FACCIO, Rina (Marta Felicina), pseud. Sibilla Aleramo
Nacque il 14 ag. 1876 ad Alessandria, primogenita di Ambrogio e Ernesta Cottino, seguita da due sorelle (Cora, Jolanda) e un fratello (Aldo). Dopo un anno dalla nascita della F. il padre, ingegnere, trasferì la famiglia a Vercelli, dove insegnò chimica, quindi a Milano (1881), per tentare un'attività commerciale che non ebbe però felici risultati. Qui la F. frequentò le scuole elementari, interrompendo gli studi quando si realizzò (1888) un nuovo trasferimento a Porto Civitanova Marche, sede di uno stabilimento industriale (di proprietà del marchese Sesto Ciccolini di Macerata), del quale era stata offerta al padre la direzione. Fu lui a spingere la figlia, vivace ed esuberante, ad accettare un impiego come contabile presso la stessa fabbrica, lavoro che la F. ricoprì con entusiasmo, soprattutto per amore del padre al quale era legata da profondo affetto e sconfinata ammirazione.
I tratti salienti della "educazione sentimentale" della F. sono delineati nel suo libro più celebre, Una donna, a cominciare dalla fisionomia intellettuale e morale dei genitori: il padre "scienziato ed ateo" che "aveva ereditato da mio nonno, mazziniano, alcuni concetti morali, sincerità, lealtà, onestà, libertà, quelli che oggi si chiamano ideologie ottocentesche. E ad essi uniformava rigidamente la propria esistenza" (Un amore insolito; p. 43); la madre, temperamento debole, ipersensibile e malinconico, con la quale la figlia non riuscì mai, rammaricandosene, a consolidare un vero legame affettivo (Una donna, p. 22), anche quando si manifestarono i primi segni di crisi che la condussero a un tentativo di suicidio (1889) e quindi alla caduta progressiva nella malattia mentale, con ricovero nel manicomio di Macerata, da cui non uscì più fino alla morte (1917).
Quando la F. aveva quindici anni, contemporaneamente all'accentuarsi della crisi dei rapporti tra i genitori, si verificò il fatto che impresse il segno indelebile alla sua esistenza, ossia la seduzione ad opera di un impiegato della fabbrica, Ulderico Pierangeli, e conseguente matrimonio riparatore (1893).
La ricostruzione autobiografica di Una donna indugia, nella parte centrale, su questa vicenda, sull'interruzione violenta e definitiva della sua adolescenza, sull'andamento oppressivo e frustrante del rapporto coniugale, sulla meschinità e lo squallore della vita impostale dal marito, condotta peraltro nell'ambiente sociale e culturale della cittadina, percepito dalla protagonista come una cappa soffocante e opprimente di provincialismo e di grettezza; fino, poi, all'illusione di liberazione maturata in seguito alla nascita del figlio (1895) e alla gioia della maternità, anch'essa ben presto rivelatasi non sufficiente a compensare la repulsione per l'esistenza trascinata. Dopo un tentativo di suicidio, si cominciarono a concretizzare le vaghe aspirazioni umanitarie e socialistiche che si erano già delineate negli anni precedenti; ma fu soprattutto nella lettura e nei primi abbozzi di scrittura che si riversarono le energie compresse della Faccio. Cominciò dunque a scrivere racconti (inediti) e articoli pubblicati sulla Gazzetta letteraria e L'Indipendente di Trieste, a collaborare a Vita moderna, giornale femminista, e Vita internazionale, quindicinale politico-culturale sul quale comparivano molte firme rappresentative del positivismo italiano di quegli anni (E. Morselli, C. Lombroso, G. Ferrero, M. Nordau, G. Sergi) e quelle di scrittori come E. De Marchi, A. Negri, Neera (Anna Radius Zuccari), ecc. Sono gli anni dell'impegno femminista militante della F. che coprono il periodo 1898-1910, dal quale prenderà, poi, decisamente le distanze.
