Schoedsack, Ernest B. (propr. Schoedsack, Ernest Beaumont)
Regista cinematografico statunitense, nato l'8 giugno 1893 a Council Bluffs (Iowa) e morto ivi il 23 dicembre 1979. La sua opera costituì una continua esplorazione del cinema in quanto centro propulsivo dell'immaginario collettivo popolare. In tal senso il cinema d'avventura e il genere fantastico rappresentarono per S. la dimensione visiva e narrativa privilegiata grazie alla quale concretizzare utopie di viaggi e di visioni impossibili, di esperienze al limite e di vissuti incredibili. Senza mai subire le convenzioni dei generi, ma padroneggiandole con consapevolezza narrativa, S. studiò le qualità sintetiche dell'immagine cinematografica, scoprendone la capacità di portare alla luce i luoghi oscuri del rimosso e dell'inconscio collettivo anche attraverso la semplice messa in scena per es. di corse a perdifiato in foreste misteriose, o di fughe ininterrotte in Paesi sconosciuti.
Dopo aver lavorato come operaio, ancora molto giovane S. venne assunto da Mack Sennett come operatore. Quest'esperienza lo spinse durante la Prima guerra mondiale a unirsi all'esercito con il ruolo di fotografo. Rimasto in Europa cominciò a viaggiare per documentare i rivolgimenti dell'epoca. In uno di questi viaggi conobbe a Vienna Merian C. Cooper, con il quale diede vita a un sodalizio artistico e produttivo che si concretizzò nelle coregie dei due documentari esotici definiti natural dramas dagli autori, Grass: a nation's battle of life (1925), girato in Persia e incentrato su una comunità di pastori nomadi, e Chang (1927), sulle tracce di una famiglia di contadini del Siam, e poi del film d'avventura The four feathers (1929; Le quattro piume), alla cui realizzazione collaborò Lothar Mendes, e di King Kong (1933). Nei film di questo periodo S. fece coincidere la propria esperienza di operatore con il recupero delle forme narrative del romanzo esotico popolare di fine Ottocento. È il caso di Rango (1931), un documentario girato nelle giungle di Sumatra, di The most dangerous game (1932; La pericolosa partita, noto anche come Caccia fatale) e di The monkey's paw (1933). Nel film del 1932 l'avventura e le mitologie del vampiro e del mad doctor s'intrecciano utilizzando una vorticosa caccia all'uomo in un'isola sperduta come trasfigurazione fantastica delle paure e delle aspirazioni di un'intera epoca. S. crea una fitta rete di ombre e chiaroscuri che concorrono a instaurare un'atmosfera onirica e perturbante attraverso cui viene raffigurato il conflitto tra la volontà dell'uomo di conoscere e allo stesso tempo la sua paura di confrontarsi con lo sconosciuto e il diverso. S. ricorre agli effetti flou dell'immagine ritenendoli l'invenzione visuale più adatta per raccontare un mondo segnato da dubbi, incertezze, sogni, speranze. King Kong ancor più acutamente, prosegue questo discorso. La grande scimmia che osserva dall'alto la metropoli, è la proiezione inconscia e oscura della neonata civiltà delle immagini, il simulacro visivo che tenta di comprendere il mutamento incessante del reale, l'abbattimento delle distanze, la compressione del tempo e dello spazio. Scoperta dalla troupe di un regista su un'isola tropicale e trasportata a New York, la scimmia rappresenta l'irruzione del 'mostro' nella realtà quotidiana della metropoli che determina la crisi e la distruzione della normalità, oltre a denunciare la precarietà dello sviluppo tecnologico. Al tempo stesso l'uso degli effetti speciali (la scelta di ricorrere al trasparente, la creazione di sei modelli di gorilla e di un busto meccanico alto 7 metri) implica la consapevolezza in S. e Cooper del cinema come luogo privilegiato del fantastico, macchina spettacolare della visione e della costruzione dell'incubo. Alcuni anni dopo, nel 1976, sarebbe stato realizzato un remake del film diretto da John Guillermin e prodotto da Dino De Laurentiis, che, pur rinnovando il successo di pubblico dell'originale, ne trascurò la forte carica simbolica puntando essenzialmente sull'elemento catastrofico. In tutta la sua opera successiva ‒ dal seguito di King Kong, The son of Kong (1933; Il figlio di King Kong) al dramma Long lost father (1934) con John Barrymore; dal film storico The last days of Pompeii (1935; Gli ultimi giorni di Pompei) ai due film d'avventura Trouble in Morocco (1937) e Outlaws of the Orient (1937) ‒ S. non cessò di creare scenografie dell'instabilità e di interrogarsi sulle complessità delle illusioni del vivere contemporaneo. Con Dr. Cyclops (1940), infine, questa sorta di teoria del moderno appare tradotta nell'invenzione filmica pura. I processi di miniaturizzazione e di ingigantimento di persone e animali realizzati ancora una volta da uno scienziato pazzo, contengono un'estetica del fantastico che arriva al punto di far coincidere l'ineffabilità del reale con le trame immaginarie del meraviglioso, con i suoi territori dell'imprevisto e del mistero.
S., incorreggibile avventuriero, allo scoppiare della Seconda guerra mondiale, lasciò il cinema per riprendere il suo primo mestiere, quello di fotografo militare. Soltanto nel 1949 tornò un'ultima volta dietro la macchina da presa con un'ennesima variazione sul tema della grande scimmia, realizzando il romantico Mighty Joe Young (Il re dell'Africa), per il quale gli autori degli effetti speciali Ray Harryhausen e Willis O'Brien si aggiudicarono un premio Oscar.
Pur tormentato da gravi problemi alla vista, nel 1952 S. volle dirigere, senza essere accreditato, il prologo del documentario This is Cinerama (Questo è il Cinerama), aggiungendo un nuovo capitolo alla sua lunga riflessione sulle tecnologie e sulla loro importanza per lo sviluppo dello spettacolo cinematografico.
O. Goldner, G. Turner, The making of King Kong. The story behind a film classic, New York 1975; A. Abruzzese, La Grande Scimmia, Roma 1979, pp. 160-70; C.M. Erb, Tracking King Kong. A Hollywood icon in world culture, Detroit 1998.