Guerra, esercito e deportazioni
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Una macchina bellica poderosa, dotata di uomini e mezzi e sostenuta dalla ideologia della “guerra giusta”, guadagna e mantiene all’Assiria del I millennio a.C. il titolo di impero più esteso che il Vicino Oriente avesse fino ad allora conosciuto. Per oltre due secoli, al ritmo quasi ininterrotto di una campagna militare all’anno, gli eserciti assiri sono impegnati in contesti geografici e politici diversi. La capacità di coniugare una organizzazione fortemente gerarchica e standardizzata a una oculata flessibilità sia nelle strategie che nella struttura degli apparati ne determina il successo.
Costantemente proiettata oltre confine, la macchina bellica imperiale si fonda su una cospicua disponibilità di uomini, dispone di un’efficiente logistica e contempla una pianificazione territoriale in grado di fornire infrastrutture adeguate al suo coordinamento e sostentamento. Questo complesso apparato militare è organizzato e guidato in maniera coerente in tutto l’Impero, mostrando la natura autocratica, oltre che burocratica, dello stato. Il sovrano è il comandante supremo, ma di fatto demanda il controllo effettivo ai i suoi più alti funzionari dislocati nelle varie province. I quadri più alti non di rado e in maniera via via più evidente sono i veri comandanti delle spedizioni. Tuttavia, l’ideologia e i modi cristallizzati delle narrazioni ufficiali attribuiscono ogni vittoria alla coraggiosa guida del sovrano, benedetto dalle divinità. Le rappresentazioni scultoree a soggetto bellico che decorano le sale e le corti degli edifici palatini mostrano una significativa evoluzione nello sviluppo di questo tema, a partire dalle rappresentazioni di Assurnashirpal II, che in prima linea guida all’assalto i suoi soldati, per finire con gli ultimi re, ritratti stanti sui carri ad osservare a distanza l’inevitabile vittoria. Al di sotto del sovrano si situa la schiera degli ufficiali sottoposti, ordinata in senso piramidale, con al vertice i governatori di provincia.
Inizialmente l’esercito è formato dal popolo in armi, i nobili assiri e la popolazione comune, mobilitati per quella che può definirsi una corvée (ilku), una prestazione lavorativa cui sono tenuti tutti i sudditi. Il reclutamento e le spedizioni militari hanno luogo durante il periodo estivo, quando l’impegno agricolo è meno pressante. Nel corso dei mesi estivi, inoltre, le condizioni climatiche permettono un più agevole attraversamento dei fiumi e dei passi montani e più abbondanti rifornimenti lungo la marcia nei territori attraversati. Nelle aree delle operazioni belliche possono unirsi all’esercito di corvée modesti contingenti ausiliari forniti dagli alleati.
Nel tempo questa impostazione si rivela insufficiente e alla realtà politica e sociale in mutamento segue un adeguamento dell’organizzazione militare. Pur senza abolire la regolare procedura di arruolamento, e procedendo talvolta a leve speciali, si passa dall’autosufficienza e dalla difesa territoriale alla formazione di un esercito stabile di professionisti. Viene creato un nucleo permanente, costituito da giovani appartenenti alla nobiltà e da corpi speciali, e si passa all’istituzionalizzazione di reparti stranieri, estendendo la leva a popolazioni sottomesse e arruolando mercenari.
La presenza dell’esercito sul territorio delle province e le necessità connesse al suo mantenimento determinano una serie di conseguenze e innescano meccanismi complessi di distribuzione degli approvvigionamenti. Le province ricoprono un ruolo tutt’altro che marginale nello sforzo bellico, con il loro contributo di uomini e mezzi che è obbligatorio e spesso non proporzionato alle capacità effettive. Il reclutamento è rimesso ai governatori almeno fino alla riorganizzazione politico-amministrativa della metà dell’VIII secolo a.C., quando il governo centrale ne assume la diretta supervisione. Da allora nelle province sono dislocati degli agenti (musharkisu) alle dirette dipendenze del re, incaricati di raccogliere cavalli per l’esercito.