In una prosa datata in calce 1911 (Apologia dello spirito femminile, compresa nel volume Andando e stando) ella scriveva: "Il femminismo, movimento sociale, è stato una breve avventura, eroica all'inizio, grottesca sul finire, un'avventura da adolescenti, inevitabile ed ormai superata" (p. 64). L'istanza femministica si era spostata ora per la F. sul versante letterario e spirituale, nella rivendicazione della "diversità" femminile e della necessità della "libera estrinsecazione dell'energia femminile" (ibid.). "Se siamo persuasi d'una profonda differenziazione spirituale fra l'uomo e la donna dobbiamo persuaderci che essa implica una profonda diversità espressiva... Il mondo femmineo dell'intuizione, questo più rapido contatto dello spirito umano con l'universale, se la donna perverrà a renderlo, sarà, certo, con movenze nuove, con scatti, con brividi, con pause, con trapassi, con vortici sconosciuti alla poesia maschile" (pp. 65 s.; un brano ripetuto con minime varianti in una conferenza tenuta in Grecia nel 1937 con il titolo Spiritualità femminile). Negli anni del suo apprendistato, tuttavia, la F. era stata attiva nel movimento per l'emancipazione della donna, collaborando a riviste e giornali, tentando la costituzione di sezioni del movimento nelle Marche e partecipando alle campagne più significative, su questo terreno, come quelle per il voto alle donne e per la pace, contro l'alcoolismo, la prostituzione, la tratta delle bianche (articoli raccolti, postumi, in La donna e il femminismo 1897-1910, Roma 1978).Nel 1899 si era trasferita a Milano con il marito, licenziato dal suo impiego e impegnato nell'avvio di un'attività commerciale che non dette i risultati sperati; la F. aveva accolto l'offerta di dirigere L'Italia femminile, un settimanale, fondato dalla socialista Emilia Mariani, a cui già aveva collaborato. Nei pochi mesi della sua direzione (novembre 1899-gennaio 1900), impresse alla rivista un carattere più marcatamente politico e d'attualità, firmando una rubrica In salotto in cui, in forma di colloquio con le lettrici, interveniva sulle questioni più dibattute.
In questo periodo iniziarono a collaborare alla rivista, per sua iniziativa, A. Ferrero, Maria Montessori, P. Schiff, P. Mantegazza, G. Cena, F. Damiani, Matilde Serao, Ada Negri. Entrò anche in contatto con gli esponenti del socialismo milanese (F. Turati, C. Treves, Anna Kuliscioff) e con molte militanti di spicco del movimento femminista tra le quali emerge, per l'influenza che esercitò su di lei, Alessandrina Ravizza, ricordata in seguito in Una donna e in un profilo pubblicato nel volume Andando e stando.
Il soggiorno milanese si interruppe in seguito al rientro a Porto Civitanova, dove al marito era stato offerta la direzione della fabbrica già tenuta dal padre della F., costretto alle dimissioni per l'incapacità di governare le rivendicazioni operaie; contemporaneamente il dissenso con l'editore dell'Italia femminile, Lamberto Mondaini, l'aveva spinta ad abbandonare la direzione della rivista, senza peraltro farle trascurare l'attività giornalistica che, anzi, in questo periodo si intensificò ulteriormente. Avvertito ormai irrimediabilmente soffocante il clima della cittadina e della vita coniugale, la F., che si era intanto legata al poeta F. Damiani, maturò la decisione di abbandonare la famiglia per trasferirsi a Roma (febbraio 1902), dove stabilì un nuovo rapporto con G. Cena, direttore della Nuova Antologia e attivo animatore di iniziative democratiche e umanitarie.
Nel periodo della convivenza con il Cena la F., che pubblicò tra l'altro recensioni sulla Nuova Antologia con lo pseudonimo Nemi, entrò in contatto con l'ambiente intellettuale ed artistico della capitale (A. Panzini, Grazia Deledda, L. Pirandello. G. Salvemini, M. Gor'kij, G. Balla, U. Ojetti, S. Benelli, A. Conti, ecc.). Su consiglio del medesimo Cena, cominciò (1902) a rielaborare ed esporre in forma autobiografica la sua storia dalla prima infanzia fino alla scelta dell'abbandono del marito e del figlio, scelta sofferta e tormentata ma sostenuta dalla consapevolezza della inutilità individuale e sociale di una dimensione di vita basata sulla rinuncia e sul sacrificio di sé. Una donna uscì nel 1906 (Roma-Torino; ristampato più volte fino alla 17a ed. del 1986, Milano) e ottenne subito grande successo in mezzo a molte polemiche che attraversarono anche il movimento femminista.
Tra le recensioni più interessanti si possono ricordare quelle di Ojetti, Pirandello, A. Graf, Lombroso, M. Bontempelli che, pure nella diversità di posizioni e di valutazioni, espressero generale apprezzamento per l'opera e per la sua autrice. Valga per tutti questo giudizio del Bontempelli (su Il Grido del popolo, 29 dic. 1907): "Qualunque convinzione taluno possa essersi fatto sulla indifferenza, necessaria all'arte, cade di fronte alla sincerità grande dell'autrice, sincerità che subito si rivela, e diviene tosto un elemento di vitalità estetica e la traduce in espressione viva". L'insistenza sulla sincerità e la vitalità è rimasto uno dei fili conduttori nella valutazione dell'opera, di cui fu colta fin dall'inizio, e a ragione, la capacità, del tutto inedita per la cultura italiana (ma anche nella cornice europea), di far scattare dalla narrazione autobiografica di una specifica storia individuale la molla di considerazioni e riflessioni, ad essa strettamente connesse, su aspetti dolorosamente tipici della condizione femminile.
