ERCOLANO (Herculaneum)
Piccola città della Campania, posta a 4 miglia ad oriente di Napoli, lungo le basse pendici del Vesuvio che in quel luogo formava un piccolo promontorio eminente sulla linea del litorale, delimitato, ai due lati, dal letto incassato di due canali di carattere torrentizio (Sisenna, 4, fr. 53: oppidum tumulo in excelso loco propter mare, parvis moenibus, inter duos fluvios infra Vesuvium collocatum); era attraversata nell'antichità, come oggi, dalla grande via litoranea che, lungo il golfo, da Neapolis conduceva per Oplonte a Pompei, e di là a Stabiae e a Nuceria Alfaterna. La grande eruzione di lave fangose del 79 d. C., e la successiva eruzione di lave di fuoco del 1631, rialzando il livello di più di 20 m., adeguando tutte le irregolarità del terreno e ampliando la linea del litorale, hanno mutato profondamente la fisionomia dei luoghi. Su buona parte dell'area dell'antica città si sovrappongono i quartieri più popolosi dell'odierna Resina e nell'area del suburbio, fra molte ville patrizie, sorgono le grandi ville borboniche di Portici e della Favorita. Sebbene annoverata da Cicerone (De lege agr., II, 35, 96) fra i più importanti centri della Campania, deve, come Pompei, la celebrità alle circostanze del suo seppellimento e, soprattutto, alle scoperte di opere d'arte che nel secolo XVIII ne fecero il più ricco centro di scavi archeologici.
Cenno storico. - Secondo la leggenda raccolta da Dionisio d'Alicarnasso (I, 35), Ercolano sarebbe stata fondata da Ercole al ritorno dal suo favoloso viaggio nell'Iberia, il che, al di fuori del mito, equivaleva a farne una città di nome e d'origine greca; e invero nella prima menzione che se ne ha in Teofrasto (314 a. C.) appare sotto il greco nome di ‛Ηράκλεια. Gli avanzi monumentali finora venuti in luce nulla ci dicono del periodo più antico, e nessun resto è finora apparso della cinta murale, dei parva moenia ricordati da Sisenna: solo il suo piano regolatore (vedi più sotto) ci richiama indubbiamente per la sua singolare regolarità e per l'orientazione stessa dei decumani e dei cardines, al piano regolatore di Napoli, e, in base ad esso, si può ritenere che il suo vero e proprio sviluppo urbanistico si sia modellato su quello della vicina grande città greca. Solo parzialmente attendibile è la notizia di Strabone (V, 4, 8, p. 246) che attribuisce il dominio della città prima agli Osci, poi ai Tirreni e ai Pelasgi e, da ultimo, ai Sanniti: certo, come a Pompei, un piccolo centro di popolazioni indigene dové preesistere al suo sviluppo di città; ma fin dalla fine del sec. VI a. C. essa dové cadere sotto l'egemonia dei Greci di Napoli e di Cuma che avevano in loro signoria tutto il litorale della Campania, dalla rocca di Cuma e dall'isola d'Ischia fino all'estremo capo della penisola Sorrentina (Capo Ateneo). Cadde con Pompei, e con essa tutte le altre città della Campania, in potere dei Sanniti, verso lo scorcio del sec. V a. C. È incerto se nella seconda guerra sannitica seguisse le sorti di Napoli (326) o piuttosto quelle di Nocera e di Pompei (307); certo è che nell'ultima riscossa degl'Italici contro Roma, ribelle anch'essa come Pompei e Nola, venne espugnata e vinta da un legato di Silla (89 a. C.), e da quel momento, perduta ogni sovranità, si trasformò in municipio romano ed ebbe forse, al pari di Pompei e di Sorrento, una colonia di veterani dell'esercito sillano. Del periodo sannitico abbiamo poche iscrizioni in dialetto osco; del periodo romano il materiale epigrafico venuto saltuariamente in luce dagli scavi (Corp. Inscr. Lat., X, 1401-77), ci offre la documentazione delle principali magistrature municipali e di un collegio di augustali; ricorrono inoltre varie iscrizioni onorarie di personaggi imperiali e del patriziato della città, e alcune relative a monumenti pubblici.
Il terremoto del 63 d. C. dové avere per Ercolano le stesse e forse anche più gravi conseguenze che ebbe per Pompei: edifici pubblici e privati dovettero essere fortemente danneggiati e richiedere radicali opere di restauro o di completo rifacimento. Una testimonianza esplicita se ne ha nel Corp. Inscr. Lat., X, 1406, che ricorda il restauro fatto eseguire da Vespasiano al tempio della Mater deum in seguito alla rovina prodotta dal terremoto. Ma, a somiglianza di Pompei, Ercolano non aveva ancora finito di riparare i gravi danni della catastrofe del 63, quando sopravvenne l'estrema rovina con l'eruzione del 79 d. C. (24 agosto).
