Federico II (Federigo) di Svevia imperatore
Nato a Iesi, nelle Marche, il 26 dicembre 1194, fu figlio dell'imperatore Enrico VI di Hohenstaufen e di Costanza di Altavilla, figlia postuma di Ruggero II e ultima erede legittima dei re normanni di Sicilia.
Tutta una serie di leggende, provocate da una propaganda ostile, circondò la nascita di F.: si disse che sua madre era stata monaca e tratta fuori dal monastero per sposare Enrico; si esagerò la distanza degli anni fra Costanza, appena trentenne al momento delle nozze, e il principe svevo sui diciotto anni, per poter parlare di un finto parto e quindi di un'origine plebea dello stesso Federico. Si tratta di pure invenzioni, che qui si ricordano solo perché in qualche modo circolanti nell'età di D. e certo note al poeta, come mostra appunto l'episodio di Costanza (v.) nel Paradiso.
Era ancora bimbo, quando nel 1197 gli moriva il padre e poco dopo la madre, che era, tuttavia, riuscita a ottenere il riconoscimento della successione di F. al trono del regno di Sicilia da parte del papa Innocenzo III - si ricordi che era l'alto sovrano del regno stesso - e aveva affidato al pontefice la tutela del figlio. Questi, tuttavia, rimase in realtà abbandonato alle fazioni di ambiziosi signori che si contendevano il potere sia nell'isola sia nel mezzogiorno d'Italia, e di Tedeschi e Normanni: fu perciò anche fatto prigioniero e tenuto sotto controllo per anni e anni fin quasi al raggiungimento della maggior età.
In questo periodo F. riuscì, tuttavia, grazie all'esperta guida di un maestro di cui conosciamo poco più del nome, Guglielmo Francisio, ma che dovette essere uomo di non comune esperienza e cultura, a formarsi una robusta conoscenza del latino e del volgare, mentre dal mondo siciliano circostante gli vennero contatti col mondo arabo e bizantino, di cui sempre rimase attento e curioso osservatore, con l'intima esigenza di approfondirlo sempre più. Non gli mancò, naturalmente, l'insegnamento della pratica delle armi e delle arti cavalleresche: assai presto maturò in lui quella passione per la caccia che non l'abbandonò per tutto il corso della vita.
Uscito di tutela nel 1208, sposò la principessa Costanza d'Aragona, di dieci anni maggiore di lui, che seppe dargli anni felici pur tra le difficoltà del regno, sempre turbato da inquietudini dei sudditi e da ribellioni dei grandi feudatari. D'improvviso, nel 1212, quando ormai il destino del giovane re sembrava definitivamente fissato al regno di Sicilia e al mondo mediterraneo, sopraggiunse il fatto nuovo che doveva profondamente mutare il corso degli eventi.
L'imperatore Ottone IV di Brunswick, voluto dopo molte esitazioni da Innocenzo III, non aveva mantenuto il suo impegno di non toccare il regno di Sicilia e aveva iniziato una serie di operazioni militari rivolte a occuparlo. Contemporaneamente in Germania un gruppo di principi, ostili al nuovo sovrano, aveva rivolto la sua attenzione al rampollo degli Svevi nella lontana Sicilia e aveva pensato di contrapporlo a Ottone. Un'ambasceria mandata a Innocenzo III riuscì a ottenere il consenso a un invito a F., perché venisse in Germania a rioccupare il trono dei suoi avi. Un messaggero invitò il giovane re a capeggiare i suoi fautori: questi accettò e dopo un incontro col papa e un viaggio fortunoso, raggiunse la sua Svevia nel 1212.
Passato dalla politica mediterranea del regno di Sicilia a quella di vasto respiro europeo dell'impero, F., accortamente consigliato, seppe subito orientarsi con un acuto senso politico: si procurò larghe simpatie in Germania e ottenne l'alleanza della Francia, preoccupata dalle relazioni di parentela e di amicizia fra Ottone IV e il re d'Inghilterra, Giovanni. Dopo una serie di scontri si venne alla battaglia decisiva di Bouvines (1214), che assicurò a F. il trono. Dopo esser rimasto in Germania fino al 1220, per riordinarvi lo stato ed eliminare anche gli ultimi focolai di resistenza o di ribellione, l'imperatore eletto tornò in Italia e fu incoronato a Roma in San Pietro il 20 novembre.
