Parodi, Ernesto Giacomo
Filologo e critico (Genova 1862 - Firenze 1923). Le origini remote dell'interesse del Parodi per l'opera dantesca si possono ricostruire facendo ricorso ad alcune tarde pagine di una sua conferenza dedicata a D. e il dialetto genovese, nelle quali viene rievocata la figura di un valoroso insegnante, Federico Alizeri, dissertante al liceo Colombo di Genova sul sito e l'organizzazione di Malebolge. L'incontro vero con D. è degli anni del perfezionamento fiorentino presso l'istituto di Studi Superiori, quando, tra il 1887 e il 1888, il Rajna gli affidò un incarico che esigeva i tempi lunghi: lo studio della lingua del Convivio in rapporto al fiorentino arcaico, e, come traguardo più ambizioso e meno prossimo, lo stabilimento del testo critico di questa difficile opera dantesca. Un impegno di tale respiro, destinato a convogliare verso un tema dantesco tutti gl'interessi del P. per l'italiano antico, doveva estrinsecarsi anzitutto in una serie di ricerche relate alla fonologia e alla lessicologia del toscano nelle sue varianti locali e poi in accurati sondaggi sull'apporto alla formazione della sintassi predantesca dei volgarizzamenti dal latino e dal francese.
Lavori di recensione a libri sul senese, sull'aretino o sul fiorentino duecentesco, studi sui volgarizzamenti dell'Eneide e dei Faits des Romains, la ricostruzione dell'archetipo aretino-umbro di una versione italiana del Roman de Tristan, sono dunque solo in apparenza esperienze ritardanti rispetto alla maturazione professionale del dantista. Innegabilmente eccentriche a questo fine sono da giudicarsi le ricerche di fonologia latina, peraltro assai importanti, intraprese a Lipsia nel 1889 alla scuola del neogrammatico Karl Brugmann e portate a termine tra il 1891 e il 1893. Ma l'anno trascorso in Germania risulterà, per altra via, assai proficuo al P. studioso di D. per le conoscenze linguistiche che ne saprà ricavare, conoscenze che gli consentiranno di seguire senza remore i dibattiti dei medievalisti tedeschi dal Wechssler al Kern, al Vossler, e di renderne edotti, attraverso lucidi interventi, i lettori italiani del suo " Bullettino ".
Il primo saggio memorabile di materia dantesca è piuttosto tardo, del 1896, e riguarda la rima nella Commedia (in " Bull. " III 81-156). In questo caso l'incentivo doveva venirgli dalla critica di un poeta, Domenico Gnoli, da un versante letterario cioè tutt'altro che specialistico, militante secondo un certo gusto del tempo, contro le malefatte della rima. La risposta, brillante e ariosa, ridimensiona il concetto romantico d'ispirazione e punta sulla definizione della poesia come ostacolo e della rima come coscienza dell'ostacolo, miraggio e richiamo " ad un corteggio di vocaboli nobili, di colori e di immagini sopiti in fondo al pensiero ".
La prima parte del saggio doveva poi presto cedere il posto a una seconda, tecnicamente ardua, ma rivelatrice dell'aspetto più caratteristico della critica dantesca del Parodi. In essa la rima diventa la sentinella avanzata di tutto il linguaggio di D., la spia delle sue scelte lessicali, dell'ibridismo della sua formazione linguistica, delle capacità innovatrici della sua lingua poetica, fondate, nel giudizio del P., non sull'arbitrio inventivo, ma sulla forza rettificante e moderatrice, rispetto all'ibridismo d'origine, rappresentata dall'analogia.
La rima dantesca è, insomma, per il P. a un tempo il punto nevralgico di contenimento di aree linguistiche prementi da ogni dove sulla Commedia e il filtro che consente l'ingresso eccezionale a forme, a vocaboli che a esse appartengono. Il compito che il critico si propone è quello d'individuare, attingendo alla immense risorse del suo repertorio di studioso della lingua antica, i vocaboli in rima nelle loro stratificazioni settoriali (arcaismi, dialettismi, gallicismi, latinismi) al fine di liberare la Commedia dall'irrazionalità dei recuperi più crudi. Quando il P. studia le propaggini quattrocentesche di un vocabolo in rima (per esempio allotta, in If XXXI 12) presentato da altri come intemperante arcaismo in D., o quando individua in un preteso gallicismo assorbito nel tessuto poetico della Commedia il filtro anteriore dei volgarizzamenti, egli ci rende anche edotti, attraverso le informazioni che ci consegna, della tendenza profonda della sua critica mirante a dar rilievo alla moderazione del genio linguistico dantesco e a individuare in un sistema di equilibri interni fondati sull'analogia la presenza temperante della norma. La difesa a oltranza della rima perfetta, avanzata dal P. nella ricostruzione della patina linguistica della Commedia e, ai nostri giorni, autorevolmente avversata dal Contini, difesa per cui, per i dettami del vocalismo bolognese, come (in If X 67) può rimare con lome, non però con " lume ", è, in fondo, solo un aspetto, anche se forse il più vistoso, di una critica globale a tendenze normative, alle strutture linguistiche della Commedia, e solo alla luce di questa critica essa può essere appropriatamente spiegata.
