FAMIGLIE LINGUISTICHE
Con riferimento alla nozione di discendenza generazionale che il termine ''famiglia'' implica, la locuzione f. l. fa riferimento a gruppi di lingue che risultino in qualche modo imparentate fra loro (v. lingue, XXI, p. 202).
L'immagine di un legame storico-genealogico fra lingue secondo il modello della discendenza patrilineare trova la sua prima formulazione in alcuni passi del Genesi (capp. 10 e 11): dai tre figli di Noè, Sem, Cam e Jafet, discesero le generazioni umane successive al Diluvio, in particolare ab his divisae sunt insulae gentium in regionibus suis, unusquisque secundum linguam suam, et familias suas in nationibus suis (Gen. 10, 5). Nell'antichità greca e romana non si va oltre un'esigenza piuttosto generica di classificazione, in cui domina, per così dire, una ''storia statica'' (Robins 1973). Criteri formali commisti a valutazioni letterarie portarono i Greci a individuare quattro varietà differenti rispetto alla koinè: la dorica, l'eolica, la ionica e l'attica. I Romani, con Varrone (il quale seguiva probabilmente gli insegnamenti del greco Filosseno) e poi con altri, giunsero a connettere fra loro greco e latino, ma senza una chiara identificazione degli effettivi rapporti genetici tra le due lingue. Il punto di vista che trova le sue origini nei citati brani biblici finì rapidamente con l'imporsi, nel momento in cui si attuò la sovrapposizione del modello culturale cristiano (con forti ascendenze ebraiche) su quello classico. Così autori quali Agostino e Isidoro di Siviglia asserirono la primogenitura dell'ebraico tra le lingue umane e ipotizzarono una tripartizione delle lingue dopo il Diluvio in semitiche, camitiche e iafetiche. Tale opinione ha dominato la riflessione linguistica occidentale sino alle soglie dell'Ottocento, malgrado alcuni pensatori si fossero accorti della possibilità di distinguere alcuni gruppi linguistici indipendentemente dalla tradizione biblica. È il caso dello Scaligero, il quale parlò del greco, germanico, slavo e neolatino come di quattro matrices linguae, ciascuna caratterizzata da un lessema diverso per il nome di Dio, posto che matricum linguae, inter se nulla cognatio est, neque in verbis neque in analogia. In modo sostanzialmente simile Dante nel De vulgari eloquentia (1303-04) aveva enunziato la teoria di un ydioma trifarium (lingue dell'oc, dell'oil, del sì, legate però da un rapporto genealogico), contrapposto al ''greco'' e alle lingue dell'iò. Altrettanto originale fu la teoria classificatoria proposta da Leibniz, che collocò l'ebraico allo stesso rango di altre lingue all'interno del ramo ''aramaico'' o ''arabo'', distinto dal ramo settentrionale o ''iafetico'' o ''celtoscitico''.
La nozione di f. l. occupa oggi un posto centrale nell'ambito della classificazione genealogica delle lingue storico-naturali, di quel genere di classificazione, cioè, che mira a collocare varietà linguistiche del presente e del passato in uno schema complesso di rapporti di derivazione. In questo senso il concetto di f. l. assume un valore che non è solo descrittivo, come nel caso delle classificazioni su base geografica o tipologica. Al momento di inserire una data lingua all'interno di una particolare f., si suppone che essa manifesti, al pari di altre, una discendenza da un archetipo comune, cosicché si può ben dire che l'etichetta stessa di f. l. equivalga a un'ipotesi ''forte'' sulla posizione storica dei sistemi considerati. In conformità a tale principio il linguista francese Meillet (1938) scrisse che "le lingue imparentate costituiscono in realtà una medesima lingua modificatasi in maniera differente nel corso del tempo" tanto che si è autorizzati ad affermare che "ciò che definisce una parentela linguistica è unicamente un fatto storico".
