Fascismo. L’Europa centrorientale e i sistemi totalitari
Il fascismo italiano, l’Unione Sovietica di Stalin e il Terzo Reich non furono un intermezzo casuale né una semplice parentesi della storia di tre grandi nazioni. Ebbero radici comuni, a partire dal terremoto della Prima guerra mondiale; ma vanno esaminati uno per uno.
C’è chi nel nazionalsocialismo vede anzitutto una risposta alla barbarie bolscevica e chi sostiene che il «totalitarismo incompleto» dell’Italia fascista avesse ben poco in comune con il «totalitarismo perfetto», eretto a sistema, del Terzo Reich: affermazioni di cui una lettura accurata delle fonti non può che far piazza pulita. I regimi s’imitarono, presero l’uno dall’altro. Nella sostanza furono affini, pur nella peculiarità di ciascuno.
La Seconda guerra mondiale ha offuscato l’importanza del sistema fascista in Italia, largamente imitato in Europa e America Latina. W. Schieder lo chiama a ragione Ursprungsfaschismus («fascismo fondatore»). In un mondo scosso dalle rivoluzioni sociali il fascismo italiano coniugava l’unione «il lavoro con il capitale», conciliava i rivoluzionari con la Santa Sede, rispettava parte delle tradizioni nazionali, concedeva spazi di libertà alla nuova arte e, in certi periodi, conseguiva apprezzabili risultati anche in economia.
Lo si osservava con attenzione in Spagna, in Francia e in tutta l’Europa centrorientale: dall’Austria di E. Dollfuss e K. von Schuschnigg alla Lettonia di K. Ulmanis, dove funse da modello, più o meno fedelmente imitato, dei locali sistemi autoritari o semitotalitari.
Con i Comitati d’azione per l’universalità di Roma (CAUR), B. Mussolini riuscì a costituire un embrione di internazionale fascista. Hitler non ne fu capace. Mussolini sapeva misurare l’utilità di organizzazioni per qualche verso simili alla seconda Internazionale, di cui un tempo aveva fatto parte. Hitler no: quel modo di pensare gli era estraneo. Il suo credo era fatto di poche certezze: l’assoluta supremazia della razza germanica, la forza militare; più una sfilza di anti: antisemitismo, anticomunismo, antidemocratismo, antiparlamentarismo. Mussolini gli aveva fatto da battistrada. Poi capitò a Hitler e ad altri in Europa, a destra e all’estrema destra, di servirsene per accreditare la loro ingannevole moderazione.
Divincolatisi dai ceppi dell’antifascismo politico («soltanto un fascista può criticare la patria dei soviet» avvertiva minaccioso il governo di Mosca) e dai lacci e lacciuoli dell’anticomunismo più becero, dopo il 1989 in auge soprattutto nell’Europa centrorientale, gli storici si vestono oggi da archeologi per rinvenire sotto le macerie dell’oblio il verbo fascista che fino al 1939 il governo di Roma aveva diffuso in centinaia di migliaia di pagine stampate in ogni lingua, in programmi radiofonici per l’estero e nelle conferenze di professori e letterati mandati in giro per il mondo. Un verbo che in Europa risuona tuttora nei programmi di qualche partito estremista, per es. in Ungheria.
Negli anni 1960-80 in Polonia, Ungheria e URSS la storia del fascismo italiano diventava fiaba, una fiaba storica vagamente allusiva per raccontare i sistemi totalitari e autoritari locali. Dopo il 1989 l’Europa centrorientale discute soltanto dei totalitarismi e autoritarismi insediati dal regime sovietico. L’interesse per i fascismi storici latita: il pubblico, anche colto, ne sa sempre di meno. La Grecia di I. Metaxas, formatasi nel 1936 come Stato di stampo fascista senza alcuna ingerenza esterna, prese a modello il regime mussoliniano che Metaxas, esule in Italia, aveva visto da vicino. Anche in Lettonia il regime di K. Ulmanis, fondato sulla mobilitazione totalitaria delle masse, s’ispirò al governo delle camicie nere. I Paesi baltici si richiamavano volentieri all’Italia in funzione tedesca. Della Germania temevano l’esercito, accampato a ridosso della frontiera, la potenza, l’espansionismo, nonché il controllo delle minoranze di lingua tedesca, forti e spesso ostili.
