escatologia
Dal gr. ἔσχατος «ultimo» e λόγος «discorso». Dottrina degli ultimi fini, cioè quella parte delle credenze religiose (e, in qualche caso, di teorie filosofiche) che riguarda i destini ultimi dell’umanità e del singolo individuo. Si è soliti distinguere un’e. individuale e un’e. collettiva, che spesso riguarda non soltanto il genere umano ma l’intero Universo. L’e. collettiva tratta della ‘fine dei tempi’, un tema affrontato soprattutto dalle dottrine sorrette da una visione ‘lineare’ del tempo. Ciò vale in partic. per le dottrine di derivazione iranica, ebraico-cristiana e islamica. L’e. individuale ruota intorno al concetto di anima e al suo destino dopo la morte (➔ anima).
Tipico esempio di una concezione dei fini ultimi riguardante la posizione di un’intera collettività, quella del popolo eletto, è l’e. ebraica. Essa è del tutto calata nella storia: guarda infatti alla storia come all’ambito della fenomenologia del popolo eletto di Jahweh, una collettività che è l’unica – almeno a partire dal tempo dell’esodo dall’Egitto – a interpretare nelle sue gesta la volontà dell’unico vero dio. L’e. giudaica andò assumendo (nonostante il cosiddetto Deutero-Isaia, e molti passi sparsi in cui è possibile intravedere l’affermazione di una responsabilità degli Ebrei nei riguardi dell’illuminazione degli altri popoli) coloriture fortemente nazionalistiche, tanto più accentuate quanto più, alla convinzione di essere il popolo eletto, si accompagnava la constatazione di una storia attuale di lutti, oppressioni e rovine, che non poteva non esigere un riscatto, sul piano storico e temporale. L’e. non è tanto la prospettazione della fine del mondo, quanto la rappresentazione di un trionfo anche politico della parte del popolo eletto mantenutasi fedele a Jahweh, che da castigatore si farà salvatore e regnerà in una nuova Gerusalemme su tutte le nazioni. Particolare importanza assume, in questo contesto politico-nazionalistico, la «visione» contenuta nel 7° cap. del Libro di Daniele (2° sec. a.C.), in cui il trionfo finale di Israele, a opera del «figlio dell’uomo», è posto dopo una successione di quattro potenze storiche (babilonese, meda, persiana, greca). Si fa strada così sempre più il tema del trionfo su tutta la Terra dei «santi» (cioè il popolo eletto), che al momento opportuno rovesceranno l’incarnazione storica contingente della potenza distruttiva del male che opera nel mondo, stabilendo un regno che non avrà successori. Nel periodo compreso tra la conquista romana di Pompeo (63 a.C.) e la rivolta degli Ebrei al tempo dei Flavi (66-70 d.C.) acquista sempre maggior risalto la figura del messia redentore, già nota, del resto, all’apocalittica dei Libri profetici, configurata come rappresentativa dell’intero popolo d’Israele, o (Libro di Daniele) come individuo sovrumano, e adesso, specie al livello dell’apocalittica popolare, come re guerriero: figura del Leone di Giuda nell’Apocalisse di Ezra; guerriero del monte Sion nell’Apocalisse di Baruch. In alcuni settori del giudaismo, tuttavia, l’e. supera la pura prospettiva nazionalistica e attinge una dimensione universalistica concernente il problema del male in generale (cfr. il Libro etiopico di Enoch).