Se si pensa che, negli anni dell'apparizione del libro, la vita e la cultura letteraria italiana erano già dominate dalla figura di D'Annunzio e da quel suo modo di intendere e fare letteratura che Croce aveva collocato sotto l'insegna della "insincerità", si può ben capire la distanza ancora grandissima che separava la F. dai gusti e dalle mode della società letteraria, quegli stessi gusti che scoprirà qualche anno più tardi, insieme con la frequentazione assidua della stessa élite mondano-letteraria che più ne apprezzò, in Italia e a Parigi, la nuova espressività.
In Una donna siamo ancora in una cultura intrisa di positivismo e di ideologie socialiste, umanitarie, femministe; qui ancora opera il modello che tanto aveva colpito la protagonista di Una donna, quello di Nora della ibseniana Casa di bambola, a cui si sovrapporranno poi molti altri richiami e suggestioni, a cominciare proprio da quella dannunziana. L'originalità del romanzo sta nell'aver saputo l'autrice rendere con efficacia, in modo asciutto ed essenziale, il percorso sentimentale ed intellettuale, difficile e tormentato, compiuto dalla protagonista per liberarsi da un giogo di umiliazione e di sopraffazione. Ma l'attenzione è, già qui, tutta rivolta al processo di riflessione e di autoriflessione, ai dolorosi passaggi attraverso i quali si va realizzando la scelta liberatoria. È assente qualunque istanza ideologica profondamente introiettata, e anche quando appaiono i segni esteriori del movimento socialista, delle battaglie femministe e progressiste, il lettore è portato pur sempre ad incontrarsi con i sensi più intimi e riposti di un'individualità sofferente, concentrata su se stessa e sui propri moti di reazione e di azione. L'io narrante di Una donna sostanzia la memoria dei fatti, dei sentimenti e delle sensazioni con la coscienza, prima, di se stessa e della propria dignità ("Nulla più mi veniva nascosto da veli fallaci. Umiliandomi, io non potevo neppure avere il conforto di scusare chi mi opprimeva. Nulla stava sopra di me, condannata a camminare curva", p. 101); poi, di dover operare la scelta giusta e necessaria per affermarsi compiutamente e autonomamente. Una delle ultime frasi del romanzo è: "In cielo e in terra, un perenne passaggio. E tutto si sovrappone, si confonde, e una cosa sola, su tutto splende: la pace mia interiore, la mia sensazione costante d'essere nell'ordine, di potere in qualunque istante chiudere senza rimorso gli occhi per l'ultima volta. In pace con me stessa" (p. 202). Traspaiono anche qui, nella prima prova letteraria della F., i modi e le attitudini liricheggianti e a volte enfatici che nelle opere successive diventeranno spesso soverchianti. Ma il tono è in generale distaccato e oggettivo, quasi freddo, così come le figure che compaiono a popolare la storia, figure rilevate nei loro specifici tratti individuali, mai deformati dalla soggettività sentimentale della narratrice, né conformati a stereotipi letterari. Tanto questa tonalità realistica, documentaria per molti versi, risulta isolata nella produzione della F. che, molti anni più tardi, rievocando nel Passaggio, suo secondo romanzo, tutto intriso di lirismo, l'esperienza dell'esordio letterario, così lo avverte: "povero umile attestato di resistenza umana; cosa rigida, senza benedizione, senza sorridente divinità" (p. 88).
Certo è che sullo stile e sulla struttura dell'opera esercitò una certa influenza il Cena, che aveva pubblicato da poco un romanzo Gli ammonitori (Roma 1904) che presenta qualche affinità tematica con Una donna e che, ci informa la stessa F., intervenne a correggere il manoscritto: "Asportò egli dal mio libro le pagine dove io diceva il mio amore per Felice. Ed io lasciai amputare così quello che voleva, che gridava essere opera di verità. Come un altro qualunque dei tagli operati sul manoscritto, come su un qualunque lavoro letterario. Uncinò i margini con parole sue" (Il passaggio, p. 90). Del resto era stato lo stesso Cena a imporle il nome Sibilla (le dedicò con questo nome un sonetto, pubblicato in Homo, Roma 1907) che con il cognome Aleramo (tratto da una poesia del Carducci, Piemonte, in cui è evocata la contesa tra le famiglie Savoia e Aleramo attorno all'anno 1000) si trasformò da pseudonimo, com'era inizialmente (adottato tra l'altro per sfuggire alle pretese anche legali del marito), in un vero e proprio nome.