A partire dalle prime esperienze ottocentesche in sede di comparazione indoeuropea la metodologia ricostruttiva ha elaborato una serie di criteri formali volti ad accertare il grado di affinità genealogica contratto da diverse lingue che si presume appartengano alla stessa famiglia. Come abbiamo osservato, l'affinità tra sistemi linguistici documentati si traduce operativamente nella postulazione di una sorta di minimo comune denominatore che simbolizza e sussume i tratti comuni di una certa f. o, se si preferisce, di un certo ''nodo'' nella ramificazione filogenetica. Questo ''nodo'' possiede uno statuto del tutto particolare, in quanto è il frutto di un procedimento astrattivo e si colloca, pertanto, al di fuori della continuità evolutiva che lega i vari stadi di una lingua. Solo in casi eccezionali realtà documentaria e archetipo di una f. l. si trovano congiunti; per lo più le varie ''protolingue'' sottese alle f. appartengono a fasi predocumentarie, come il protoindoeuropeo, il protosemitico o, a un livello filogeneticamente più basso, il protogermanico, il protoslavo, il protobantu, il semitico nordoccidentale. Situazioni come quella della f. l. romanza, di cui − almeno teoricamente − ci sono noti direttamente archetipo (il cosiddetto latino volgare) e propaggini storiche (le varietà italiane, iberiche, ecc.), non sono molto frequenti (vedi anche quel che accade in area indiana e iranica). La nozione di f. l., infatti, implica un tempo di diffusione e di frammentazione della comunità linguistica originaria quasi sempre più esteso di quello tramandato dai documenti scritti. Si noti, per giunta, che la stessa romanistica è sovente costretta a ricostruire su base comparativa parole che legano fra loro i componenti della f. neolatina; così, per es., sulla base dell'ital. carogna, franc. charogne, provenz. caronha, spagn. carroña, si postula un lat. volg. *carōnia (da caro, carnis "carne") assente nella documentazione latina. Alla luce di quanto si è appena detto circa lo statuto delle Ursprachen si intende l'assioma enunciato da Hjelmslev (1970), per il quale "dovunque esista una parentela genetica tra lingue, esiste pure una funzione degli elementi fra i loro sistemi", vale a dire l'archetipo esprime una relazione funzionale il cui dominio è rappresentato da ciascuno degli elementi confrontati, cosicché ogni entità ricostruita è tale in quanto manifesta il rapporto genealogico tra entità omologhe nelle lingue storiche.
I raffronti fra entità linguistiche appartenenti a membri della stessa f. si fondano essenzialmente sul principio dell'arbitrarietà del segno, formulato a suo tempo da F. de Saussure; "data l'arbitrarietà del rapporto tra forma e significato − scrive Greenberg (1953) − le somiglianze tra lingue, quando appaiano più numerose di quelle attribuibili al caso, debbono ricevere una spiegazione storica, o per un'origine comune o per prestito". Infatti la constatazione di somiglianze lessicali tra due o più sistemi linguistici non è di per sé garanzia assoluta di un rapporto di affinità genealogica. Queste somiglianze possono essere dovute al caso, come avviene in coppie quali ingl. bad e pers. bad "cattivo", ungher. föld "terra, suolo" e ted. Feld "campo", ingl. much e spagn. mucho "molto". Talvolta le somiglianze si spiegano per prestito predocumentario, come nel caso di paleosl. xlĕbŭ "pane" dal got. hlaifs (/xlεfs/) "pane". Prive di valore genealogico, infine, sono le convergenze semantiche e funzionali, come nel caso dei calchi o delle isoglosse morfosintattiche (si pensi all'espressione del futuro nelle lingue dell'area balcanica): si tratta di fenomenologie legate al ''tipo'' linguistico e alla sua diffusione in lingue geograficamente contigue (vedi anche oltre).