Due distinti corpi, suscettibili all’occorrenza di coordinarsi e fondersi, costituiscono il complesso dell’esercito d’Assiria: le “truppe del re” (sab sharri) e la “coorte del re” (kisir sharri). Quest’ultima è al servizio diretto del sovrano, ma di fatto risponde agli ordini del Capo Eunuco. Essa comprende fanti, carristi e cavalieri e include un’unità di deportati ed una cosiddetta “aramaica”. La milizia di palazzo e la guardia del sovrano sono reparti di questa formazione militare.
L’esercito effettivo, “le truppe del re”, è agli ordini del “generalissimo”, la cui funzione dalla metà dell’VIII secolo a.C. è assegnata a due funzionari per ovvi motivi di gestione e divisione di un potere suscettibile di minare l’autorità del sovrano. Gli altri “grandi del regno” comandano ciascuno un proprio contingente. Una base permanente e le truppe di leva costituiscono il grosso delle forze armate, che nel periodo della dinastia sargonide (da Sennacherib ad Assurbanipal) può contare su decine di migliaia di soldati, un numero variabile ma probabilmente vicino alle 60-70 mila unità. Ad essi si aggiungono i civili che si occupano della fureria, gli scribi e il personale specializzato addetto alla mantica e ai rituali, i divinatori e i sacerdoti.
Fanteria, cavalleria e carreria costituiscono i reparti combattenti, organizzati in unità di 50 uomini. Il primo è composto in massima parte da arcieri, la cui arma è ad altezza d’uomo e che erano protetti da uno scudiero e un soldato con lancia. Agli arcieri si aggiungono frombolieri e lancieri. Nel corso del tempo i carri variano nelle caratteristiche e nelle dimensioni ma soprattutto, e in modo determinante, cambiano nella funzione. Essi sono a due ruote e aperti sul retro; il traino è affidato ad uno o più cavalli. Nel IX secolo a.C. ci sono un guidatore e un arciere, poi anche uno o due uomini con lo scudo, più piccolo di quello in dotazione ai fanti. Armati di piccoli scudi e corte spade, talvolta accompagnati da un secondo, i soldati a cavallo, nel VII secolo a.C., sostituiscono come elemento mobile preponderante la carreria, che viene impiegata nella logistica e nel trasporto. Essenziale, laborioso e pressoché costante in tutto il periodo imperiale, il procacciamento di cavalli e muli per la guerra coinvolge tutte le province dell’Impero e prevede una rivista completa di fronte al re. Fondamentali, inoltre, i genieri sia nel momento dell’apertura delle piste che negli assedi. Un numero di corpi speciali completa gli schieramenti.
L’armamento, in parte documentato iconograficamente dai rilievi palatini, è conservato in appositi arsenali che sorgono non distante dai palazzi reali. I soldati di professione indossano elmetti. L’armatura dei militari di basso rango è realizzata in cuoio, mentre quella che protegge i soldati di grado elevato è in scaglie metalliche. Le unità militari di origine straniera permangono ben distinte, conservando le caratteristiche etniche e indossando le tipiche armature.
Parallelamente alla formazione di una forza permanente di professionisti e all’integrazione di corpi stranieri si trasformano col tempo anche la struttura dell’apparato bellico e la tecnica militare, per adattare di volta in volta i contingenti impiegati, le strategie e l’equipaggiamento alle necessità tattiche e del terreno. Il fine è quello di svolgere efficacemente differenti tipologie di azione abbinate o distinte dalla battaglia campale, in qualsiasi teatro di guerra. Esemplare è il caso della costruzione da parte dei Fenici di imbarcazioni adatte all’inseguimento degli evanescenti Caldei, altrimenti irraggiungibili nelle impraticabili paludi della bassa Mesopotamia, dove fuggono riuscendo puntualmente a seminare l’esercito assiro. Pure paradigmatico è il racconto di una spedizione di Sennacherib attraverso le ripide gole di una zona montuosa.
Una campagna di Sennacherib in una zona montuosa
Dagli Annali di Sennacherib
Il testo seguente è tratto dagli Annali che raccontano le gesta del re assiro Sennacherib, importante fonte di notizie per conoscere le tecniche belliche, le strategie di guerra e l’apparato militare dell’impero assiro.