L’Italia, militarmente debole, era il Paese lontano dell’utopia fascista.
Qualche tempo dopo la Germania nazista annetteva uno Stato autoritario, l’Austria, e ne invadeva un altro, la Polonia; e l’Italia fascista attaccava l’Albania, la Grecia e la Iugoslavia, i cui regimi si erano modellati su quello di Roma. La volontà di conquista aveva avuto la meglio sulla comunanza delle idee.
L’ideologia del totalitarismo bolscevico si richiamava alle antiche utopie di un’umanità perfetta. Stalin costituiva, all’evidenza, un caso a parte, ben diverso da quello della maggioranza dei bolscevichi della vecchia guardia. Indifferente a dottrine e programmi, si serviva abilmente dell’opera di alcuni pensatori, e talvolta se ne proclamava erede. Radicata in secoli di nobili speranze, l’idea comunista univa, oltre le frontiere, uomini di ogni lingua, razza, cittadinanza. Il nazionalsocialismo di Hitler li ricacciava; la forza attrattiva dell’ideologia nazista fu infinitamente più bassa.
L’utopia comunista di giustizia sociale è sopravvissuta alla caduta dell’URSS. Oggi, in Europa, non ci si preoccupa abbastanza di distinguerla dalle utopie socialiste del passato. Analizzando il concetto di totalitarismo comunista il filosofo polacco A. Walicki, come già con R. Aron, mette in risalto l’importanza dell’ideologia e contesta l’uso e l’abuso dell’aggettivo «comunista» riguardo a sistemi e partiti dell’Europa orientale.
Con Z. Brzeziński, Walicki distingue tre fasi di riflusso dal totalitarismo comunista: autoritarismo comunista, autoritarismo postcomunista e pluralismo postcomunista. D’accordo con questa tipologia, negli anni Ottanta l’URSS attraversava la fase dell’autoritarismo comunista, la Polonia dell’autoritarismo postcomunista, il totalitarismo comunista seguitando a perdurare ormai solo in Asia. Riguardo all’utopia comunista Walicki osserva: «Il modello totalitario è indispensabile per comprendere a fondo due processi storici, due ordini evolutivi: il processo di totalitarizzazione, culminato nello stalinismo, e il processo: lungo, complicato e poliedrico, di detotalitarizzazione». Nozioni quali: post-totalitarismo, post-totalitario hanno il grave limite di oscurare le traiettorie di detotalitarizzazione. Questa, sovente, procede per tappe digradanti: da un regime autoritario mediante un regime transitorio a un regime democratico; ovvero dall’autoritarismo alla democrazia. Ma lo schema non è per nulla vincolante. Ancorché nebulosa, la nozione di post-totalitarismo non riguarda soltanto il passaggio alla democrazia. Si è verificato anche il contrario, per es. in Russia, dove al totalitarismo sopravvenne in un primo momento una dittatura autoritaria, e dopo un nuovo totalitarismo, per qualche aspetto diverso da quello precedente.
Oggi si è portati a credere che la democrazia sia il traguardo finale della storia dell’uomo: piacerebbe non dirlo, ma è un’utopia. Anche il comunismo lo è stato: si proponeva di sostituirsi alla democrazia capitalista fondata sullo sfruttamento e le ingiustizie sociali, ma, per dirla con il filosofo T. Todorov, fu una medicina peggiore del male.
Si discute, tra gli storici, di Stati totalitari. Quali, e quanti: soltanto la Germania di Hitler e l’URSS di Stalin, gli unici ad aver subordinato in tutto e del tutto l’individuo allo Stato totale e perseguito lo sterminio di massa di concittadini e stranieri? Compiutamente totalitari furono soltanto i Paesi dell’«arcipelago Gulag» e dell’olocausto oppure il concetto può estendersi anche ad altri?