Decisamente importante, ai fini dell'accertamento di un'affinità nella stessa f. l., è il riconoscimento di somiglianze nei paradigmi morfologici. Il ritrovamento di un medesimo schema strutturale nei procedimenti grammaticali di due o più lingue è una prima conferma di un'ipotesi genealogica: così, per es., l'opposizione tra desinenze primarie e secondarie rispettivamente per la i, ii e iii persona singolare (i.e. *-mi ∼ *-m, *-si ∼ *-s, *-ti ∼ *-t) si riscontra in lingue come l'indiano antico, l'avestico, l'ittita, il paleoslavo, il greco, il gotico, il latino; questa isoglossa morfologica è già un ottimo indizio di probabile affinità fra le lingue in questione. Da ciò si deve poter scendere a livello delle strutture fonologiche. Perché, infatti, una somiglianza tra unità significative si trasformi in un rapporto genealogico, in una ''triangolazione'' tra la forma x della lingua A e la forma y della lingua B con la protoforma *z della protolingua C, occorre inserire il raffronto in una griglia di equazioni fonologiche: "ciò che consente di definire genealogica una genealogia linguistica è dunque una sostanza fonica finalizzata a funzionare in sequenze strutturate di unità funzionali" (Belardi 1990). La somiglianza tra voci con significanti e significati confrontabili, appartenenti a lingue della stessa f., deve essere comprovata. Quel che assicura la raffrontabilità genealogica tra il gr. antico phretēr "confratello", il lat. frāter, il gotico brōpar, l'indiano antico bhrātar-, l'avestico brātar- "fratello" è l'accertata equivalenza dei singoli segmenti quali per es. gr. /ph/, lat. /f/, indiano antico /bh/, avestico /b/, gotico /b/ e la loro conseguente filiazione da un indoeuropeo */bh/. In mancanza di ciò si potrebbe supporre la diffusione del termine da una lingua all'altra.
La congruenza stabilita sul piano dei fattori esclusivamente tipologici, si è detto, sfugge di per sé a una precisa identificazione storica, potendo essere attribuita semmai a convergenze fra membri di una classe geografica (o ''lega linguistica'', ted. Sprachbund). Questo assunto è stato ribadito con grande energia da vari comparativisti. Benveniste (1971), in particolare, dimostrò come una certa tesi di Trubeckoj (1939), secondo cui si possono definire lingue della famiglia indoeuropea quelle lingue che presentano semplicemente ed esclusivamente sei precisi tratti tipologici, fosse genealogicamente assurda, in quanto una lingua amerindia dell'Oregon, il takelma, possiede proprio quei sei tratti, ma non può evidentemente essere considerata una lingua indoeuropea. Più in generale l'estrema problematicità delle ricostruzioni di entità linguistiche originarie sulla base di tratti tipologici e, comunque, non fonologici è stata di recente sottolineata da studiosi italiani quali Belardi (1990) e Ambrosini (1988).
L'identificazione dei rapporti inerenti alla f. l. indoeuropea rivestì il ruolo di vera e propria ''frattura'' epistemologica rispetto alle ricerche del passato. Non è azzardato affermare che solo successivamente ai lavori di F. Bopp (1816) e di R. Rask (1818) si è stati in grado di analizzare e perfezionare scientificamente il complesso problema della classificazione in f. linguistiche. Pur tuttavia, non bisogna dimenticare che un deciso passo scientifico era stato compiuto già a partire dal Rinascimento, quando si cominciò a intuire la centralità del concetto di evoluzione storica nell'ambito dei volgari romanzi. In Italia, in particolare, grazie a personalità quali L. Valla e C. Tolomei, si verificò una prima apertura verso l'idea di un rapporto filogenetico tra latino e italiano. Questa cultura, consolidata dalla filologia classica posteriore, diventò nell'Ottocento la base su cui venne a costituirsi un confronto euro-asiatico che assegnò al sanscrito il ruolo di ''lingua madre'' delle altre lingue indoeuropee. La fase ottocentesca della riflessione linguistica, dunque, corrispose al superamento definitivo del paradigma biblico e, dopo un momento iniziale fortemente orientato in senso romantico-storicistico, si integrò con una concezione naturalistica dell'evolversi dei sistemi di lingue. Nel secolo precedente si era arrivati a distinguere ''specie'' linguistiche differenti secondo il tipo formale, esattamente come avveniva nelle tassonomie botaniche a partire dalla Philosophia naturalis e dal Systema naturae di C. Linneo. Parecchi comparativisti della prima generazione furono indotti a postulare un cammino ''evolutivo'' delle specie linguistiche indoeuropee rigidamente scandito secondo tappe strutturali (F. von Schlegel, F. Bopp). Più tardi l'impatto delle teorie darwiniane sui sistemi di classificazione del mondo naturale si ripercosse ancora più profondamente sui modelli di sviluppo della f. indoeuropea. Lo schema intuitivo di filiazione genetica delle lingue si trasformò in autori come A. Schleicher in un modello esplicativo rigido, tale per cui da stadi linguistici isolanti, attraverso fasi di agglutinazione e inflessione, le lingue storiche crescerebbero al pari di un organismo naturale per poi decadere e morire.