Un secondo studio di cui va riconosciuto il carattere seminale (notevole è l'impronta lasciata da esso nei saggi dello Schiaffini e nelle recenti ricerche sulla sintassi del periodo nei primi prosatori italiani effettuate dal Segre) prende a pretesto il libro del Lisio: L'arte del periodo nelle opere volgari di D.A. e del secolo XIII, apparso a Bologna nel 1902. In esso il P. si pone preliminarmente la domanda se sia possibile ridurre la critica letteraria all'analisi degli schemi retorici usati da uno scrittore nel comporre la sua opera. La risposta, del tutto negativa quando il P. si riferisce all'opera d'arte come a un prodotto finito, a un insieme di valori formanti una totalità, diventa alquanto più sfumata quando di essa egli si propone d'individuare le componenti di formazione. La separazione, assai recisa, cui il P. accede tra giudizio estetico o di valutazione globale e giudizio storico o d'individuazione e descrizione dei particolari, ci sembra mostri a un tempo la ricettività del critico ai coevi, urgenti avvertimenti dell'estetica crociana e una certa sua apprensione per quanto essa, a suo parere, conteneva di ostile a ogni sondaggio storico sulle condizioni della formazione letteraria di uno scrittore antico.
Nelle sue linee direttive la ricerca del P. mira a correggere i pregiudizi del Lisio sull'evoluzione degli schemi narrativi che D. adopera sia nelle sue opere in prosa che in quelle in versi. Alla tendenza del Lisio a reperire nella prosa dantesca ritmi poetici, residui di abitudini endecasillabiche, il P. reagisce ora dando al ritmo un significato tecnico indipendente dalla poesia, legato ai dettami del cursus, ora un significato lato tenendo conto della linea di svolgimento del discorso dantesco, delle sue spezzature ossitone come delle sue più riposate e solenni cadenze.
Per il resto, la novità dell'analisi del P. rispetto all'impostazione del Lisio consiste nell'esatta valutazione del momento formativo dell'esperienza latina di D. intesa in tutta la sua latitudine di conoscenza della prosa dei volgarizzamenti modellata sul latino, esperimentazione del latino trattatistico, e, infine, ammirazione dell'ornato retorico, del bello stile virgiliano. Le letture latine additano, secondo il P., al grande prosatore in volgare che D. si accinge a divenire un limite da superare: lo stile ancora disarticolato e monotono della Vita Nuóva, e un traguardo da raggiungere: il robusto organismo del periodo del Convivio. L'attenzione se non esclusiva, dominante che il critico rivolge al Convivio, dopo aver confinato la Vita Nuova nell'ambito della stagione giovanile del dolce stile, dipende in gran parte dalla sua consapevolezza della novità degli schemi sintattici del trattato, inversioni, coordinazioni, subordinazioni relative che creano una scansione e uno stacco nel cuore del discorso principale, misurate rispetto all'uso dell'italiano antico e identificate come calcolati rischi che non segnalano un improvvido frazionamento delle idee, ma obbediscono alle articolazioni interne di un pensiero che non conosce ostacoli espressivi alla sua espansione.
La critica dantesca del P. ha delle caratteristiche di versatilità e una ricchezza d'interessi rare tra i dantisti del primo ventennio del secolo. Tale versatilità dipende dalle molteplici competenze dello studioso continuamente sollecitate all'uso dagli obblighi di recensore ai quali egli dovette sobbarcarsi con regolarità a partire dal 1906, quando assunse la direzione del " Bullettino " di cui era già stato assiduo collaboratore durante la gestione del Barbi. Egli può discutere, senza ombra di difficoltà, con il Marigo e con il Vossler sugli addentellati scolastici dell'amore stilnovistico, con l'Ercole e il Kern sulla genesi del pensiero politico di D., con il Croce sull'allegoria e il cosiddetto romanzo teologico, con il d'Ovidio e i suoi scolari sul carattere unilaterale e astrattivo delle ricerche sul comico nella Commedia; ma con altrettanta e forse maggiore acutezza egli può affrontare da filologo, col Mascetta-Caracci o col Toynbee, il dibattito sul cursus latino nelle Epistole di D., quello del testo del De vulgari Eloquentia con il suo maestro Rajna, o esaminare con un compagno di lavoro, G. Vandelli, il problema dell'edizione della Commedia.