Passato poi subito nel regno di Sicilia, iniziò un'energica opera di riordinamento dello stato, condotto con chiara visione dei problemi politici e delle forze in gioco, che riuscì a dominare nel giro di pochi anni, riportando così nel paese una tranquillità perduta da decenni: fece specialmente impressione la vera e propria guerra condotta contro Pietro conte di Celano, il più grande feudatario del regno, che, mostratosi riottoso e poi ribelle, fu sconfitto e messo al bando.
Si vennero, intanto, delineando gravi difficoltà col papa Onorio III, che aveva certo mostrato comprensione e benevolenza per le difficoltà in cui F. era venuto a trovarsi, ma che voleva a ogni costo e al più presto quella crociata che l'imperatore aveva promesso sin dal tempo della sua permanenza in Germania e che più volte aveva differito. Queste difficoltà vennero, infine, al punto di rottura col successore di Onorio, Gregorio IX, che, dopo altri rinvii, pose una data improrogabile che F. rispettò. Ma scoppiata un'epidemia a bordo - il fatto è incontestabile - tutti sbarcarono: il papa lanciò allora la scomunica contro l'imperatore.
Questi, trascorso un anno, ripartì per la Terra Santa alla fine del giugno 1228 con un imponente corpo di spedizione. Contemporaneamente venivano condotte abili trattative con il sovrano arabo al-Kamil, che accordò alla fine il libero accesso a Gerusalemme e ai luoghi santi. L'entrata in città di F., che per il suo secondo matrimonio (con Iolanda di Brienne) aveva il titolo di re di Gerusalemme, fu turbata dal fatto che, essendo egli ancora sotto il peso della scomunica, si vide respinto dalla gran parte degli ecclesiastici presenti; inoltre fu subito costretto a rientrare in Italia, appena seppe che un esercito di clavigeri, formato dal papa e comandato dal suocero, Giovanni di Brienne, stava invadendo il suo stato. F. sbarcò a Bari e con pochissime truppe mise in fuga i clavigeri; ma, pur potendo agevolmente invadere le terre della Chiesa, si fermò e cercò d'intavolare trattative, conclusesi poi nel 1230 con la pace di San Germano, che permise e al papa e all'imperatore parecchi anni di pacifiche relazioni.
Il sovrano ne approfittò per dare al regno di Sicilia una codificazione di eccezionale importanza - le cosiddette Constitutiones Melphitanae - per meglio regolare lo stato con la formazione di un'organizzazione politica e amministrativa centralizzata, diretta dal sovrano per mezzo della Magna Curia come venne chiamato il complesso degli uffici, che dalla cancelleria, ove emergerà la grande figura di Pier della Vigna, alla camera (gli organi finanziari) sorreggevano la vita del regno.
La Magna Curia non fu soltanto un centro di attività amministrativa, giudiziaria ed economica, ma, pur senza esplicitamente proporselo, riunendo in sé uomini di cultura notarile, formati cioè, a un tempo, per la pratica giuridica come per l'esperienza letteraria (un notaio doveva saper stendere atti, spesso complicati, nell'osservanza delle norme giuridiche, ma anche in buon latino), suscitò il gusto e il piacere dell'emulazione, anche sul piano dei problemi artistici e della poesia.