Tuttavia, al di là di influenze tutto sommato esteriori, Una donna rappresenta un concentrato di tutti i modi, positivi e negativi, che la F. modulerà in forme diverse nel corso della sua carriera letteraria; a cominciare naturalmente dall'autobiografismo, intriso di una carica di autocontemplazione vivamente operante, che rimarrà cifra costante di ogni suo testo, poetico, narrativo e saggistico, e che qui trova il suo momento espressivo più felice. Ma ancora temi e motivi cari alla F. sono già qui presenti: la profonda vitalità a cui è informata ogni scelta di vita, la tensione costante verso il sapere, verso la letteratura e i suoi cultori, la assoluta predilezione per la giovinezza. Accanto ai temi alcuni tratti espressivi che qui, si è detto, sono uniformati a una tonalità di narrazione dolorosa, tesa ma per lo più pacata, sfociando tuttavia a tratti in una sorta di autoesaltazione, di concitazione verbale e declamatoria che smorza, anziché accentuare, i passaggi drammatici del racconto. Il grande successo di Una donna, dovuto naturalmente anche all'alone scandaloso da cui era (e rimase) circondata la autrice-protagonista, è testimoniato efficacemente, oltre che dalla numerosissime recensioni che ottenne in Italia, da un'altrettanto fervida accoglienza riservata al libro quando, negli anni immediatamente successivi, fu pubblicato all'estero (1907 in Spagna, 1908 in Francia, negli Stati Uniti, in Svezia, in Germania, in Inghilterra; quindi Russia, Olanda, Polonia, ecc.).
Anche sull'onda di questo successo la F. intensificò il suo impegno nel movimento femminista e nelle iniziative umanitarie, dalla creazione delle scuole nell'Agro romano, insieme al Cena e ai coniugi Celli, alla partecipazione al Comitato per promuovere l'istruzione nel Mezzogiorno, sorto in seguito ai disastri provocati dal terremoto del 1908 in Calabria e in Sicilia. Fu presente al I congresso femminile nazionale indetto dal Consiglio nazionale delle donne italiane. Proseguì l'attività giornalistica pubblicando sulla Tribuna diversi articoli concernenti il movimento femminista, collaborando al Resto del carlino (dal 1912), al Marzocco (dallo stesso anno) e alla Grande Illustrazione (dal 1913) che, di fatto, diresse tra il gennaio 1914 e l'aprile '15. Sempre curiosa e attenta alle figure e alle manifestazioni intellettuali e culturali di rilievo, quando era a Firenze entrò in contatto con l'ambiente della Voce (1910), conobbe E. Cecchi, con il quale manterrà una lunga amicizia nonostante le riserve anche pubbliche che il critico aveva espresso su alcune sue opere; a Milano, conosciuto nel 1913 F. T. Marinetti, dichiarò la propria simpatia per il futurismo: sempre nel '13, a Parigi, incontrò per la prima volta il D'Annunzio e rimase affascinata (come raccontò anni dopo in Andando e stando) dalla sua persona come già lo era dalla sua opera: continuò a scrivergli spesso, inviandogli anche tutte le sue opere con dedica.
Alla relazione con il Cena seguirono legami più o meno lunghi nel tempo, molti dei quali intrecciati con intellettuali e artisti attivi nella cultura italiana di quegli anni. Tra gli altri: G. Papini, U. Boccioni. G. Boine, V. Cardarelli, M. Cascella, C . Rebora, R. Franchi; particolarmente intensa e drammatica la relazione con Dino Campana, iniziata nel '16 e conclusa nel gennaio '18 quando il poeta verrà ricoverato al manicomio di Castel Pulci, dove rimase fino alla morte (1932). Altri amori occuperanno la F. negli anni successivi (C. Sforza, G. Parise, E. Emanuelli, S. Quasimodo, ecc.) fino al rapporto più duraturo, ma molto tormentato anch'esso, con il giovanissimo Franco Matacotta, a cui rimarrà legata dal '36 al '46.