Lo Schleicher immaginò un conseguente ramificarsi della f. l. indoeuropea attraverso scissioni progressive, a seguito delle quali si incrementerebbe il numero dei rami e quindi dei sottogruppi. La Stammbaumtheorie schleicheriana subì critiche molteplici, specie da parte di studiosi impegnati sul versante della ricerca geolinguistica e dialettologica, i quali scorgevano carenza di storicità in un procedimento che di per sé è puramente logico. La validità di tali critiche resta tuttavia parziale, visto che esse toccano semmai l'idea della concreta evoluzione dei sistemi linguistici, non la loro possibile classificazione genealogica. Il procedimento comparativo-ricostruttivo, che abbiamo detto essere alla base della partizione in f. l., elegge come principio regolativo la reductio ad unum del molteplice. Di conseguenza l'immagine di una ramificazione ad albero (di un dendrogramma) è il frutto stesso dell'operazione del classificare. Parallelamente a quanto avviene nella scienza filologica, dove le famiglie di manoscritti sono rintracciate mediante errores coniunctivi e disiunctivi, in linguistica i sottogruppi di una f. vengono di volta in volta individuati attraverso l'elencazione di isoglosse specifiche di ciascun gruppo. Per es. gli esiti diversificati dei fonemi di timbro *e, *o, *a nelle lingue indoeuropee costituiscono un'importante serie di isoglosse, ciascuna delle quali definisce caso per caso le lingue germaniche, le lingue slave, le lingue celtiche, le lingue italiche, le lingue indo-iraniche. Il raffronto con altri tratti formali colloca ognuno dei gruppi in un ''nodo'' all'interno della ramificazione ipotizzabile in fase predocumentaria per l'indoeuropeo.
La proiezione del modello della filogenesi naturale sulla classificazione in f. l. non è stata mai seriamente inficiata, ma lo stesso non può dirsi dei metodi e dei risultati delle specifiche operazioni classificatorie. Il problema centrale è costituito dalla legittimità di applicare i principi dell'indoeuropeistica alla classificazione di gruppi linguistici diversi, spesso totalmente privi di spessore documentario. Se la linguistica semitica, favorita da precedenti esperienze di grammatici arabi ed ebrei medioevali, guadagnò in pieno Settecento la nozione di una f. unitaria; se lo stesso avvenne alle soglie dell'Ottocento con il Gyarmathi e il Sajnovics per il gruppo finno-ugrico, ciò corrispose evidentemente al successo di una medesima metodologia: questa si trovava a essere impiegata nell'ambito di f. per le quali era possibile attingere fasi scritte antiche e dunque utili alla ricostruzione delle protofasi più remote. Nel caso, tuttavia, di lingue come quelle amerindie, quelle africane (nella stragrande maggioranza), quelle dell'Oceania, il metodo comparativo-ricostruttivo parrebbe scarsamente funzionale, in quanto la divaricazione tra le varietà coinvolte potrebbe oscurare in modo decisivo le affinità genetiche. Linguisti di questo secolo come F. Boas, M. Guthrie, W. Lehmann hanno effettivamente sostenuto la necessità di far affidamento su criteri tipologici, solo parzialmente commisti a criteri storici, al momento di classificare famiglie appunto come quelle africane e amerindie. Giova però ricordare che il metodo comparativo ha fatto buona prova di sé nella classificazione, per es., della famiglia bantu con C. Meinhof agli inizi del secolo, così come della famiglia algonchina con gli studi di L. Bloomfield. L'esistenza di particolari tipi linguistici, come le lingue pidgin e creole che presuppongono ''catastrofi genetiche'' e si sottraggono pertanto alla classificazione comparativa basata sul principio dell'uniformità nel tempo, ha condotto alcuni studiosi ad affermare la fallacia in toto del metodo tradizionale per partenogenesi. C'è tuttavia da osservare che la specificità dei casi di reale mistilinguismo (lingue di contatto ad alto tasso di creolizzazione) è quantitativamente limitata − e non consente l'estensione di procedure illegittime sul piano classificatorio − a lingue che si muovono lungo l'asse della diacronia (vedi le considerazioni di Thomason-Kaufman 1988).