Si aggravavano però le relazioni, mai davvero buone, di F. con i comuni, che reagivano con sospettosità crescente alle iniziative con cui l'imperatore cercava di inquadrarli nella sua politica: si venne così dopo la fallita dieta di Ravenna del 1232 a una rottura completa. I comuni, che sin dal 1226 avevano ricostituito di nuovo la lega lombarda, si strinsero allora intorno a Milano, mentre Cremona raggruppava le città che erano rimaste fedeli all'imperatore e i fautori della sua politica; a Verona Ezzelino da Romano, con una politica liberamente fiancheggiatrice, assicurava la via tra l'Italia e la Germania; a Parma un gruppo di famiglie teneva aperti alle truppe imperiali i valichi dell'Appennino fra la pianura padana e la Toscana. Si ebbero così anni di predominio di F., che raggiunse l'apice con la vittoria di Cortenuova (1237), quando anche la tenacia e la forza di Milano parvero cedere: ma proprio questo predominio, a cui si unì una politica ecclesiastica del sovrano svevo sempre più insofferente dell'ostacolo che per la sua attività rappresentavano i diritti dell'autonomia ecclesiastica, la cosiddetta ‛ libertas ecclesiae ', provocò le preoccupazioni di Gregorio IX, che nella difesa degl'interessi della Chiesa non esitò a scomunicare F. e poi a convocare un concilio per giudicarlo. Se il concilio fu impossibile per la battaglia dell'isola del Giglio (1240), ove caddero prigionieri degl'imperiali molti dei prelati che per mare da Genova avevano cercato di raggiungere Roma, le ostilità continuarono con uno scambio d'invettive e di lettere pubbliche, ove il papa cercava di caricare sul sovrano svevo le più nere tinte apocalittiche fino a presentarlo come un preambolo dell'Anticristo, mentre la Chiesa, a sua volta, nella solenne prosa di Pier della Vigna veniva denunciata come sinagoga d'ipocriti e bisognosa perciò di un'energica opera di riforma, da cui potesse uscire rinnovata e migliorata.
Tentativi di riconciliazione fra i due supremi poteri fallirono, anche perché F. invase il territorio della Chiesa e assediò addirittura, ma invano, la stessa Roma; la situazione quindi precipitò, allorché, morto Gregorio IX e, dopo qualche giorno dall'elezione, anche il suo successore Celestino IV (1241), il nuovo papa, Innocenzo IV, un genovese abile ed energico, abbandonò Roma, rifugiandosi in Francia, ove riuscì a organizzare un concilio e a orchestrare un'accorta politica rivolta a creare intorno a F. un isolamento sempre più grave e scoraggiante.
Il concilio, primo di Lione (1245), si concluse, per quanto riguarda il sovrano svevo, con una solenne scomunica e la deposizione; ma ben più grave di conseguenza fu il fitto intreccio di trattative che condussero alla ribellione di Parma, alla cattura del figlio Enzo, re di Sardegna, da parte dei Bolognesi, e che provocava una serie di ribellioni tra i suoi stessi collaboratori (congiura di Capaccio), mentre Pier della Vigna, venuto anch'egli in sospetto, finiva tragicamente i suoi giorni uccidendosi in una segreta del castello di San Miniato presso Pisa.
Invero, al di là di questi colpi gravi ma non irreparabili, F. conservava intatte le sue forze, ma d'improvviso, mentre si tratteneva nel suo castello di caccia di Fiorentino in Puglia, moriva il 13 dicembre 1250.
La vita politica, nella quale aveva portato tutta la vigoria di una personalità vivace e attiva, capace d'imprimere energia anche ai suoi collaboratori, non rese mai impossibile - è questo un tratto in cui concordano tutti i contemporanei, favorevoli od ostili - un'attività culturale sempre vivace, spesso intensa. Aperto al gusto della poesia e al godimento della musica, fu certo uno degli animatori di quella scuola poetica siciliana, che, se non si sviluppò tutta nell'ambito della Magna Curia, vi trovò certo un punto di riferimento e uno stimolo, non senza vantaggi anche pratici. Del resto presso F. trovarono favore e aiuto un poeta tedesco della grandezza di Walther von der Vogelweide, poeti provenzali esuli dalla loro terra straziata dalle conseguenze della guerra contro gli Albigesi, e, quelli stessi, infine, che gravitavano intorno alla Curia o ne facevan parte: F. stesso, di certo, poetò, anche se si son levati dubbi sull'autenticità delle quattro canzoni che gli sono attribuite nei manoscritti.