Ho posizionato il mio accampamento ai piedi del monte Nipur e con le guardie del corpo scelte e gli implacabili guerrieri, io come un forte toro selvatico li precedetti. Burroni, torrenti di montagna e cascate, pericolosi precipizi, ho superato sulla mia portantina. Dove era troppo stretto per la mia sedia, avanzai a piedi. Come una giovane gazzella salii alte vette inseguendoli. Ovunque le mie ginocchia trovassero un luogo di ristoro, sedetti sul masso della montagna e bevvi la fresca acqua della sorgente per saziare la mia sete.
D.D. Luckenbill, The Annals of Sennacherib, 1924
Nonostante le iscrizioni reali vantino spesso successi in battaglie campali, è raro che l’esercito ingaggi battaglie in formazione completa e in campo aperto. Strategicamente è preferibile terrorizzare il nemico mediante la minaccia armata e, in caso di mancata sottomissione spontanea, procedere all’attacco di villaggi e città. Gli assedi sono dispendiosi e possono durare a lungo, prevedono l’uso di macchine e sono di conseguenza rari. La popolazione sconfitta subisce angherie e torture esemplari, che devono fungere da deterrente a ulteriori ribellioni e resistenze. Ugualmente le distruzioni, che secondo le fonti fanno seguito alle conquiste, sono misure punitive utilizzate di rado, dato che si mira a subentrare nella gestione del territorio. Irrealistica è spesso la quantificazione delle deportazioni delle popolazioni sconfitte, attuate in maniera sistematica dal IX al VII secolo a.C., soprattutto da Tiglat-pileser III e Sargon II, per le quali è stata stimata una cifra di 4,5 milioni di persone. I trasferimenti coatti di uomini avvengono secondo diversi livelli, a seconda che si trasferiscano forzosamente membri dell’entourage della corte nemica, maestranze specializzate o gente comune. Le popolazioni vengono sradicate e costrette a stazionare e lavorare in un Paese loro straniero raggiunto a forza di marce estenuanti, con cibo non di rado a carico degli stessi deportati. In Assiria i deportati sono spesso convogliati nei grandi centri urbani, impiegati come manodopera nella realizzazione di imponenti progetti di edilizia, offerti come oblati agli dèi o dislocati presso le singole amministrazioni. I documenti attestano anche le deportazioni incrociate nella periferia. Ma i trasferimenti coatti di uomini non hanno solo uno scopo economico. Essi rappresentano una misura drastica che mira spesso ad allontanare la classe dirigente dai centri del potere e a fiaccare l’identità culturale, laddove la conquista si dimostra faticosa. Il caso di Babilonia è un esempio significativo dell’applicazione di questa misura come strumento di sradicamento di una forza di resistenza difficile da piegare in altro modo.
La continua prevaricazione insita nel perseguire e attuare il predominio imperiale necessita d’altra parte di una giustificazione in grado di minimizzare agli occhi dei vinti l’effettiva sopraffazione. Ne consegue l’idea della “guerra giusta”, cioè di una guerra condotta per volere e sotto gli auspici degli dèi, che fa perno su una continua campagna di demonizzazione degli avversari e sull’assunto di una reiterata minaccia che questi porterebbero alla potenza assira. L’apparato teorico concepito in funzione del disegno imperialistico presenta l’imperialismo come sistema alla stregua di un alto mandato. Il comando perentorio delle divinità è di “allargare i confini del Paese”. Legittimato dalla giustificazione teologica, il dominio diventa strumento e risultato di una presunta missione civilizzatrice su scala internazionale, destinata ad estendere progressivamente l’ordine cosmico stabilito dagli dèi. La cosciente strumentalizzazione di simili argomentazioni viene incanalata nell’elaborazione di una narrazione coerente in cui il tema bellico risulta essere di gran lunga quello dominante. Da un punto di vista descrittivo, nel IX secolo a.C. l’azione dell’Assiria nei confronti dei suoi nemici viene rappresentata in modo “realistico”, nei termini di una repressione effettuata con il sostegno e il benestare degli dèi. Nei due secoli successivi la tendenza è invece di spostare l’argomentazione sul piano religioso, giustificando la guerra come una punizione divina per il tradimento di patti giurati.