Una delle singolarità della critica del P., legata a sollecitudine recensoria, consiste nell'occasionale arretratezza dei titoli, presi a prestito dai lavori recensiti e solo vagamente perciò indicativi della sagace direzione del ragionamento, della fervida dottrina profusa nella pagina. Benché tale arretratezza appaia ampiamente compensata dal vantaggio dello stile interlocutorio e didascalicamente efficace del dibattito, è del tutto ovvio che lo studioso, nel generoso dispendio delle sue energie, ha dovuto rinunciare ad articolare il suo pensiero su D. in un'opera coerentemente strutturata. Ciò spiega il carattere disperso e non facilmente accessibile di parte della sua opera e la necessità che noi abbiamo di far ricorso per conoscerla, anche dopo il notevole sforzo editoriale del Folena, alle pagine del suo " Bullettino " o addirittura a quelle del " Marzocco ". Sia pure con qualche rischio di astrattezza, è però lecito ricostruire, per sommi capi, la linea esegetica alla quale egli è rimasto fedele lungo tutta la sua carriera di studioso e alla quale del resto si sono riferiti come a un corpo di dottrine definitivamente fissato, quei critici come il Nardi che l'hanno in parte contraddetta e respinta.
Una delle consideravoli tappe della critica dantesca del P. riguarda la teoria della donna beatifica in Guinizzelli e D. e il contrasto che a proposito di questa viene rilevata, tra l' ‛ Amor amicitiae ' e l' ‛ Amor concupiscentiae '. Se è vera l'osservazione del Vossler che la teoria scolastica insegnava ai poeti che era impossibile amare elevatamente la donna individuale, non bisognava forse concludere che Guinizzelli e D., scegliendola a meta della loro attenzione, si erano pericolosamente inoltrati nel territorio precario delle approssimazioni eterodosse? Dopo aver distinto in Tommaso, con un'attendibilità di cui difettava, per questa parte, l'interpretazione del Vossler, l' ‛ Amor amicitiae ' che riguarda l'appetizione razionale dell'universale, dall' ‛ Amor concupiscentiae ' in parte razionale e in parte sensibile che ci fa amare più il nostro bene che quello dell'essere amato, il P. esplora la possibilità di una strumentalizzazione poetica da parte dello stilnovismo guinizzelliano e dantesco del concetto di ‛ Amor amicitiae ', il solo che gli sembri usufruibile nell'ambito dell'azione della donna beatifica. Appunto nell' ‛ Amor amicitiae ', l'intelletto che aveva presentato alla volontà un oggetto universale, ritornando su sé stesso le impone nello stesso quadro assoluto di moralità la scelta di oggetti particolari, certo secondari e derivati rispetto al primo come è la parte rispetto al tutto, ma non da esso qualitativamente differenziabili. Dall'individualizzazione dell' ‛ Amor amicitiae ', sorta di adattamento della dottrina tomistica alle circostanze specialissime della poesia, deriva sì la sublimazione della donna, creatura scelta da Dio per tradurre in atto la virtù dormente nel cuore dell'uomo, ma anche l'umanizzazione della grazia di cui è messaggera poiché se compito della donna è quello di operare negli schemi del mondo umano occorre che ella non oltrepassi il limite umano delle sue possibilità.