La musica e la poesia gli erano sollievo e svago dell'anima; l'interesse più vivo di F. si rivolgeva ai problemi filosofici e alla scienza della natura, come ci attestano le sue Questioni rivolte al filosofo arabo Ibn-Sabin o l'opera più grande e più espressiva della sua personalità, sul piano della cultura, il Liber de arte venandi cum avibus. Libero sia verso la tradizione aristotelica, cui rimproverava di non aver praticato con rigore l'osservazione della natura, sia verso la tradizione ecclesiastica, che tendeva a interpretare la natura come complesso di simboli da intendere in chiave soprannaturale, F. nello studio degli animali e soprattutto degli uccelli enuncia la necessità di una lunga opera di osservazione, di un'attenta considerazione della loro vita e della loro realtà, prima di poterne parlare con coscienza ed esattezza di scienziato. Il De Arte venandi, che gli era costato anni e anni di osservazioni, lungo studio e numerose consultazioni con esperti - l'opera, va detto, è usata ancora oggi con profitto dagli uccellatori - rimane una testimonianza impressionante e per certi aspetti imponente, di un uomo e di un'epoca.
Tutto il suo atteggiamento di fronte alla realtà rende spiegabili - ma non perciò accettabili - le accuse ripetutamente rivolte a F., spesso per motivi propagandistici, di un'ostilità al cristianesimo, anzi a ogni religione, per cui gli fu anche attribuita la paternità dell'idea dei tre impostori Gesù, Maometto e Mosè, che avrebbero con le loro fedi ingannato l'umanità. Pur senza voler entrare nell'insondabile mondo della coscienza personale, molti indizi fanno ritenere che, pur senza eccellere per pietà religiosa, egli abbia mantenuto per la Chiesa e la fede cattolica un rispetto, che del resto si riscontrano nelle sue Costituzioni contro le eresie, mai revocate, e nel suo testamento.
D. non nasconde la sua più profonda ammirazione per F. in tutta la sua opera: in Cv IV III 6 lo ricorda come l'ultimo imperadore de li Romani parlando della sua teoria della nobiltà; nella Commedia F. viene ricordato da Pier della Vigna come il mio segnor, che fu d'onor sì degno (If XIII 75) e da Piccarda come il terzo [vento] e l'ultima possanza della casa di Soave (Pd III 120). In VE I XII, viene presentato in termini di esaltazione addirittura inconsueti per l'Alighieri: F. e il suo figliolo Manfredi sono illustres heroes... nobilitatem ac rectitudinem suae formae pandentes, i quali donec fortuna permisit, humana secuti sunt, brutalia dedignantes. Propter quod corde nobiles atque gratiarum dotati inhaerere tantorum principum maiestati conati sunt (§ 4). È questo un passo dove va non solo sottolineata l'affermazione di un ideale di vita e di cultura, ma si deve anche indicare la partecipazione del poeta stesso che tende appunto a identificarsi con coloro che si sono sforzati di avvicinarsi e di aderire alla loro grandezza: F. assurge così ad altezza e validità di esempio di superamento dell'animalità bruta e di espressione di quanto di meglio può dare l'essere umano.
In questo sfondo viene allora collocata la stessa attività di letterato e di poeta di F., che D. acutamente colloca come momento iniziale e sostegno dell'importanza che il siciliano venne assumendo fra i volgari italiani; né gli sfugge il significato e la portata che vi ebbe la tantorum coronatorum aula (VE I XII 4) con cui viene probabilmente indicata appunto la Magna Curia del regno di Sicilia o il complesso di collaboratori dei sovrani di Sicilia piuttosto che la corte nel senso tradizionale del termine, mentre il siciliano viene presentato non come il dialetto dei ‛ terrigenae mediocres ', ma come l'espressione di una realtà linguistica che superando i particolarismi locali riesce ad affermarsi con validità generale per tutta una civiltà.