Nel definire il totalitarismo si dovrebbe riflettere con attenzione (che spesso viene a mancare) sia sul sostegno popolare che, pur variamente intenso, accompagnò A. Hitler in tutta la parabola del Terzo Reich sia sull’indubbia popolarità di Stalin negli anni Trenta e l’appoggio di massa di cui godette nel periodo della Seconda guerra mondiale.
A questo punto lo studioso dovrebbe indagare, problema cruciale, il rapporto tra masse popolari e autorità, tracciare la variabile del sostegno popolare per il governo dei soviet dal 1917 al 1991, e saper dire quando, pur in assenza di qualsiasi autentica mobilitazione di massa, la passività, il terrore e la propaganda cominciarono a determinare l’Unione Sovietica del secondo dopoguerra. Quanti indicatori debbono riunirsi perché un sistema si definisca totalitario? Alcuni, per accordo comune, figurano in ogni catalogo di connotati: appoggio di massa almeno in certi periodi del regime; terrore di massa; unificazione totale di cultura e propaganda; sistema verticale del potere monopartitico; subordinazione totale dell’individuo allo Stato e al partito; atomizzazione dei rapporti interpersonali.
Dai bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki non può seriamente asserirsi che le democrazie non siano capaci di atti di sterminio. Cionondimeno è vero che i regimi totalitari vi ricorrono più spesso: da ultimo in Asia e America Latina. In Spagna dopo la guerra civile il regime di F. Franco, benché governasse senza il sostegno attivo della maggioranza, seminando e radicando la povertà e la miseria, poté praticare a lungo il terrore e lo sterminio di massa.
Per numero di vittime tra i propri cittadini il franchismo sopravanzò di gran lunga il fascismo italiano. C’e da chiedersi, pertanto, se lo sterminio di massa serva ancora a distinguere gli Stati totalitari. Ovvero se esso debba ormai annoverarsi tra gli attributi del Novecento. Negli ultimi decenni vari, anche disparati, avvenimenti sono stati qualificati meccanicamente sotto l’etichetta di sterminio comunista o fascista. P. Levi affermava giustamente che i crimini di Pol Pot ricordavano piuttosto le tecniche di sterminio della Germania di Hitler che dell’URSS di Stalin.
Lo stesso può dirsi delle epurazioni etniche nell’ex Iugoslavia, affini ai massacri della Seconda guerra mondiale, ma sostanzialmente estranei alla prassi di governo ai tempi di Tito. Il genocidio nei Balcani del dopo Tito fu opera di nazionalisti trovatisi a capo di piccoli Stati che, peraltro, non possono dirsi tipicamente totalitari. Ciò non toglie che quelli che lo furono, in particolare i più grandi, applicarono nell’Europa del Novecento tecniche di genocidio, già peraltro sperimentate dalle potenze coloniali fuori del vecchio continente.
Casi particolari di transizione da sistemi di tipo fascista a quelli di tipo sovietico, la Germania, l’Ungheria, la Romania e la Croazia costituiscono un campo oltremodo fecondo di indagini comparate su vari modelli di totalitarismo. Nel totalitarismo del Terzo Reich lo sterminio assunse dimensioni e ritmi industriali; la Repubblica democratica tedesca non lo praticò affatto: basta per affermare che la RDT non fu totalitaria? O lo si può desumere dal fatto che W. Ulbricht ed E. Honecker non godettero di un vasto sostegno? Si ritorna al problema degli indicatori: quanti e quali debbono riunirsi insieme perché un sistema possa dirsi totalitario. Nell’Europa centrorientale l’aggettivo totalitario e il sostantivo totalitarismo sono stati sviliti dopo la svolta del 1989 a rozzi arnesi di lotta politica che disturbano una ricostruzione corretta della storia. Tra tanti dubbi un’affermazione, purtroppo, è certa: sotto nuove vesti il totalitarismo e l’autoritarismo perdurano anche nel mondo di oggi.
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