La misura di umanità che il P. attribuisce alla donna angelicata diventa guida precisa a una sua interpretazione non mistica della Vita Nuova, decisiva per comprendere tutta la linea dell'interpretazione in chiave realistica dell'opera di D. che egli in ultima analisi suggerisce. Come della Vita Nuova viene sottolineato l'aspetto etico più che quello metafisico e di D. autore del libello si dice che " contempla e specula con gli occhi volti al dolce mondo, alla vita attiva e alla beatitudine terrena ", così dell'opera posteriore in versi e in prosa vengono messe in luce il movimento di opposizione a tutto ciò che è artificioso e le ritornanti nostalgie per un amore sublime, ma reale, segnalate da vere e proprie crisi d'ispirazione, mutamenti di direzioni nell'impegno creativo. I punti cruciali della ricostruzione del pensiero dantesco posteriore alla Vita Nuova tentata dal P. possono essere indicati come segue: il sonetto Parole mie che per lo mondo siete è il primo indizio di stanchezza per le vane esercitazioni in onore di una donna allegorica a cui D. si era abbandonato dopo la morte di Beatrice. Una seconda crisi dello stesso tipo è indicata più tardi dalla brusca interruzione dell'allegorizzante Convivio, lo scritto dottrinale che il P. ritiene contemporaneo all'Inferno. Di questo libro, e più specificamente del suo quarto trattato, ci vengono segnalati i precari agganci dottrinali e tematici a una delle fallacie maggiori del tempo di D., di cui Egidio Colonna era stato nel De ecclesiastica potestate il teorico più radicale e intransigente e alla quale aveva reso omaggio il D. dell'Inferno (II 21-24) quando aveva considerato l'impero romano preparazione all'avvento dei papi. Il distacco di D. dalla teoria della supremazia papale coincide con la Monarchia e gli scritti a essa coevi: le Epistole salutanti l'avvento di Enrico VII e il Purgatorio che di questo avvento è l'indiretta e circonstanziata celebrazione. Nel III libro della Monarchia D. difende la divina ragione dei nostri diritti terreni, il carattere divino della legge naturale, e così facendo nobilita, attraverso l'impero che di questa legge è la più imponente manifestazione, la stessa natura umana. Negli ultimi canti del Purgatorio identicando l'albero con l'impero ideale e l'aquila con l'impero storico il P. prepara il terreno per un'interpretazione cesaristica dei versi 85-90 del XXXIII canto del Purgatorio. Siccome la giustizia divina interdice di recare offesa all'impero, la via tanto distante dalla divina quanto la terra dal Primo Mobile - afferma il P. - è quella dei teorici della supremazia papale.
Non c'è dubbio che le obiezioni al periodizzamento dell'opera dantesca proposto dal P. possano oggi essere molteplici. Occorre però notare che la precarietà delle sue ipotesi di lavoro riguardanti le coordinate dottrinali del pensiero di D., non disturbano le analisi concrete che egli propone. Qualunque cosa si voglia, ad esempio, pensare dell'ipotesi, del resto in questa parte attendibile, della coincidenza della stesura del Purgatorio con la discesa in Italia di Enrico VII, rimane fermo il fatto che il Purgatorio non è per il critico la cantica della felicità civile né quella dell'impero esultante per l'imminente arrivo del veltro, bensì quella del Paradiso terrestre, della felicità dell'umana natura innocente alla quale ogni individuo può giungere conquistando la libertà dell'arbitrio. Semmai la certezza della ‛ magna restauratio ' dell'impero storico agisce per il P. da sfondo atto a decantare il poema dagli odi più personali e profondi, sì che il Purgatorio viene definito come la cantica del caro passato e del sospirato avvenire.
D'altra parte anche la consuetudine del critico con il significato secondo o allegorico dell'opera dantesca si rivela propizia a introdurci nel più vivo del suo dibattito con la saggistica del Croce dedicata a Dante. È intuizione luminosa del P. che l'avversione del Croce al libello giovanile di D. sia da collegare alla sua diffidenza per ogni forma d'arte vaporosa, dai contorni suggestivi e incerti, sia essa prodotto dell'afflato mistico di D. che della torbida religiosità di un Pascoli. Appare anche plausibile il giudizio espresso sul Croce, storico della critica dantesca prevalentemente attento a reperire nel passato come nel presente tracce di quella divisione tra struttura e poesia di cui egli è fautore. Meno ovviamente accessibile alla nostra comprensione perché intimamente legata alla sua lettura dell'opera di Dante in chiave di metafora di storia universale, ma non di minor peso, si rivela la posizione del P. verso il diniego crociano della funzione poetica dell'allegoria. Tale funzione gli sembra da rivalutare là dove la rappresentazione raffigurata in un ampio pannello, come negli ultimi canti del Purgatorio, si presenta quale parvenza sensibile del simbolo.
