THAYAHT, Ernesto (Ernesto Michahelles)
Nacque a Firenze il 21 agosto 1893 dal tedesco Karl Heinrich, alto dirigente bancario, e da Mary Florence Ibbotson, anglo-americana. Il padre proveniva da una famiglia tedesca trasferitasi in Svizzera a fine Ottocento, mentre la madre era figlia di un grande industriale dell’acciaio di Sheffield e nipote del più importante scultore americano neoclassico, Hiram Powers; i due si sposarono a Losanna il 20 settembre 1892, e subito dopo si trasferirono a Firenze, dove nacquero i loro quattro figli: oltre al primogenito Ernesto, Mark (Firenze 1896-1989), Roger, in arte Ram (Firenze, 30 maggio 1898-14 marzo 1976), Christine (Firenze 1904-Roma 1989).
Ernesto visse l’infanzia e l’adolescenza a Firenze, nell’imponente villa Ibbotson, in via Benedetto da Foiano, sulle pendici di Poggio Imperiale, già dimora di Hiram Powers. Dopo il conseguimento della licenza ginnasiale nel 1911, interrotti gli studi liceali, proseguì gli studi tecnico-scientifici presso l’Istituto Galileo Galilei, dove conseguì la licenza fisico-matematica nel 1914.
Dedicatosi alla ricerca artistica con lo pseudonimo di Cheak, espose per la prima volta nel 1915, presso il negozio Brogi, nel centro di Firenze, un folto nucleo di disegni a motivi geometrici, dei quali sono rimasti pochissimi esemplari. Parallelamente frequentò la Scuola libera d’incisione all’acquaforte, diretta da Celestino Celestini presso la Regia Accademia di belle arti di Firenze, come è documentato dalla tessera d’iscrizione nell’anno accademico 1914-15 (Rovereto, MART – Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, Fondo Thayaht, Tha.4.3). In questo periodo, forse tramite lo stesso Celestini, conobbe e divenne amico del grande regista e scenografo inglese Edward Gordon Craig, che risiedeva da tempo a Firenze (Pratesi, 1992; e 2005, pp. 38 s.). Intorno al 1916 frequentò l’accademia privata dell’artista Filippo Marfori Savini, in borgo Ss. Apostoli, per approfondire le tecniche calcografiche; frequentò inoltre, nel 1919, la scuola del pittore americano Julius Rolshoven, nel cosiddetto 'Castello del diavolo' a Firenze, dove ebbe modo di approfondire le tecniche del disegno e della pittura. Contemporaneamente coltivò le conoscenze della filosofia di Henri-Louis Bergson e s’interessò alle teorie teosofiche dell’architetto, scrittore e scenografo statunitense Claude Fayette Bragdon; teorie che, negli anni antecedenti alla prima guerra mondiale, nella cornice della Firenze cosmopolita, erano ampiamente coltivate presso villa Montughi, splendida abitazione dell’eccentrica famiglia Braggiotti, di origini levantine, composta dai due celebri cantanti lirici e dai loro otto figli, dediti alla musica e alle arti. L’assidua frequentazione di questo colto e variegato ambiente è attestata da vari documenti e carteggi e dalle numerose fotografie nelle quali sono ritratti i giovani Michahelles e Braggiotti nel corso di esibizioni musicali, danze in costume o tableaux vivants allestiti nel giardino di villa Montughi (Toti, 2005, pp. 61 s.). Le dottrine orientali, da questo momento, sarebbero state una pratica costante nell’arte e nel pensiero di Michahelles, accresciute dalla conoscenza diretta, avvenuta a Trieste nel 1930, dell’illustre teosofo Jiddu Krishnamurti, capo dell’Ordine internazionale della stella d’Oriente (Rovereto, MART, Fondo Thayaht, Tha.1.2.1.23).