Esauritosi il sogno di un impero mondiale escatologico, dopo la dura repressione della rivolta ebraica a opera dei Romani, l’idea messianica fu ripresa e sviluppata in ambiente cristiano, sia per influssi dell’apocalittica ebraica (specie la «visione» di Daniele), sia per elementi profetici contenuti nei testi evangelici (profezia di Matteo, posta in bocca a Gesù: «Poiché il Figlio dell’Uomo verrà nella gloria del Padre suo... e renderà a ciascuno secondo l’opera sua») e più in generale per l’annuncio dell’imminente avvento del Regno di Dio. Più facile e immediata, l’assunzione dell’elemento escatologico nei termini del messianismo giudaico tradizionale contribuì a diffondere, specie nelle persecuzioni subite dai cristiani nei primi secoli, l’aspettativa di una parusia intesa come ritorno dello stesso Cristo quale restauratore di un regno messianico sulla Terra. La delusione per il tardare della parusia si manifesta implicitamente nelle stesse parole della II Epistola di Pietro in cui, mentre si ribadisce l’assoluta certezza della parusia, per il manifestarsi di essa si assume la dimensione di un tempo scandito da una cronologia diversa da quella umana: «Non dimenticate... che un giorno solo davanti al Signore è come mille anni, e mille anni come un giorno solo». Il ritardo della parusia appare giustificato dalla possibilità offerta a tutti di salvarsi. Ma segno di una resistenza di residui giudaici nella concezione dell’e. fu il diffondersi del millenarismo, circostanzialmente spiegato dalla necessità di dare una dimensione precisa al differimento della parusia e collegato con la tradizione veterotestamentaria (Salmo 89) di cui la stessa II Epistola di Pietro si era valsa (mille anni in un giorno e un giorno in mille anni): mille anni fu la durata stabilita per il regno messianico intermedio, prima della parusia, in una dimensione escatologica nutrita di elementi tratti anche dall’Apocalisse (20-21) e che ebbe nel 2° sec. numerosi seguaci (per es., Papia di Ierapoli, s. Giustino, s. Ireneo, Tertulliano, ecc.). Già in Paolo, e più ancora in Giovanni, comunque, la spiritualizzazione dell’escatologismo di impronta giudaica contenuto nel messaggio evangelico si precisava nel senso di un’e. di realizzazione, di contro a quella di attesa, propriamente giudaica (cfr. spec. la Lettera ai Filippesi e il Vangelo di Giovanni), sì da portare il centro stesso dell’e. dall’avvenire al passato (venuta di Cristo nel mondo) o al presente dell’esperienza cristiana. In Oriente, poi, nell’opera di Origene, l’e. si libera di ogni elemento apocalittico giudaico per dar luogo a una concezione ciclica della storia dell’umanità e del mondo, che consente il precisarsi, per la prima volta, di un’e. individuale, pur nell’ammissione del raggiungimento di una apocatastasi collettiva per intervento del Redentore, con la soppressione dell’Inferno e del male.
L’ultimo colpo alle tendenze millenaristiche fu infine dato da Agostino, favorevole all’interpretazione non letterale del passo dell’Apocalisse relativo al regno millenario intermedio, sostenitore e originalissimo interprete dell’idea del donatista Ticonio delle due città, quella del mondo e quella di Dio. La quale ultima, vivente nella realtà del mondo, non si identifica con una società temporale ma costituisce lo storico realizzarsi del trionfo di Cristo nella Chiesa. La parusia non è negata, ché anzi Agostino, nella lettera a Esichio, pur affermando la non imminenza della fine dei tempi, ne descrive minutamente le caratteristiche e i segni premonitori (prodigi celesti, venuta di Enoch ed Elia, martiri sotto il regno dell’Anticristo, annientamento di quest’ultimo) trasmettendo, in tal modo, tutto un bagaglio escatologico alla meditazione del Medioevo, che peraltro accoglieva, attraverso gli scritti sibillini contemporanei (Sibilla tiburtina) o posteriori di alcuni secoli ad Agostino (pseudo-Metodio di Patara: 7° sec.), il filone più propriamente apocalittico giudaico, in cui si combinavano gli elementi del messianismo davidico con la figura dell’imperatore degli ultimi tempi, e quelli dell’Apocalisse (20, 7), con le figure dei popoli di Gog e Magog. La storia acquista in tal modo un nuovo parametro proprio nell’e.: onde il ritorno costante, ogni qualvolta nelle situazioni circostanziali si crederà di riconoscere il complesso di quelle caratteristiche già indicate come stigmate dell’imminente fine dei tempi, dei temi escatologici nella letteratura ascetica, nella predicazione, nella stessa storiografia di un Isidoro di Siviglia o di un Beda. Certo occorre distinguere tra la meditazione pessimistica, in larga misura permeata di un escatologismo dalle scadenze ritenute imminenti, quale era quella di Gregorio Magno, e il perpetuarsi