Molte di queste figure furono ridisegnate dalla F. nelle sue opere, nelle poesie come nei romanzi, ma sempre come proiezioni del duplice impulso che la governava: la convinzione, non solo teorizzata ma attivamente praticata, della unione inscindibile tra vita e letteratura e, insieme, la ribadita centralità di se stessa, del proprio vissuto autobiografico come nucleo significante delle diverse sue esperienze umane e letterarie. La figura intellettuale della F. è stata sempre inestricabilmente connessa con la sua immagine privata, da lei medesima pubblicizzata, coprendo un ruolo, in questa doppia veste, del tutto singolare e inedito nella società della mondanità letteraria italiana, in particolare nel periodo tra le due guerre. In tutti questi anni (fino al '26 quando si stabilì definitivamente a Roma) visse spostandosi continuamente tra l'Italia (tornò in più occasioni a Milano, ma soggiornò anche a Roma, Firenze, Napoli, ecc.) e Parigi, dove si recò la prima volta, tra il novembre 1913 e l'aprile 1914, ospite della scrittrice Aurel (Aurore Mortier) tramite la quale conobbe molti degli intellettuali più in vista della comunità parigina (tra gli altri G. Apollinaire, Ch-P. Péguy, Colette, R. Rolland, B. Crémieux, A. Rodin, A. France), stabilendo spesso intensi rapporti epistolari, così come avveniva con diversi letterati italiani (A. Panzini, G. Prezzolini, M. Moretti, P. M. Rosso di San Secondo, S. Slataper, ecc. oltre a quelli citati sopra).
Nel 1929 venne pubblicato il secondo romanzo della F., Ilpassaggio (Milano; ed. più recente, ibid. 1985), che aveva iniziato a scrivere nel 1912, durante un soggiorno in Corsica, da cui ebbe inizio la sua "terza vita" (Gioie d'occasione, p. 13), insieme con le prime poesie, pubblicate in parte su La Grande Illustrazione tra il 1914 e il '15.
È un romanzo anche questo di impianto autobiografico che ritorna su alcune vicende già raccontate in Una donna (l'abbandono della famiglia, il rapporto con Damiani e Cena, ecc.) e prosegue poi nella narrazione delle successive esperienze amorose (con Lina Poletti, Cardarelli, Papini, Boccioni, Boine, Campana), ma la distanza dal primo romanzo è molto grande ed è dovuta all'andamento propriamente lirico del procedimento ("autobiografia lirica" l'ha definita R. Guerricchio, p. 193) che allude a fatti e persone, ma solo come pretesto per esprimere le più profonde sensazioni e percezioni della narratrice ("pagine immolatrici, pagine di lucido delirio" scrisse la F. nel 1947 in Amo dunque sono, p. 120).
L'ottica è decisamente schiacciata sull'io liricizzante che percorre attraverso cose ed eventi un cammino fatto di moti dell'animo e riflessi dello spirito ("Nelle acque ferme laggiù tra i giunchi, le stelle riposano. / Perché debbo crederti, o mio fedele? / Tu che delle inutili domande tanto ripetute fra i singhiozzi facevi entro il mio petto improvvisi guizzi di melodia... / È l'ora mistica, o mio fedele, ferma come le acque là tra i giunchi dove le stelle riposano", pp. 2 s.). Gli incontri, i rapporti con la natura e con gli uomini sono al centro del dipanarsi della narrazione che procede attraverso illuminazioni e meditazioni che rimandano sempre al suo senso della vita: "Ho contemplato l'agitato mistero del mio spirito, e il lucido aspetto dell'universo. Uomini e donne sono sul mio cammino perch'io li ami. Li amo, li sento vivere, la loro vita si aggiunge alla mia. Che cosa io sarei senza questi incontri, senza le strade che ho percorso?" (p. 15). La scelta della "prosa lirica" corrisponde esattamente alle istanze espressive della F., che affida al linguaggio elaborato e, a volte, concitato la vicenda del passaggio appunto da una vita ad un'altra; segnata questa dalla scoperta dell'amore come "ragione della mia esistenza e quella del mondo" (p. 39), un amore cantato nella dimensione spirituale come in quella fisica (come nelle poesie di Momenti): "Squillanti incontri di bei volti maschi, ferma bellezza di fisionomie imprevedute, sussulto segreto all'istantaneo avvertimento del desiderio virile, sussulto così simile al brivido mortale della voluttà, istinto di fuga, ansito d'esser rincorsa, stupita violenza di magia, uomo e donna, piante di foresta a un sol vento sorprese e squassate" (p. 176).
Quasi unanimemente negativo fu il giudizio della critica su questa opera della F., che ne rimase profondamente colpita e ancora a distanza di molti anni lamentava tanta ostilità, confermando di considerare Il passaggio il suo lavoro migliore. Indubbiamente qui si esprime la distanza realizzata dall'autrice di Una donna, la femminista militante, la progressista battagliera, la narratrice essenziale e oggettiva, rispetto a questa nuova scrittrice che riflette perfettamente il percorso realizzato nella variazione di segno della sua immaginazione intellettuale e letteraria. È evidente l'influenza dannunziana nell'artificiosità del linguaggio, nella ricercatezza del lessico e della struttura verbale, un'influenza molto più decisa di quell'ascendenza vociana che qualcuno ha voluto riconoscere; ma ciò che conta di più è che in questo libro si delinea compiutamente la nuova fisionomia della F., i cui tratti permarranno pressoché immutati nei decenni successivi. "Certo, io non sono quella che si chiamerebbe 'narratrice nata'. Sono irrimediabilmente lirica. Soltanto in Una donna, quando il gorgo lirico ancora in me non s'era sciolto, potei raccontare, e anche lì quel che c'è di meglio non è l'esposizione della vicenda, ma il riflesso di essa sull'anima dell'autrice" (dal Diario di una donna, p. 273).
