eutanasia
I diversi approcci all’eutanasia nel mondo
Il tema dell’eutanasia è legato alle complesse questioni etico-filosofiche e antropologiche del senso stesso della vita e della morte come segno dell’umana finitezza e fragilità, della disponibilità o indisponibilità della vita sia da parte di altri, sia da parte del soggetto stesso, e quindi, sul piano morale e sul piano giuridico, del divieto di uccidere e della liceità del ‘suicidio razionale’. La letteratura in proposito è immensa e si può ben dire che, sul tema, la filosofia e le religioni hanno già detto tutto quel che si poteva dire, sia a favore sia contro.
Dagli anni Settanta del 20° sec. in poi, con la nascita e lo sviluppo della bioetica, questo antico dibattito ha ripreso forza perché sono emersi nuovi aspetti del tema della fine della vita umana, legati ai mutamenti strutturali delle condizioni del morire nell’epoca della medicina tecnologica: oggi siamo in grado di salvare molte più vite che in passato, ma in alcuni casi questo si traduce nel procrastinare il momento della morte in condizioni che le persone possono considerare non rispettose della loro dignità. Non sempre è facile stabilire se stiamo aggiungendo vita ai giorni o solo giorni alla vita. Sono state introdotte nuove nozioni, come la distinzione tra la vita intesa in senso meramente biologico e la vita intesa in senso biografico, e ci si è chiesti se, a salvaguardia della dignità della persona nelle fasi finali della vita, debba contare di più la sua durata o la sua qualità. Il dibattito si è quindi spostato dal terreno etico-filosofico a quello giuridico: non si discute più soltanto delle ragioni per le quali singoli atti di eutanasia possono essere giustificati o meno sul piano morale, quanto dell’opportunità di modificare il modo in cui tali atti sono qualificati sul piano giuridico, e cioè in termini di divieto sanzionato da pene severe, ma quasi mai applicate nella pratica giudiziaria. Da un lato, ci si chiede perché continuare a qualificare come criminale un atto che, una volta portato all’attenzione del giudice, non viene considerato meritevole di punizione: non sarebbe opportuno modificare le norme giuridiche per renderle più adeguate a un diffuso mutamento (stando a numerose inchieste) della sensibilità sociale in tema di fine della vita umana? Dall’altro lato, vi è chi avanza il timore che un’eventuale attenuazione del rigore delle norme poste a protezione della vita umana potrebbe avere effetti indesiderabili in termini di erosione del rispetto dovuto alla vita, giungendo infine a giustificare la soppressione di tutti coloro che non sono utili alla società (argomento del «pendio scivoloso»). Il dibattito è tuttora in corso e, pur con differenze connesse alla peculiarità dei vari ordinamenti giuridici, si possono individuare almeno tre orientamenti.
L’approccio largamente dominante resta fermo al carattere antigiuridico dell’eutanasia, talvolta prevista come specifica ipotesi di reato (in genere con pene leggere, fino ad arrivare alla non punibilità), ma più spesso ricondotta, come nel nostro codice penale, al reato di omicidio (art. 475), di omicidio del consenziente (art. 579) e di aiuto al suicidio (art. 580). Il primo Paese a legalizzare l’eutanasia è stato il Northern Territory of Australia, con una legge del 16 giugno 1995, poi abrogata dal Parlamento federale australiano il 25 marzo 1997. Dal 1º apr. 2002 l’eutanasia attiva è legale in Olanda, in base a una legge approvata a seguito di un vasto dibattito iniziato già negli anni Settanta, e dopo circa un decennio di sperimentazione di una forma di ‘non punibilità’ di atti di eutanasia su richiesta del paziente, eseguiti in accordo a un protocollo redatto dall’Associazione medica olandese. L’esempio olandese è stato seguito dal Belgio (con una legge del 16 maggio 2002) e dal Lussemburgo (con una legge del 19 febbr. 2008). In altri Paesi se ne discute: per es. in Colombia, a seguito di una nota sentenza della Corte costituzionale del 20 maggio 1997 che ha reso di fatto legittimo ‘l’omicidio pietoso’ su richiesta del paziente.
È una modalità legalmente possibile in tutti gli Stati il cui ordinamento non preveda il reato di aiuto al suicidio (come Germania, Francia, Finlandia, Svezia, Canada). Gli esempi più noti sono la Svizzera, dove esistono centri privati nei quali i pazienti vengono aiutati a morire, e l’Oregon (USA) che, con una legge dell’8 nov. 1994, poi confermata da un referendum del 27 ott. 1997, consente ai medici di prescrivere ai pazienti che lo richiedano la dose appropriata di farmaco, purché i pazienti compiano da sé l’ultimo gesto. Sulla stessa linea, più recentemente, si è collocato lo Stato di Washington (2008).
Si identificano come forme passive di eutanasia quelle condotte che ‘lasciano accadere’ l’evento morte attraverso la non attivazione o l’interruzione dei trattamenti che tengono in vita il paziente, accompagnate dall’apprestamento di cure palliative idonee a controllare la sofferenza terminale. È l’approccio più diffuso nel mondo, in conseguenza della sempre maggiore affermazione e accettazione del principio di autodeterminazione nei confronti dei trattamenti sanitari, e per effetto di note sentenze giudiziarie (come negli Stati Uniti) o dell’interpretazione evolutiva di norme già esistenti (come in Italia, a partire dagli artt. 13 e 32 della Cost.), o di specifiche leggi organiche concernenti il consenso informato ai trattamenti sanitari e i diritti del paziente (di solito con l’estensione anche agli stati di incapacità decisionale per mezzo del cosiddetto testamento biologico). Quest’ultima strada è stata seguita dalla Danimarca con la legge sullo «statuto giuridico del paziente» (1998), dalla Spagna con una legge del 2002 «sui diritti dei pazienti», dalla Francia con una legge del 2005 relativa ai «diritti del malato e alla fine della vita».