Frattanto, nell’agosto del 1917, presso il lussuoso Select Palace Hotel di Viareggio, avvenne l’incontro dell’artista con Sergej Pavlovič Djagilev, fondatore e direttore della Compagnia dei Balletti russi, e con Leonid Fëdorovič Mjasin (Léonide Massine), ballerino e coreografo. Il rapporto che Michahelles intrattenne con i due protagonisti della scena artistica europea fu molto intenso, come si evince da una lettera del 2 agosto 1917, inviata alla nonna, nella quale il giovane riferiva come «determinante» l’amicizia che aveva instaurato con i due russi (Roma, Collezione CLM Seeber, E. Michaelles, Lettera alla nonna, Viareggio, 2 agosto 1917, corrispondenza, n. 82). Rientrato a Firenze, espose le sue ultime ricerche nell’ottobre del 1918 alla mostra «Pittori d’oggi», presso la sede della Florentina Ars, in palazzo Antinori, firmandosi per la prima volta con lo pseudonimo di Tayat, poi convertito in Thayaht. La mostra, non citata nelle memorie dell’artista, ma documentata dal catalogo ufficiale, presentava un nucleo di artisti di rilievo del panorama italiano, fra i quali Moses Levy, Gino Carlo Sensani, Arturo Checchi, Antonij De Witt; la sezione più importante era nella Sala gialla, riservata alle opere di Thayath e di Fortunato Depero. Thayaht esponeva diciotto lavori, che già nei titoli denunciavano la forte influenza di Djagilev e Massine (tra i quali: Due farfalle, Alberi gialli, Gulf, Stream, Danza dei colori, Vitalità, Fuochi artificiali, Vortice, Armonie di verde, Studi cromatici, Plenilunio profumato, Meduse, Motivo simmetrico, Pappagalli). Depero presentava 46 lavori tra carte colorate, arazzi, acquerelli, pitture a olio e disegni a carbone (Pittori d’oggi, 1918, pp. 6 s.).
Suggestionato da Djagilev e Massine, Thayaht decise di recarsi a Parigi per la prima volta il 12 ottobre del 1919, come è confermato nella lettera alla zia Alice Ibbotson (Roma, Collezione CLM Seeber, E. Michaelles, Lettera alla zia Alice, Parigi, 25 novembre 1919, corrispondenza, n. 11). La fine del soggiorno parigino va collocata tra il 15 e il 20 dicembre 1919, come attestano le lettere alla nonna (Parigi, 12 dicembre 1919, corrispondenza, n. 123) e a Louis Dangel, direttore amministrativo della Maison Madeleine Vionnet, in rue de Rivoli a Parigi (Firenze, 16 gennaio 1920, corrispondenza, n. 13). Nei due mesi del soggiorno parigino l’artista entrò in contatto con la nota stilista Madeleine Vionnet, per la quale, nel dicembre del 1919, progettò il logo e l’intera immagine grafica della celebre maison, con una figurina dalle forme androgine che indossa una tunica intera come un peplo greco. Il contatto con la Maison Vionnet fu propiziato dalle amicizie con Djagilev e Massine, con il mercante d’arte Léonce Rosenberg, con Louis Metman, direttore del dipartimento delle arti decorative al Louvre e con Carle Dreyfus, conservatore generale del Louvre. A quest’ultimo Thayaht si rivolse chiedendo consiglio in merito alla sua intenzione di frequentare l’Académie Ranson; invece, Dreyfus, apprezzando l’alta qualità del lavoro dell’artista, lo esortò a studiare direttamente i reperti del Louvre (Lettera alla zia Alice, Parigi, 30 ottobre 1919, corrispondenza, n. 9). Dunque Thayaht non frequentò l’Académie Ranson, come si legge erroneamente in molte biografie, dal momento che non esistono riscontri nei documenti; fu piuttosto il fratello Ram a seguirne i corsi. Dal novembre 1919, e per circa due anni, Thayaht lavorò come collaboratore esterno per la maison di Madeleine Vionnet; quindi, dal novembre1921 fino al 1925, con un contratto di esclusiva. Sarebbero nati bozzetti di abiti e disegni di modelli che regolarmente venivano pubblicati nell’importante rivista parigina La Gazette du bon ton.