Va notato, tuttavia, che per grande che sia l'ammirazione per F. e l'elogio che ne viene fatto, il poeta sembra trattenersi, in quest'opera, da ogni considerazione politica, e lo stesso dicasi anche dell'Inferno, ove F. è ricordato da Pier della Vigna come Cesare, come il signore degno di ogni onore, come Augusto, anche se la sua corte non è più centro di poeti, ma ospizio / di Cesare tocco dal vizio delle altre corti, l'invidia maledica e a un tempo adulatrice (XIII 55-78).
Inoltre nel canto X F. viene collocato fra gli eretici, in un'elencazione di nomi, particolarmente significativa per la mancanza di ogni ulteriore determinazione, negativa o positiva, anche perché, messa in bocca a un ghibellino come Farinata degli Uberti (Qui con più di mille giaccio: / qua dentro è 'l secondo Federico / e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio, vv. 118-120), coglie un'indicazione che se è precisa nella condanna, non osa né scusare né, d'altra parte, sottolineare: ci troviamo, così, di fronte a uno degli atteggiamenti più caratteristici e, sotto molti aspetti, più grandi di Dante. Ammira F., ma non si sente di assolverlo di una mancanza di fede che gli sembra provata e non manca perciò al dovere difficile di giudice che egli si è proposto con tutta l'ardua esigenza di obbedire alla verità, a qualunque costo.
Più difficile da valutare nel loro significato storico sono altri accenni a F. che troviamo nell'opera di D.: il ricordo della sconfitta subita a Vittoria, per opera dei Parmensi, non lontano dalle mura della loro città (Ep VI 19), l'evocazione della splendida civiltà delle corti lombarde prima che Federigo avesse briga (Pg XVI 117, anche se qualcuno pensa a Federico I e alla lega lombarda).
Più significativo è il primo accenno, ove riecheggia la fierezza dei guelfi al ricordo dell'imperatore sconfitto e messo in fuga là dove il nome augurale di Vittoria sembrava già segnare il destino, come del resto avvertiamo anche nella Cronica di fra Salimbene de Adam; D., invece, rievoca l'episodio come un evento triste, pericolosamente ingannevole, per quanto ha d'illusorio nel dare l'impressione che l'imperatore, se poteva esser sconfitto, non aveva quella provvidenziale assistenza divina, che sembrava inscindibile dall'aquila imperiale, mentre in realtà quella vittoria parmense aveva considerato come fatto casuale ed eccezionale al confronto delle dure punizioni di Federico I contro i suoi ribelli. È questo un discorso, se non andiamo errati, che mostra all'evidenza il senso e i limiti del guelfismo di D., chiarendo e precisando l'aspetto e il senso dell'atteggiamento verso Federico II. Questi appare al poeta, nel secondo accenno, con una connotazione neutra, forse, ma anche larvatamente negativa: in sostanza F. turba e inquieta una vita cortese in sereno sviluppo, che viene anzi sospinta alla sua fine. Nell'un caso come nell'altro ci sembra che, rispetto a F. ‛ politico ', il giudizio del poeta sia prudente e riservato e comunque non entusiastico come per il F. protettore di poeti, filosofo e letterato. Da tutto questo discende una delineazione coerente, e, nonostante la sua frammentarietà, organica della personalità del grande Svevo, quale appare al poeta; più ricca e intensa sul piano culturale e umano (non vien certo rifiutato l'elogio del De vulg. Eloq.), più sfocata e meno significativa sul piano della realtà politica, inaccettabile, infine, su quello religioso e teologico.