attraverso gli scritti di pensatori e scrittori di tutto l’alto Medioevo dei temi della fine dei tempi, che non hanno una puntuale rilevanza, anche se non sono perciò meno autentici – dacché la convinzione di vivere nell’ultima età era certissima, di là da ogni problema di durata temporale di questa età. Evidentissimi i motivi escatologici nella meditazione altomedievale (basterà ricordare l’Occupatio di Oddone di Cluny); e poi ancora del sec. 12° quando essi tornarono a caratterizzare di sé la letteratura di un Gerhoh di Reichersberg, di un Oddone di Frisinga, che nello scisma tra regnum e sacerdotium, consumatosi nella lotta delle investiture, vedevano il segno più certo di un’imminente catastrofe: e sono appunto i modi della fenomenologia storica del male, l’investigatio Antichristi, che implica un’attenta valutazione degli eventi, a contraddistinguere la meditazione di Gerhoh, piuttosto che la narrazione più o meno puntuale e fantastica della fine dei tempi.
Questa progressiva e sostanziale storicizzazione del pensiero escatologico, volto a una sempre più critica interpretazione del complesso di testi scritturali tradizionali trasmessi dalla letteratura in questione, con attenzione tanto più intensa alle vicende dei tempi presenti, trova la sua più alta espressione in Gioacchino da Fiore (12° sec.) che rinvigorisce di nuovo significato le classiche periodizzazioni delle sei età del mondo e dei tre regni (del Padre, del Figlio, dello Spirito), misure di valore della storia universale, più che quantità temporali, non desumibili, peraltro, da nessuno sforzo ermeneutico di ‘concordia’ tra Antico e Nuovo Testamento. Tale concordia serve, quindi, come strumento d’interpretazione aperta della storia e non è più mera tecnica per una definizione nel processo temporale. Di qui il carattere innovatore e, potenzialmente, rivoluzionario dell’escatologismo gioachimitico che, ponendosi temporalmente alla conclusione dell’età del Figlio, può preannunziare una età dello Spirito, in cui attuerà quella comunità (cioè la Chiesa) perfetta di laici e clero, in assoluta carità, libertà e spiritualità, capace di attendere, vera comunità di eletti, il giungere dell’Anticristo, come preludio della fine dei tempi. In ciò l’immanenza storica dell’e., per quanto scrittori quali Gioacchino, Arnaldo da Villanova e Pietro di Giovanni Olivi si siano personalmente rifiutati di puntualizzare delle scadenze temporali, ha la sua maggiore rilevanza: che si esercita nell’ambito di una Chiesa profondamente diversa da quella dei primi secoli, fatalmente oggetto di applicazioni e identificazioni. L’atteggiamento profetico trovava echi propriamente apocalittici e temporalizzazioni precise nel contesto di situazioni sociali, politiche ed economiche peculiari. I tempi imminenti – non importa allora se inizio di una nuova età o fine del mondo – sono obbligatoriamente polemici ed eversivi rispetto alle situazioni presenti. L’Ecclesia spiritualis di un Pietro di Giovanni Olivi, di un Umbertino da Casale, delle correnti spirituali francescane, assertrici di un radicale pauperismo, dei beghini di Provenza, acquista valore di protesta tanto maggiore quanto più essa non sta a designare esclusivamente una fase successiva della storia dell’umanità e della Chiesa, ma si contrappone in assoluta contemporaneità alla Chiesa istituzionalizzata, carnale e dell’Anticristo, nel modulo escatologico. La ricerca della identificazione dell’Anticristo, riconosciuto ora in un papa, Bonifacio VIII, ora in un imperatore, Federico II, consente alla Chiesa istituzionalizzata di vedere nell’attesa escatologica di masse, in cui sono fortemente presenti istanze sociali ed economiche, pericolosi fermenti di eresia, e di schiacciarli duramente. Tenuto conto, anche, che l’elaborazione teologica dell’e. si avviava alla formulazione di un escatologismo individuale, mentre la larga assunzione dell’aristotelismo nella concezione della natura rendeva sempre più scettici circa la fine del mondo fisico (non è senza significato, in questo contesto, l’accusa di eresia rivolta agli aristotelici da parte di coloro che sono i più convinti assertori dell’escatologismo, come Arnaldo da Villanova e Pietro di Giovanni Olivi). Così il filone escatologico medievale, dall’impostazione di Gioacchino trapassato alle correnti pauperistiche e francescane con un’ansia di soluzioni immediate e temporali, doveva comunicarsi nel suo significato di protesta, sul concreto terreno dell’immanenza storica, alle estreme manifestazioni ‘ereticali’ dei flagellanti renani (sec. 14°), dei contadini inglesi (sec. 14°), dei taboriti, per sostanziare la rivolta degli anabattisti di Th. Müntzer, tutti tesi nell’aspettativa e nella realizzazione di un nuovo millennio.