In questo periodo Thayaht arrivò a una cifra stilistica elegante, con esiti di rarefatta e astratta linearità, che ben presto sarebbero diventati il segno riconoscibile del cosiddetto Stile 1925 o art déco, del quale l’artista fu uno dei più brillanti interpreti europei. Dopo una grave malattia, che lo relegò a letto nei primi mesi del 1920, si riaffacciò sulla scena artistica nella tarda primavera. Lo attesta il quotidiano fiorentino La Nazione nel numero del 17 giugno 1920: per la modica spesa aggiuntiva di 50 centesimi, con il giornale si poteva avere infatti il cartamodello per realizzare l’invenzione più eclatante di Thayath, l’abito battezzato con il neologismo tuta. Altri volantini del luglio 1920 accompagnarono l’uscita dell’abito con brillanti slogans pubblicitari ed efficaci giochi di parole, che giustificavano il neologismo: «tuta di un pezzo», «veste tuta la persona», e «la consonante perduta si ritrova nella forma stessa della tuta che ha appunto la forma della T» (Pratesi, 1987). La tuta fu pensata dall’artista come un abito semplice e funzionale che doveva assolvere alle esigenze del tempo, coniugando l’eleganza formale della linea retta alla praticità dell’indumento realizzato con un solo pezzo di stoffa. In questo tempo l’artista sostituì definitivamente il proprio pseudonimo, il palindromo inizialmente siglato «TAYAT», con il definitivo «THAYAHT», in maiuscole e spesso accompagnato da due punti in apertura e chiusura. Appena un mese dopo l’invenzione della tuta, il 9 agosto 1920, presso l’Ufficio brevetti di Roma, l’artista registrò il proprio nome come marchio di fabbrica e produzione artistica (Bollettino dei marchi di fabbrica…, 1920). L’invenzione della tuta si colloca nel preciso momento storico che, dopo la costituzione dei Fasci di combattimento del marzo 1919, portò alle campagne di protesta contro il consumismo, contro lo spreco e lo sfarzo incontrollato, ma anche contro i prezzi troppo alti dei grandi magazzini. Fu un periodo, pur breve, di fervore contro la sfrenatezza delle cappe di martora e degli abiti di seta orientale. In tal senso, l’invenzione di Thayaht è da considerarsi fra le più brillanti realizzazione del tempo, anche se ad appropriarsene non furono i ceti proletari, ma i rampolli dell’aristocrazia, che videro rappresentato il proprio spirito dandy in quel capo dalla prorompente originalità (Pratesi, 1987, p. 39), capace di coniugare il desiderio di superare le angustie del dopoguerra con l’esigenza di contenere i prezzi e produrre indumenti autarchici (Bertoli, 1958, p. 6). Thayaht era ben consapevole dell’importanza della sua invenzione: scrisse dunque all’imprenditore americano Sigmund Eisner, titolare della catena omonima di grandi magazzini, proponendogli la tuta, con l’intento di farla brevettare negli Stati Uniti e ben oltre (Rovereto, MART, Fondo Thayaht, Tha.1.2.8.16).
Nell’agosto del 1921 Thayaht si recò negli Stati Uniti, prima a Boston, e poi all’Università di Harvard, ove seguì i corsi di Jay Hambidge sulla simmetria dinamica e quelli sulla teoria del disegno puro tenuti da Denman Waldo Ross, già conosciuto a Firenze nell’ambiente di Bernard Berenson. Rientrato in Italia sul finire del 1921, oltre alla stretta collaborazione con la Maison Vionnet, partecipò nel 1923 alla Prima Biennale di Monza, con un’eclettica produzione di mobili, tappeti, arazzi, soprammobili, creazioni orafe e modelli Vionnet. Fu nuovamente presente alla terza edizione del 1927 con una sala personale, dove espose mobili e oggetti d’arredo. Nel 1924 vinse, con il fratello Ram, il concorso nazionale bandito dall’Italica per la realizzazione delle scenografie dell’Aida di Verdi. Le otto scene dei fratelli Michahelles furono allestite per la stagione lirica che l’Italica organizzò, nel 1924, ad Algeri e a Tunisi, sotto la direzione del maestro Guido Carlo Visconti di Modrone. La serie completa dei bozzetti è conservata al Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi (Pratesi, 2005, p. 38). Indubbiamente questo fu il periodo di maggiore felicità creativa di Thayaht, caratterizzato da sodalizi intellettuali come quello con i giovanissimi 'quattro feroci': Fosco Maraini, Bernardo Seeber, Antonio Luigi Paoletti, Rodolfo Pichi Sermolli. Il primo, in particolare, noto etnologo, orientalista e scrittore, nel libro di memorie autobiografiche romanzate Case, amori, universi, così ricordava Thayaht (nella finzione «Ermete Trimegisto»): «vestiva con la cura di un artista che ama farsi notare anche come persona: calzoni chiarissimi stirati perfettamente, scarpe color crema, maglione giallo oro da cui fuoriusciva il colletto d’una camicia rosso mattone». Per quei giovani intellettuali antifascisti Thayat fu un maestro di vita, «amatore di filosofi indiani orchidacei», secondo la definizione di Maraini, e, allo stesso tempo, capace di disegnare e dipingere «in tre o quattro stili diversi», spaziando in tutte le arti (Maraini, 1999, p. 147).