Su questo registro lirico si dispone dunque generalmente, quando non faccia prevalere l'istanza retorica, artificiosa, soverchiante ogni altro modo di espressione. È il caso quest'ultimo di Trasfigurazione, pubblicata a Firenze in volume nel 1922 (poi Roma 1987; usciva lo stesso anno in francese, in appendice alla traduzione del Passaggio), ma già comparsa su La Grande Illustrazione nell'ottobre 1914.
Si tratta di una "lettera non spedita", indirizzata alla moglie di Papini per convincerla della necessità di non ostacolare la relazione iniziata tra il marito e la stessa Faccio. A uno di quei casi in cui "scarsamente sviluppata è la componente lirica e prevale quella pesantemente retorica, persuasiva che ingenera spesso fastidio e qualche perplessità sulla sincerità di alcune dichiarazioni" (Pozzato, p. 80).
Di genere diverso le prose raccolte in Andando e stando (Firenze 1920, pubbl. insieme alla ristampa di Una donna e de Il passaggio). Il volume raccoglie diversi pezzi già comparsi sui giornali tra il 1911 e il '20; mantenendo lo stesso titolo ne uscì una ristampa nel 1942 (Milano), che aggiungeva parecchi altri scritti già apparsi sulla stampa in quegli anni: sono ritratti (A. Ravizza, S. Slataper, G. Pezzana, D'Annunzio, ecc.), recensioni, interventi ideologici (come Apologia dello spirito femminile, cit.), note di viaggio.
E. Cecchi, che aveva stroncato Il passaggio ("un po' di Ibsen e un po' di Nietzsche capiti male", in La Tribuna, 27 genn. 1921, p. 3), giudicò quella di questi brani "la vostra prosa più bella" (lett. del 31 dic. 1920 in Sibilla Aleramo e il suo tempo, a cura di B. Conti-A. Morino, Milano 1981, p. 168), auspicando che continuasse su questa strada, a suo parere la più congeniale, come ebbe a ripetere anche in seguito.
Nello stesso anno e presso lo stesso editore (Bemporad) usciva il primo volume di poesie, Momenti, aperto dalla lirica Ritmo già compresa nel Passaggio, indizio scoperto di un rapporto molto stretto tra i due testi; a conferma di quel "lirismo della prosa, prosaicità della lirica" (M. Federzoni, p. 89) che pare "la chiave stilistica della maggior parte dell'opera della F. e il fondamento linguistico del suo 'tono medio'" (ibid.) che poggia, qui, innanzitutto sulla scelta della "libera versificazione" (Gioie d'occasione, p. 324). Una scelta praticata senza alcuna intenzione di innovazione letteraria, ma piuttosto come forma squisitamente soggettiva di dar conto di se stessa e della propria interiorità, qualche volta con una certa felicità di risultato, più spesso ferma a una elaborazione troppo scarsa dei materiali tematici e linguistici, sempre comunque sotto il segno chiaramente avvertibile dell'impronta dannunziana, del "D'Annunzio più facile e orecchiabile, fuori da magnificenze verbali come da magie compositive" (Guericchio, p. 217). La medesima ascendenza si avverte nel poema drammatico in tre atti Endimione (rappr. il 9 marzo 1923 a Parigi, il 6 giugno 1924 al teatro Carignano di Torino e pubbl. in volume Roma 1923), nel quale la F. traveste con figure ed evocazioni mitiche la relazione intrecciata con il giovane Tullio Bozza, tra il 1920 e il '22, a Napoli, e troncata tragicamente dalla morte di lui. Il debito nei confronti del D'Annunzio è dichiarato dalla stessa autrice nella dedica dell'opera al poeta.