Gli anni dal 1918 al 1920 sono dedicati dal P. allo studio del testo del Convivio, iniziato negli anni lontani del suo apprendistato a scuola del Rajna. Nel 1922 appaiono a cura del P. in appendice al volume unico delle opere di D. stampato sotto gli auspici della Società dantesca italiana, Il Fiore e il Detto d'Amore che nel 1901 lo studioso aveva attribuiti, sulla scorta di Guido Mazzoni, a D., ma che ora era tentato di sottrarre al ‛ corpus ' dell'opera del poeta per la volubilità e la facilità del loro stile " più ariostesco che dantesco ". Nello stesso volume della Società dantesca il testo del Convivio pubblicato, senza apparato, porta la firma di due curatori: P. e F. Pellegrini. Nel necrologio del P. stampato nell'ultimo numero del " Bullettino " il decano dei filologi dello studio fiorentino, Pio Rajna, lamentando la perdita del collega e antico discepolo, notava con rammarico che " l'edizione nazionale non avrebbe potuto avere da lui i due volumi in cui il Convivio avrebbe dovuto apparire con tutto l'ampio corredo di cui abbisognava ". In realtà, il P. non fu il solo a mancare all'appuntamento fissato per il centenario dantesco. L'enorme scarto tra i tredici o quattordici volumi promessi e l'unico, senza apparato, che si era potuto realizzare, aveva una drammatica causale: la dispersione di energie provocata dalla prima guerra mondiale.
In una recensione pubblicata anonima nel " Bullettino " del 1921, ma certamente di mano del P., lo studioso aveva però fatto in tempo a vantare i risultati filologici a cui egli e il suo compagno di lavoro erano riusciti ad approdare. Il primo risultato consisteva nella ricostituzione di uno ‛ stemma codicum ' plausibile: supponendo un archetipo di mano aretina già infarcito di errori, gli editori avevano potuto ordinare i 39 manoscritti a loro noti in due grandi famiglie α e β con la famiglia α divisa in due gruppi a e b e il gruppo a in due sottogruppi d e f, quest'ultimo base prima e importante della vulgata. Il secondo risultato era segnalato dalla costruttiva reazione degli editori verso lo stato precario dei manoscritti e dal conseguente loro sforzo di restituzione congetturale di un centinaio e più di punti controversi del Convivio. Paragonata all'edizione di Oxford, curata dal Moore, e fondata su lezioni composite scelte arbitrariamente dall'editore, era naturale che il nuovo testo, manifestazione di fede lachmanniana, dati i tempi, notevole, apparisse al P. come uno dei più convincenti e coerenti prodotti metodologici di quella scuola fiorentina di cui egli era stato chiamato da anni a fare parte.
Degli scritti del P. esiste una minuziosa bibliografia compilata dal Folena e inclusa nella raccolta di saggi Lingua e letteratura, Venezia 1957, parte I, pp. IX-CXLIII; il che ci esime dal riprodurre l'elenco degli studi danteschi. L'unica opera di saggi danteschi pubblicata in vita dal P. è Poesia e storia sulla D.C. - Studi critici, Napoli 1920 (rist. a c. di G. Folena e P.V. Mengaldo, Vicenza 1965). Nel volumetto Il dare e l'avere fra i pedanti e i geniali, Genova 1923, è contenuto il saggio Dantofobi, dantisti, dantomani e metodo storico.
Bibl. - P. Rajna, E.G.P., in " Bull. " XXVII (1910) 130 ss.; C. Battisti, E.G.P., in " Rivista della Società Filologica Friulana " (1923) 6; M. Barbi, E.G.P., in " Studi d. " V-VI (1923) 163-166; P. Pancrazi, Un critico, in " Il Secolo " (Milano) 25 maggio 1923. I seguenti articoli in memoria di E.G.P. apparvero ne " L'Idea Nazionale " del 3 aprile 1923: F. Ercole, Il nazionalista; F. Maggini, Il dantista; S. Morpurgo, Il critico; A. Schiaffini, Il glottologo; E. Pistelli, Ricordi. Si vedano inoltre: L. Valle, D. e la Liguria. Studi e Ricerche, Milano 1925, 285-443 (contiene la completa bibl. dantesca del P.); B. Terracini, E.G.P., in " Arch. Glottol. Ital. " XXI (1927) 60 ss.; V. Rossi, E.G.P., in Scritti di critica letteraria, III Dal Rinascimento al Risorgimento, Firenze 1930, 473 ss.; A. Schiaffini, E.G.P., in D. e la Liguria, cit., 236-248; ID., il saggio introduttivo a Lingua, poi in Mercanti. Poeti. Un maestro, Milano-Napoli 1969, 163-190; G. Folena, E.G.P. (Nel centenario della nascita), in " Lettere Italiane " XIV (1962).