratti, Articolo biografico, in F. Nomi, Il Catorcio di Anghiari, Firenze 1830, pp. 3-7; L. Coleschi, Storia della città di Sansepolcro, Città di Castello 1886, pp. 235-238; N. Busetto, La poesia eroicomica. Saggio di una nuova interpretazione, in Ateneo Veneto, XXVI (1903), 2, pp. 539 s.; V.A. Arullani, Nella scia dantesca, Alba 1905, pp. 72-85; E. Bettazzi, Appunti biografici e bibliogr. intorno a F. N., in Scritti varii di erudizione e di critica in onore di Rodolfo Renier, Torino 1912, pp. 697-702; D. Guerri, Stanze dialettali nel “Catorcio di Anghiari” di F. N. (1633-1705), in Giorn. stor. della letteratura Italiana, LXXVIII (1921), pp. 218-220; A. Grilli, Un “Bacco in Toscana”. Con postille manoscritte di F. N. (1633-1705), Ferrara 1928; A. Gianola, Un poema eroico su Buda liberata, in Corvina, X (1930), pp. 142-165; D. Gennaioli, Epopea da burla in alta valle del Tevere. F. N. e il “Catorcio di Anghiari”, in L’alta valle del Tevere, I (1933), 1, pp. 29-33; A. Bennati, La Giostra del Saracino e i suoi poeti: F. N. (1633-1705), in La Giostra, IV (1933); A. De Rubertis, Studi sulla censura in Toscana, Pisa 1936, pp. 321-324; U. Viviani, Un’opera manoscritta sconosciuta ed inedita e la bibliografia di F. N. pievano di Monterchi (1633-1705), in Atti e memorie della Acc. Petrarca, XXV (1938), 17, pp. 277-285; D. Viviani-Fiorini, Un autoritratto in versi di F. N. autore del “Catorcio d’Anghiari” (1633-1705), ibid., pp. 286-291; G. Takács, L’Ungheria, gli Ungheresi e il culto di S. Stefano nei poemi eroici italiani del Seicento, in Annuario dell’Acc. d’Ungheria di Roma, 1938, pp. 42-62; V. Cian, La satira, Milano 1945, II, pp. 465-468; I. Ricci, Uomini illustri di Sansepolcro, Sansepolcro 1946, pp. 71-74; A. Belloni, Il Seicento, Milano 1947, pp. 270-272; C. Previtera, La poesia giocosa e l’umorismo, II, Milano 1953, pp. 48-51; S. Citroni Marchetti, Le satire latine di F. N. e di Ludovico Segardi: aspetti dell’eredità di Giovenale alla fine del ’600, in Studi secenteschi, XVII (1976), pp. 33-60; B. Giorni, Monterchi, Città di Castello 1977, pp. 33-60; G. Bianchini, Due discorsi inediti di F. N. sulla tragedia, in Miscellanea di Studi, I, in Quaderni dell’istituto di letteratura e filologia moderna, 2, Università di Siena - Facoltà di Magistero di Arezzo, 1981, pp. 59-88; E. Mattesini, Un lamento funebre in dialetto nel “Catorcio di Anghiari” di F. N. (1633-1705), in Contributi di dialettologia umbra, I (1981), 3, pp. 189-228; S. De Rosa, Una biblioteca universitaria del secondo ’600: la libreria di Sapienza dello Studio Pisano (1666-1700), Firenze 1983, ad ind.; G. Bianchini, F. N. un letterato del ’600. Profilo e fonti manoscritte, Firenze 1984; Id., Sui rapporti tra F. N. e Antonio Magliabechi (1670-1705) con lettere inedite del N., in Studi secenteschi, XXVIII (1987), pp. 227-293; Id., Francesco Redi e F. N. (con 40 lettere inedite del N.), ibid., XXXI (1990) pp. 205-277; Id., F. N. e Monterchi (1682-1705). Nuove ricerche, Firenze 2008; F. N.: la sua terra e il suo tempo nel terzo centenario della morte (1705-2005), Atti del convegno di studi, Anghiari… 2005, a cura di W. Bernardi - G. Bianchini, Milano 2008.