Nel 1928 Thayaht fu prescelto dal Gruppo nazionale fascista della paglia come disegnatore di nuovi modelli di cappelli da uomo e da donna. Nel 1922 acquistò la 'casa gialla' a Pietrasanta, presso la spiaggia del Tonfano, annotando nel diario: «accampato alla meglio con poca mobilia. Sono arrivato dalla Francia dove lavoro per Madeleine Vionnet; contratto assai buono. Inizio vita di studio e lavoro in riva al mare; ogni mattina vado a caccia in pineta» (Roma, Collezione CLM Seeber, Thayaht, Diario, p.n.n.). La casa gialla diventò luogo di elezione per i fratelli Michahelles, il nido che lo stesso Thayaht aveva poeticamente e simbolicamente tinto di giallo «per aiutare il sole a vestirla d’oro» (Giop, 1931, p. 13). Dal 1929 l’artista pubblicò regolarmente i suoi disegni di abiti e accessori su Moda, rivista ufficiale della Federazione fascista dell’abbigliamento, e sempre nel 1929 fece la conoscenza di Filippo Tommaso Marinetti, aderendo ufficialmente al futurismo, con il fratello Ram. Nello stesso periodo realizzò la nota effigie del Dux, il cui esemplare in ghisa acciaiosa fu donato allo stesso Mussolini, il quale appose di suo pugno, su una foto dell’opera, la celebre frase: «Questo è Benito Mussolini così come piace a Benito Mussolini» (Ernesto Thayaht, 1932, p. 16). Nell’ottobre dello stesso 1929 Thayaht fu invitato alla mostra dei «Trentatré artisti futuristi» tenutasi presso la galleria Pesaro di Milano; ancora nel 1929 ottenne la medaglia d’oro per le creazioni orafe all’Exposición internacional di Barcellona, dove presentò anche numerosi lavori in ceramica e in 'taiattite', una lega a base di alluminio e argento da lui stesso inventata.
Oltre a coltivare interessi per le arti decorative, Thayaht non abbandonò la pittura, risolta in abbreviazioni geometriche e aerodinamiche; parallelamente s’interessò alla fotografia insieme agli amici Salvini e Maraini, approfondendo soggetti legati alla trascendenza spiritualistica. Nel 1930 espose nella sala dei Futuristi Italiani alla XVII Biennale di Venezia, dove presentò, tra le altre opere, La prua d’Italia, in gesso, esemplare da lui donato nel 1932 all’Istituto industriale Leonardo da Vinci di Firenze. Della scultura, già collocata al centro dello scalone di accesso dell’istituto e nota attraverso foto inedite, si sono perse completamente le tracce (Poggiali, 1940). Nel 1931 partecipò alla I Quadriennale di Roma e nel febbraio dello stesso anno, con Antonio Marasco, organizzò alla Galleria d’arte di Firenze, per il Gruppo futurista toscano, l’importante «Mostra futurista. Pittura-scultura-aeropittura». Nello stesso anno fu presente alla «Prima mostra di aeropittura» tenutasi alla galleria Camerata degli artisti, a Roma. Nel 1931, sulle pagine della rivista genovese L’Indice, rispose a Ezra Pound illustrando le possibilità della scultura futurista e della tecnica da lui definita «traiettiva»; con il gruppo futurista partecipò alla Biennale di Venezia del 1932, e con Enrico Prampolini alla V Triennale di Milano del 1933 con la scultura Vittoria dell’aria. Nello stesso anno partecipò alla mostra «Omaggio futurista a Umberto Boccioni», presso la galleria Pesaro di Milano. Fu inoltre presente alle edizioni del 1934 e del 1936 della Biennale veneziana; e ancora nel 1936, sempre con il gruppo futurista, alla VI Triennale di Milano.
Dalla fine degli anni Trenta si defilò dagli impegni, ritirandosi nell’amata casa gialla, da lui stesso già ristrutturata secondo criteri di un moderno funzionalismo. La casa diventò sempre più luogo di rifugio e di solitudine, con alterni momenti felici e di pace esistenziale: la bellezza del paesaggio e l’amicizia sincera di alcuni abitanti del posto riservarono all’artista nuovi slanci d’ispirazione creativa. Era sulla spiaggia di Tonfano che sino dagli anni Trenta aveva sperimentato l’invenzione a lui più cara, il «Carro Vela», con la quale amava correre al vento sulla battigia e farsi fotografare mentre pilotava lo strano veicolo.