Nonostante il successo riscosso a Parigi, Endimione fu stroncato in Italia dal pubblico e da buona parte della critica, che avvertì la patina di artificioso estetismo stesa su una composizione presenziosa e priva di senso drammatico, orientata piuttosto verso la celebrazione liricheggiante e misterica dell'amore come manifestazione preziosa degli esseri eccezionali che governano la vicenda. Altre liriche furono raccolte nel volume Poesie (1912-28), edito a Milano nel 1929, che comprende tutte quelle di Momenti (meno una) ed altre successive, ancora sulla linea dell'autobiografia lirica già praticata, in poesia come in prosa, ma con una maggiore tenuta del registro stilistico che andava affinandosi, rafforzando quel tipico sentimento della vita che sosteneva il suo fare letterario "Poemi che non scrissi ma vissi. / Fremiti che lasciai innotati, / ed oggi, son dieci son vent'anni, / è immisurata teoria di tempo, / tornano ad illuminar rapidi di sé / una pagina una riga un accento / dell'unico mio volume!"). Seguì Sì alla terra. Nuove poesie 1928-34 (Milano 1935), ritenuto in genere dalla critica la sua prova più matura sul terreno poetico, in cui tornano temi e motivi già tratteggiati, qui composti in una cornice intellettuale e letteraria più meditata e assorta, senza che mutino sostanzialmente le corde della sua espressività. Selva d'amore (Milano 1947, nella collana "I poeti dello Specchio", rist. Roma 1980) propone di nuovo le liriche di Momenti (meno due) e di Sì alla terra (meno otto) con l'aggiunta di inediti e di una sezione nuova di poesie dedicate a Matacotta, scritte tra il 1936 e il '42.
Il titolo è pensato per alludere al "senso classico di raccolta ma anche di bosco e di labirinto" e "riassume tre decenni di quel mio andar per il mondo, in ciò che ebbe di più intenso e insieme di più lieve, in ciò che divenne aereo, o per lo meno aspirò col mezzo del verso a divenirlo, a riscatto d'ogni terrestre gravame" (Gioie d'occasione e altre ancora, p. 326). Fu l'occasione anche per la critica di fare il punto su una poetessa che, come scrisse il Cecchi, era rimasta sostanzialmente estranea ai "cambiamenti e rinnovamenti stilistici e tecnici, intervenuti con tanta abbondanza durante il secolo" (Di giorno in giorno, p. 65).
Un qualche spostamento tematico e stilistico impronta invece le composizioni poetiche di Aiutatemi a dire. Nuove poesie 1948-51 (Roma 1951), orientate dall'adesione nel dopoguerra al Partito comunista italiano e ispirate alla sensibilità sociale e politica sollecitata da questo nuovo impegno, che viene reso con la consueta entusiasta carica vitalistica e con modi, per lo più, enfatici ed oratori. Altre poesie, su questa linea, furono pubblicate nel volume Russia alto paese (Roma 1953), che comprende anche prose, scritte le une e le altre dopo un viaggio in Unione Sovietica. Nel 1956 con il titolo Luci della mia sera. Poesie (1941-46) vennero riproposte (con la pref. di S. Solmi; Roma) le poesie dell'esperienza russa, quelle di Aiutatemi a dire e altre divise in due sezioni, 1941-50 la prima, 1952-56 l'altra.
Sul versante narrativo a Il passaggio erano seguiti nel 1927 Amo dunque sono (Milano) e nel 1932 Il frustino (Verona). Il primo racconta la storia dell'amore tra la protagonista e "Luciano" (G. Parise), attraverso le lettere, non spedite, che gli aveva scritto durante il mese in cui, per volontà di lui, erano stati separati. A giudizio di P. Pancrazi (Corriere della sera, 19 apr. 1927). "troppi e contrastanti elementi ella ha voluto riunire e fondere: un epistolario d'amore, un diario di vita, una polemica letteraria. Non c'è fuoco di crogiolo che basti a tanta fusione". Si possono aggiungere le annotazioni da taccuino su personaggi e situazioni della più nota società intellettuale che la F. ben conosceva, per avere un'idea del libro e della sua sostanziale incapacità di rendere, come l'autrice avrebbe voluto, la "sincerità" di un brano di vita raccontato senza mediazioni ("l'unica mia opera di getto", Diario di una donna, p. 353) e senza infingimenti. Di carattere ancora più marcatamente autobiografico Il frustino che la F. riteneva "una delle mie opere più significative, più rivelatrici di alcuni lati della mia biografia, sebbene io appaia lì sotto le spoglie di Caris di Rosia" (Diario di una donna, p. 262).
È la storia della sua relazione con Boine in cui compaiono le altre figure che avevano popolato quella vicenda diciotto anni prima (Rebora, Parise, Cascella), restituite come sempre sotto il segno dell'"autocelebrazione" (Pozzato, p. 80): "in nessun altro, certo, ho rivelato l'alta e tragica realtà della mia sorte di donna-poeta" (Diario di una donna, p. 431), della concentrazione su se stessa, in una costruzione narrativa che, pure concedendo molto alla propensione per la "bella pagina" alla maniera della prosa d'arte, riesce più convincente delle sue altre prove romanzesche, dopo Una donna.
