eubulia
Il termine è traslitterazione latina del greco εὐβουλία, che in Aristotele designa una virtù dianoetica corrispondente alla " retta deliberazione " o " buon consiglio " in vista di un bene, ed è in stretta relazione con il governo della città, la politica (spiega Tommaso [Sum. theol. II II 51 1c]: " eubulia autem importat bonitatem consilii, dicitur enim ab εὐ, quod est bonum, et βουλία, quod est consilium, quasi bona consiliatio vel potius bene consiliativa, unde manifestum est, quod eubulia est virtus humana ").
Di essa parlava Aristotele in Eth. nic. VI 9, 1142a 31 - b33 " rectitudo quaedam est eubulia consilii... Videtur autem bonum quaedam bene consiliari. Talis enim rectitudo consilii eubulia, quae boni adeptiva ". L'e. quindi può definirsi come una retta deliberazione che mira al raggiungimento di un bene. Il cattivo e l'incontinente, infatti, potranno bensì ‛ deliberare rettamente ' per ottenere ciò che si sono proposti, tuttavia il risultato sarà non un bene, ma un male. O ancora, aggiungeva Aristotele, può darsi anche che un bene si raggiunga senza ‛ retta deliberazione ', come nel caso di un falso sillogismo che giunge a conclusioni corrette mediante uno scorretto procedimento; anche ciò non corrisponderà all'e., giacché equivale a conseguire il dovuto non con i mezzi dovuti: " Sed est hoc [cioè il conseguire un bene mediante la deliberazione] falso syllogismo, et quod quidem oportet facere sortiri, per quod autem non, sed falsum medium terminum esse. Quare neque ipsa aliqualiter eubulia secundum quam quod oportet adipiscitur, non quidem per quod oportuit ". Questo passo così Tommaso commentava (Expos. in Eth. nic. VI lect. VIII): " Ubi considerandum est quod contingit in syllogisticis aliquando concludi veram conclusionem per falsum syllogismum. Et ita etiam in operabilibus contingit quandoque pervenire ad bonum finem per aliquod malum... ita scilicet quod aliquis consiliando perveniat ad id quod oportet facere, sed non per quod oportet, puta cum aliquis furatur, ut subveniat pauperi ... unde consequens est quod non sit vere eubulia, secundum quam aliquis adipiscitur finem quem oportet, non autem per viam per quam oportet ".
Al citato luogo di Aristotele si riferisce esplicitamente D. in Mn II V 23 Propter quod evidentissime patet quod finem iuris intendentem oportet cum iure intendere; nec valet instantia quae de verbis Phylosophi ‛ eubuliam ' pertractantis elici solet. Dicit enim Phylosophus: " Sed et hoc falso sillogismo sortiri: quod quidem oportet sortiri; per quod autem non, sed falsum medium terminum esse ".
L'affermazione dantesca è all'interno della dimostrazione che mira a fondare la legittimità dell'Impero universale ottenuto dai Romani. I Romani attuarono veramente l'e. in quanto adeguarono i mezzi dovuti al fine dovuto, cioè intesero al fine del diritto mediante il diritto. Questo giustifica la particolare cura che D. pone nel respingere l'obiezione fondata sull'esempio del ‛ falso sillogismo ' di Aristotele, chiarendone così la reale portata: si possono ottenere conclusioni vere da premesse false (mediante un termine medio falso), non per se ma per accidens, giacché la regola " verum sequitur ex falsis " vale solo a livello delle voces, dei signa (§ 24) cioè sul piano logico-linguistico e non ontologico (per se). Una verifica del rifiuto di questa obiezione D. compie (§ 25) sul piano dell'operare umano: il ladro che aiuta il povero col frutto del proprio furto, non fa propriamente elemosina poiché della elemosina manca la sostanza (forma) che è quella di attingere ai propri averi (l'esempio è chiaramente ispirato dal citato testo di Tommaso).
Lo stesso avviene quanto al fine del diritto, cioè al commune bonum (§ 26) che, se fosse raggiunto senza il diritto, non si realizzerebbe (così come nel caso della falsa elemosina) la vera e., la quale invece consiste nel deliberare rettamente rispetto a un bene (quod ... oportet), perseguendolo con i mezzi (per quod) dovuti.