Nel filone tradizionale si colloca la rinnovata attenzione nei confronti della comparazione lessicale nei lavori di J. Greenberg, il quale si è occupato a partire dagli anni Cinquanta della classificazione delle lingue africane, amerindie e dell'Oceania. Il Greenberg e gli studiosi formatisi alla sua scuola applicano i postulati della grammatica comparativa esclusivamente al settore lessicale. In sostanza − è la critica mossa a questo metodo da J. Fodor − ci troviamo di fronte a una generalizzazione di quello che è il ''primo grado'' della comparazione, ossia il raffronto su larga scala fra lessemi ''somiglianti'' appartenenti al maggior numero di lingue possibili (method of resemblances). Alla base di tale metodo, pertanto, non esiste l'ipotesi del comune archetipo che dia conto in modo rigoroso delle corrispondenze materiali fra i vari sistemi coinvolti, quanto piuttosto la collocazione tassonomica − di per sé difficilmente falsificabile (vedi Morpurgo Davies 1988) − delle varietà linguistiche. Per esplicita ammissione del Greenberg, le sue ricerche, che hanno dato notevoli risultati specie nel settore africanistico (non privi di vivaci contestazioni), applicano i principi elaborati da Swadesh (1952) in merito alla cosiddetta glottocronologia. Questa si occupa dell'evoluzione nel corso del tempo di una particolare quota di vocabolario, definito ''di base'' (nomi delle parti del corpo, numerali, elementi pronominali, ecc.). Mediante lo studio quantitativo del ritmo secondo cui i lessemi sono progressivamente sostituiti o cancellati in diacronia, la glottocronologia mira a stabilire l'antichità delle diversificazioni all'interno di un gruppo di lingue e conseguentemente a fissare i rapporti che sono potuti esistere tra membri di una f. l. (interessante l'applicazione di Renfrew 1989 alla diffusione interna del gruppo indoeuropeo).
Molto di recente i metodi di Greenberg, fondati sulla somiglianza lessicale e il calcolo percentuale, vengono adoperati da autori, soprattutto statunitensi e sovietici, che si raccolgono attorno alla rivista Mother Tongue pubblicata dalla Association for the Study of Language in Prehistory. Questo indirizzo di studi si propone di esplorare presunte connessioni antichissime fra diverse f. indipendenti. Si tratta, dunque, della vecchia questione delle ''superfamiglie'' linguistiche come il ''nostratico'' che includerebbe lingue indoeuropee, semitiche, altaiche, uraliche, yukaghir, ecc. È chiaro che, una volta scartate le spiegazioni basate sull'affinità elementare nonché sul prestito o sull'eventuale ''lega linguistica'', i dati ottenibili mostrano un valore probante assai relativo, visto che il concetto stesso di ''somiglianza'' assume connotazioni pericolosamente intuitivo-soggettive (si confrontino le giuste osservazioni nel lavoro di Silvestri 1981). Gli studi sui più antichi legami tra macrofamiglie si sono arricchiti negli ultimissimi anni anche dei contributi della scienza genetica, specialmente delle ricerche etnobiologiche volte a determinare le origini ancestrali di gruppi razziali sulla base della distribuzione di caratteristiche sierologiche come le immunoglobuline, i fattori Rh, Duffy contenuti nel sangue, nonché il DNA mitocondriale. Certo il nesso tra fatti di ordine biologico e fatti di ordine socio-storico è estremamente problematico, malgrado il sottile fascino che i metodi delle scienze positive hanno esercitato e continuano a esercitare sugli studiosi del linguaggio.