Com'è testimoniato da molti passi di Amo dunque sono (e naturalmente dai Diari), era già iniziata da anni per la F. una stagione che durò poi, più o meno, per tutta la sua vita, di difficoltà finanziarie e di ricerca continua di mezzi di sostentamento. Dal 1921 cominciò a collaborare al Tempo con Note di taccuino (raccolte poi in Gioie d'occasione), dal '25 alla Fiera letteraria, al Giornale d'Italia e L'Italia che scrive; tentò a lungo di farsi accettare al Corriere della sera, sollecitando presentazioni e raccomandazioni, ma la sua adesione al manifesto degli intellettuali antifascisti del 1925 (che aveva firmato su richiesta di Giovanni Amendola e A. Tilgher) le precludeva quella e altre vie di lavoro, a maggior ragione quando ebbe a subire l'arresto e il fermo (una giornata), in seguito all'attentato contro Mussolini di T. Zaniboni che aveva frequentato assiduamente proprio in quel periodo. Spinta dalla necessità, si rivolse per iscritto allo stesso Mussolini ('28) chiedendogli un colloquio (raccontato poi in Un amore insolito, pp. 213-15), ottenuto il quale, ricevette un sussidio che le venne rinnovato periodicamente durante il ventennio. Ricevette nel 1929 anche un premio di L. 50.000 per il volume Poesie dall'Accademia d'Italia, su proposta dell'accademico Arturo Farinelli; allargò la cerchia delle collaborazioni giornalistiche a Novelle ottocentesche, Il Piccolo, Il Popolo di Roma, Pegaso.
Nel 1933 si iscrisse all'Associazione naz. fascista donne artiste e laureate; nello stesso anno ottenne il premio Latinité per il volume Gioie d'occasione, appena pubblicato in Francia e uscito in Italia tre anni prima (Milano 1930), un libro che comprendeva le Note di taccuino, già citate, ossia appunti e schizzi su personaggi conosciuti e apprezzati (Eleonora Duse, A. France, A. Onofri, M. Gorkij, V. Larbaud ecc.) e altri scritti occasionali che prendevano spunto da luoghi, persone e avvenimenti che in qualche modo avevano suscitato l'interesse della F., dalle letture dell'infanzia e della giovinezza alle esperienze letterarie, agli incontri, alle suggestioni della natura e degli uomini. Ad una linea molto simile di frammenti della memoria autobiografica rifratti su luoghi e persone sono riconducibili i brani di Orsa minore. Note di taccuino (Milano 1938), "parole appuntate rapidamente, più che altro pro-memoria, nel sottinteso, spesso, d'ulteriori sviluppi" (p. 13). Con una operazione analoga a quella di Selva d'amore, realizzò, nel 1954, una selezione e una raccolta delle prose dei volumi precedenti che sotto il titolo Gioie d'occasione e altre ancora (Milano) riproponeva la tipica scrittura occasionale della F., le annotazioni e gli spunti con cui aveva fissato un percorso di memorie di molti decenni.
Le difficoltà economiche divennero sempre più pressanti negli anni della guerra, nonostante continuasse a ricevere dal governo un sussidio mensile. Finita la guerra, si iscrisse, nel 1946, al PCI ("tutta la mia opera di quarant'anni è stata ispirata dalla fede in un più giusto e più umano avvenire della nostra specie ... Ed io, poeta e donna, desidero di fare parte di questa grande comunità, che mi conferma la mia visione antica di un mondo in cui ogni persona viva e operosa sarà in grado di sentire l'esistenza e lo stesso lavoro sotto specie di poesia", Diario di una donna, pp. 74s.).
Iniziò così una intensissima attività di conferenze, letture di poesie, congressi, articoli pubblicati soprattutto sugli organi di stampa comunisti; molti di questi ultimi usciti sull'Unità e Noi donne furono riproposti in Il mondo è adolescente (Milano 1949), dove esprimeva la sua fiducia e il suo impegno per il miglioramento delle sorti della umanità. Nel 1948 aveva vinto il premio Versilia per la poesia; continuò l'impegno politico e propagandistico affiancato costantemente dalla cura dei Diari, usciti postumi con il titolo Diario di una donna. Inediti 1945-60 (Milano 1978) e Un amore insolito. Diario 1940-44 (Milano 1979). Ella stessa aveva pubblicato a Roma nel 1945 una scelta Dal mio diario (1940-44), che è, come gli altri due, una fonte preziosa di notizie, ma soprattutto permette di cogliere di lei aspetti, toni, riflessioni e giudizi che si sovrappongono, quando non si oppongono, all'immagine di sé che ha voluto dare nelle opere più letterariamente costruite.
La F. morì a Roma il 13 genn. 1960 dopo una lunga malattia.
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