Dalla prima metà degli anni Quaranta fino alla morte si trasferì nella nuova abitazione di Fiumetto, la 'casa bianca', che chiamava «Villa Teresita», ma anche «Casalta», «Vedi l’onda», «Goghem» o «Onderiparto» (Pratesi, 2006, p. 25). Era il tempo in cui l’artista aveva cominciato ad amare l’arte di Paul Gauguin, arrivando perfino a identificarsi con il grande francese, tanto che quella sponda del Tirreno fu da lui vissuta al pari di Papeete e Tahiti. Nel secondo dopoguerra si appassionò agli studi astronomici, che lo portarono a interessarsi di ufologia; nel 1954 fondò il CIRNOS (Centro Indipendente Raccolta Notizie Osservazioni Spaziali), che ebbe sede nella sua nuova abitazione, dove passava il tempo, come testimonia l’amico Maraini, dedicandosi ai «sicuri avvistamenti degli extraterresti prossimi venturi» (Maraini, 1999, p. 651). Riallacciando vecchie amicizie, come quella con la mai dimenticata Madeleine Vionnet, scriveva che aveva ripreso a dipingere studiando «il grande Gauguin»: «ho fatto delle copie delle sue opere e ho fatto inoltre delle trasformazioni “thayahtiens” di tali tavole, mi consola con la libertà dei suoi colori» (Rovereto, MART, Fondo Thayaht, Tha.1.2.37).
Già cagionevole di salute, Thayaht si spense a Pietrasanta (Lucca) il 29 aprile del 1959.
Collezione CLM Seeber, E. Michaelles, Lettera alla nonna, Parigi, 2 agosto 1917, corrispondenza, n. 82 e Parigi, 12 dicembre 1919, corrispondenza, n. 123, Lettera alla zia Alice, Parigi, 30 ottobre 1919, corrispondenza, n. 9 e Parigi, 25 novembre 1919, corrispondenza, n. 123, Velinario, Lettera a Louis Dangel c/o Madeleine Vionnet, Firenze, 16 gennaio 1920, corrispondenza, n. 13, Thayaht, Diario; Rovereto, MART – Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, Archivio del '900, Fondo Thayaht, Carte e documenti personali, 1912-1952, Tha.4.3, Lettera a Sigmund Eisner - New Jersey, Firenze, 25 giugno 1920, Tha.1.2.8.16, Lettera di Jiddu Krishnamurti a Tayhat, 9 settembre 1931, Tha.1.2.1.23, Lettera a Madaleine Vionnet, 6 luglio 1949, Tha.1.2.37; Bollettino dei marchi di fabbrica e di commercio, VII (1920), p. 119, n. inv. DOC. C5/BZ10, n. autorizzazione 678/07. Pittori d’oggi (catal.), Firenze 1918; E. T. scultore pittore orafo, Presentato da A. Maraini e da F.T. Marinetti, Firenze 1932; Giop (G. Picchi), I fratelli Michahelles, in Illustrazione Toscana, 1931, n. 11, pp. 13-15; G. Poggiali, L’Istituto Industriale Leonardo Da Vinci, Firenze 1940, p. 69; R. Bertoli, Nacque a Firenze la “Tuta” nello studio di un futurista, in Nazione sera, 11 novembre 1958, pp. 13-15; M. Pratesi, Tuttintuta, in MCM – La storia delle cose. La rivista delle arti minori, I (1987), 4, pp. 37-40; Id., Celestino Celestini e i primi anni della Scuola di incisione fiorentina, in Celestino Celestini (catal., Firenze), Perugia 1992, pp. 17-22; F. Maraini, Case, amori, universi, Milano 1999; M., E., in Dizionario del Futurismo, a cura di E. Godoli, II, Firenze 2001, pp. 734-736; Michahelles, Ruggero Alfredo, ibid., p. 736; M. Pratesi, T. e Ram. Un’idea universale di bellezza, in Futurismo e bon ton. I fratelli T. e Ram (catal.), a cura di M. Pratesi, Firenze 2005, pp. 19-57; C. Toti, Carte di famiglia: i Michahelles e l’arte come filtro del mondo, ibid., pp. 59-71; T. futurista irregolare (catal., Rovereto), a cura di D. Fonti, Milano 2005; T. Vita, scritti, carteggi, a cura di A. Scappini, Milano 2005; M. Pratesi, T. e Ram: un sogno chiamato Versilia, in L’estate incantata. Ram e T. da Parigi a Casa Bianca (catal., Forte dei Marmi), a cura di A. Paolucci - A. Vittoria Laghi - M. Pratesi, Pisa 2006, pp. 17-26; Fondo T. Inventario, a cura di M. Duci, Rovereto 2006; M. Pratesi, 1920. T. inventa la tuta e nasce il Made in Italy, in T. Un artista alle origini del Made in Italy (catal.), Prato 2007, pp. 12-23.