Nel complesso intreccio di questi piani di giudizio emergono cadenze cronologiche non prive di significato e, comunque, legate alle vicende storiche dell'epoca e personali del poeta. Il momento elogiativo, col suo giudizio attento all'opera di cultura di F. e di Manfredi (si ricordi che di quest'opera nulla si dice nel lungo episodio che lo riguarda nel terzo canto del Purgatorio), si riferisce, soprattutto, a un tempo in cui non si era ancora venuta manifestando in D. la consapevolezza dei problemi storici dell'epoca, con la ricerca delle ragioni per cui il mondo è fatto reo (Pg XVI 104). Quando una tale questione s'impone alla coscienza del poeta, i problemi della cultura tendono a perder di significato e di rilievo, sempre più sostituiti da quelli della realtà religiosa e politica: ma proprio qui F. cede anche di fronte al suo avo, il Barbarossa. Non è riuscito a vincere e superare i comuni, anzi da Parma è stato vinto a Vittoria; e inoltre è eretico. Ed è questo, lo ripetiamo, fatto che D. condanna, anche se proprio la grandezza umana di F. gli evita più pesanti giudizi.
Irrilevante, per una messa a fuoco del pensiero di D. su F., è il ricordo, nella bolgia degl'ipocriti, del supplizio delle cappe di piombo stabilito da F. per i colpevoli di lesa maestà: si tratta di punizione appena ricordata da documenti e sulla cui natura non siamo esattamente informati, anche se uno dei commentatori di D. a If XXIII 66, il Lana, dà di questa tortura mortale una paurosa descrizione. Va solo precisato che non fu invenzione di F., e venne praticata anche fuori dei suoi stati.
Bibl. - La bibliografia su F. è vastissima: ci limiteremo a rinviare a K. Hampe, Kaiser Friedrich II in der Auffassung der Nachwelt, Stoccarda-Berlino-Lipsia 1925, a cui va affiancata la migliore biografia moderna di F., quella di E. Kantorowicz, Kaiser Friedrich der Zweite, 2 voll., Berlino 1927-1931, che rimane ancora fondamentale specialmente per il secondo volume dedicato all'indicazione delle fonti della bibliografia (non tradotto per l'ediz. ital., a c. di M. Offergeld Merlo, Milano 1939). Più recente, ma assai più sintetico e rapido, il volumetto di H.M. Scholler, Kaiser Friedrich II, Gottinga 1964, che dà ulteriori indicazioni bibliografiche ed è utile in modo particolare per la bibliografia degli studi tedeschi più recenti su vari aspetti dell'opera di Federico. Sulla Magna Curia non va trascurata l'opera di W.E. Heupel, Der sizilische Grosshof unter Kaiser Friedrich II, Lipsia 1940, ove però all'attenzione dedicata ai problemi dell'amministrazione non corrisponde un interesse ai fatti della cultura letteraria e giuridica che pur nella Curia si manifestano. Su questi aspetti, indicazioni possono venire dagli studiosi della scuola poetica siciliana (v.), che tendono oggi a non preoccuparsi della realtà storica dei vari poeti: si veda, comunque, la raccolta di studi di F. Torraca, Studi sulla lirica italiana del Duecento, Bologna 1902, tutti dedicati a uomini e vicende della scuola siciliana. I problemi realtivi a F. e alla sua concezione dello stato sono discussi da G. Pepe, Lo stato ghibellino di F. II, Bari 1938. L'atteggiamento di D. nei riguardi di F. è di solito discusso negli studi su D. e gli Svevi, come quelli di W. Cohn, Die Hohenstaufen un Urteil Dantes und der neuren Geschichtschreibung, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XV, n.s., VI (1933) 146-184; e H. Löwe, D. und die Staufer, in Speculum historiale, Monaco s.a. (ma 1965) 316-330; in studi sui rapporti col regno di Sicilia come quello di F. Torraca, Il regno di Sicilia nelle opere di D., in Studi danteschi, Napoli 1912, 356-365. A proposito di F. sono poi specialmente importanti i commentatori antichi, che se non offrono dati nuovi o di rilievo storico, danno però l'atmosfera e l'alone di tradizioni addensatesi attorno alla personalità del grande Svevo. Né meno attenzione va rivolta alle ‛ lecturae ' per i passi ove F. viene ricordato e ai commenti del Convivio, fra i quali spicca il Busnelli-Vandelli. Su F. e le corti dell'Italia settentrionale abbiamo lo studio di G. Arnaldi, La marca trevigiana " prima che Federigo avesse briga ", in D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 29-37.