Circa il valore dell’e. nell’ambito dell’essenza stessa del cristianesimo, si è sviluppata nel 20° sec. una vivacissima polemica tra cattolici e protestanti. Per alcuni di questi (A. Schweitzer) l’e. è solo la dimensione esteriore del pensiero di Cristo, assunta come essenziale dalla primitiva tradizione cristiana per effetto dell’ambiente giudaico, per il quale quella dimensione era di particolare rilievo; per altri (K. Barth) l’e. ha ancora un’importanza nel cristianesimo, ma in senso intemporale, restando oggetto di un’attesa e di una speranza fondata sulla promessa di Cristo, sulla certezza dell’azione redentrice da lui operata; per altri ancora (R. Bultmann) l’e. è trasferita totalmente dall’avvenire al presente, alla quotidiana esistenza, realizzandosi, una volta liberata dall’apocalittica giudaica e dal tema gnostico della redenzione, attraverso l’azione della grazia, che rende presente in ognuno di noi, al di fuori di una vera dimensione temporale, il fatto della venuta di Cristo nel mondo, verificatosi nel passato: la condizione umana, che quel fatto ha evidenziato nel passato, diventa il termine della nostra accettazione attuale, esistenziale, al di fuori di ogni ‘mitologia’ di resurrezione. L’esegesi cattolica si è invece indirizzata, più che a trarre un significato attuale e ‘demitizzato’ dell’e., a una interpretazione dei testi escatologici neotestamentari (specie il discorso escatologico di Cristo sulla distruzione del tempio) nel senso di distinguere quanto di propriamente giudaico poteva esserci nella primitiva parusia da quello che sarebbe il significato autentico della parola di Cristo. La distruzione del tempio e il conseguente sentimento di profonda riprovazione sarebbero così da intendere – proprio in una limitata dimensione temporale quale lasciano capire le parole evangeliche (Sinottici) – come la rovina del giudaismo che, nella condanna di Cristo, condanna sé stesso; la venuta di Cristo e dei suoi messaggeri è riferita alla glorificazione dello stesso Cristo e alla predica- zione per tutta la Terra; così lo stesso «giorno di Jahweh» viene distinto dalla fine del mondo, indicando, appunto, il primo il succedersi immediato degli eventi dopo il discorso escatologico di Cristo, compiendosi la seconda nel tempo e nella progressiva attuazione del piano divino nella storia, sino alla realizzazione della salvezza eterna. Notevole importanza ha, infine, rivestito l’e. nella più generale concezione cristiana della storia ripresa da svariati orientamenti filosofici e teologici contemporanei, nel senso di accentuare da un lato la visione evolutiva e irreversibile del processo storico al cui centro sta Cristo, dall’altro sottolineando come l’incarnazione stessa rende presente nella storia l’azione escatologica di Dio nel mondo.