Se il compito di precisare i rapporti inerenti alle singole f. l. è stato debitamente assolto nelle grandi linee dai vari settori della glottologia otto-novecentesca, molto più complesso è stato il tentativo di organizzare genealogicamente tutti i sistemi conosciuti. Dai primi schemi a base razziale elaborati in maniera definitiva da Müller nel 1876 (78 gruppi ordinati per tipi di razza, per es. quello con ''capelli ricciuti'' che comprenderebbe le razze dell'Asia sudoccidentale, dravida, nubiana, mediterranea con il caucasico, l'indoeuropeo, il camitosemitico), si passò all'opera Die Sprachstämme der Erdkreis (1909) di F. N. Finck, che − osserva C. Tagliavini (1969) − "subordina gli aggruppamenti linguistici alle grandi divisioni antropologiche" (quattro rami: mongolico, americano, etiopico e caucasico, quest'ultimo comprendente indoeuropeo, camito-semitico, caucasico e dravidico); si giunse quindi ai lavori di A. Trombetti, il quale distinse nell'ultimo periodo della sua attività (1912-26) nove grandi gruppi e fondò le classificazioni moderne a base glossocentrica. Nell'opera Les langues du monde curata da Meillet e Cohen nel 1924 si individuano 21 gruppi, alcuni, come il giapponese, il coreano, il basco, limitati a un solo campione linguistico. Un tentativo di ulteriore riduzione, specie per quanto attiene ai gruppi meglio conosciuti, fu operato da W. Schmidt nel 1926: questi, per es., riunisce uralo-altaico ed eschimoaleutino, compreso il giapponese e il coreano, e parla di un gruppo ''giapetico'' (con caucasico, etrusco, elamita, basco, ecc.).
Stante l'ambiguità del termine f. l., opere moderne di riferimento quali Voegelin-Voegelin (1977), Sala-Vintilă Rădulescu (1984), Comrie (1987), Ruhlen (1987) fanno uso di una terminologia nuova per indicare le ramificazioni linguistiche. Il sistema (che sostituisce quello tradizionale in f., rami, gruppi e sottogruppi) ha trovato una sua prima elaborazione nelle classificazioni di stampo greenbergheriano. Si va da taxa di massima estensione quali i macrophyla (che comprendono lingue che spartiscono l'1% di vocabolario fondamentale), attraverso i phyla (tra l'1 e il 12%), fino agli stock (tra il 12 e il 36%), le famiglie e le singole lingue.
Secondo la trattazione di Ruhlen esistono attualmente nel mondo approssimativamente 5000 lingue, raggruppabili in 17 phyla indipendenti, cui si aggiungono le lingue isolate (per es. il basco), le lingue non classificate (per es. il chiquitano), i pidgin e i creoli, le lingue artificiali (per es. l'esperanto, il volapük). Diamo di seguito l'elenco dei phyla ponendo tra parentesi il numero approssimativo dei parlanti nell'ordine dei milioni: khoisan (0,120), niger-kordofoniano (180), nilosahariano (11), afroasiatico (175, comprende tra gli altri il semitico, l'egiziano, il berbero), caucasico (5), indoeuropeo (2000), uralico-yukaghiro (22, comprende soprattutto le lingue finno-ugriche), altaico (80, comprende turco, mongolo, tunguso, coreano, ainu, giapponese), ciuckci-kamciatkano (0,023), eskimo-aleutino (0,085), elamodravidico (145), sino-tibetano (1000), australiano (0,030), na-dene (parlato in Alaska, Canada, California, Oregon, Arizona e Nuovo Messico, 0,202), amerindio (18, comprende tutte le maggiori lingue indigene dell'America Settentrionale, Centrale e Meridionale, molto diversificate fra loro quanto a stock), indo-pacifico (2,736), austrico (293, comprende stock diversi come il miao-yao, l'austrasiatico con munda, monkhmer, daico con thai e laoziano, l'austronesiano con il malgascio, il giavanese, il tagalog).
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