Molto si è discusso sulle circostanze del seppellimento di Ercolano, che si presentano assai diverse da quelle di Pompei. Mentre cioè a Pompei si ebbe, per effetto della pioggia di lapilli e di ceneri trasportate dal vento, una stratificazione regolare di materiale eruttivo di 5-6 m. al massimo, ad Ercolano, invece, una massa informe di materiali eruttati e accumulatisi intorno al cratere e sulle pendici, trascinata dall'ingente volume delle acque che si accompagnano sempre alle grandi convulsioni vulcaniche, discese come un immenso torrente fangoso lungo la ripida china del monte, travolgendo e sommergendo ogni cosa; prima le ville a monte della città e poi la città stessa vennero sommerse da questa spaventosa alluvione che, dopo aver invaso e colmato ogni vuoto, trasformò totalmente l'aspetto dei luoghi: solidificandosi, questa lava di fango, che per il suo stato semiliquido era riuscita a penetrare in ogni spazio, ha assunto l'aspetto di un banco compatto, che, senza raggiungere la durezza del tufo, presenta gli stessi caratteri di una formazione tufoide (pappamonte), ineguale di composizione e di resistenza, a seconda delle varie correnti della colata. L'altezza del terreno di colmatura, che si è venuto così accumulando sulla città sepolta, compreso il terreno vegetale, va dai 12 ai 25 e più metri. Per quanto tali circostanze di seppellimento siano messe in dubbio da varî studiosi che attribuiscono la distruzione di Ercolano alla stessa pioggia di ceneri e di lapilli che seppellì Pompei, e l'indurimento del terreno a semplice precipitazione di carbonato di calcio, militano contro tale ipotesi i dati positivi dello scavo: e cioè, l'aver trovato smantellato il culmine della scena e della cavea del teatro, con gran parte delle statue travolte; il rinvenirsi dei frammenti di una stessa scultura a grande distanza lungo le vie trasformate in torrenti; il trovare ambienti coperti a vòlta, riempiti fino al sommo per la massa fluida che vi penetrò dai lucernarî superiori. Ma se tali circostanze hanno reso e rendono sommamente difficoltoso lo scavo, hanno peraltro servito a preservare la città da manomissioni e da ricuperi dopo la catastrofe, a conservare le parti alte degli edifici e inoltre, grazie alla quasi impermeabilità del terreno, a preservare il legno, che nell'edilizia antica aveva importanza assai maggiore di quel che non si possa giudicare dagli avanzi di altre città.
Storia delle scoperte. - Per quanto la memoria di Ercolano non fosse del tutto scomparsa nella tradizione dotta locale (un accenno se ne ha nell'Arcadia del Sannazzaro, 1504), e non si possa escludere che gli abitanti della soprstante Resina, nello scavo delle fondazioni o nella perforazione di pozzi, non si siano più volte imbattuti negli edifici della sepolta città, tuttavia la prima importante scoperta di opere d'arte si deve al principe austriaco D'Elboeuf, che nel 1709, facendo scavare un pozzo nel bosco dei frati alcantarini, s' imbatté nel muro della scena del teatro; dal 1709 al 1716 l'Elboeuf poté a suo agio perpetrare il primo grave crimine ai danni del più insigne e del meglio conservato monumento di Ercolano; i preziosi marmi del rivestimento e delle architetture della scena vennero tolti, e un buon gruppo di statue, fra cui le cosiddette grande e piccola Ercolanese del museo di Dresda, andò disperso fra varî musei. Scavi regolari s'iniziarono il 1° ottobre 1738 e da quell'anno la storia degli scavi ercolanesi può dividersi in 4 periodi. 1. 1738-1765: fu questo il periodo più eroico e più fortunato degli scavi. Promossi e patrocinati da Carlo di Borbone, vennero diretti (tranne una breve interruzione dal 1740 al 1745) dall'ingegnere militare spagnolo Alcubierre, che ebbe per. suoi assistenti prima l'architetto svizzero Carlo Weber, più diligente e accurato dello stesso Alcubierre, e poi, nell'ultimo anno, Francesco La Vega. Lo scavo si praticò per cunicoli sotterranei, con difficoltà immense, vinte soprattutto per merito delle maestranze locali (i cosiddetti "cavamonti"): le notizie di essi furono date con rapporti giornalieri o settimanali, ma senza, disgraziatamente, il necessario corredo delle piante e dei rilievi, troppo limitati e inadeguati. Si completò l'esplorazione del teatro, si raggiunse, se non l'area del Foro, uno degli edifici pubblici (la cosiddetta Basilica), si rintracciarono più templi e da ultimo, fra il 1750 e il 1765, si esplorò la Villa dei papiri, ricuperando tutto il suo favoloso tesoro di sculture e la biblioteca. Eppure, nonostante questi risultati, poco o nulla si ricava da questi scavi per la conoscenza della città: abbandonati e ricolmati i cunicoli con il cavaticcio delle terre, richiusi i pozzi di discesa e di aerazione, non restò che la pianta schematica delineata dal La Vega e la pianta con molta diligenza eseguita da Carlo Weber della Villa dei papiri. 2. Dopo un'interruzione di 63 anni, gli scavi si ripresero nel 1828 con il lodevole intento di farli all'aperto, così come si praticava ormai da più tempo a Pompei, e continuarono senza gran fervore fino al 1835, mettendosi in luce a stento parte di due isolati di case, fra cui il peristilio della cosiddetta Casa di Argo. 3. Abbandonati nel 1855, gli scavi furono di bel nuovo ripresi 1875; ma non si misero in luce che l'inizio di altre due insulae e il fronte meridionale delle Terme. I lavori si arrestarono sotto la barriera delle case di Resina e dinnanzi all'opposizione dei proprietarî delle terre. 4. Fallito il tentativo, fatto nel 1904 dall'archeologo inglese Carlo Waldstein, di dare agli scavi di Ercolano un'organizzazione internazionale, gli scavi, auspice Benito Mussolini, sono stati nel maggio 1927 ripresi a cura del governo italiano con il fermo proposito di dare ad essi la stessa continuità degli scavi di Pompei. Programma dei nuovi lavori è innanzi tutto quello di scoprire buona parte dell'abitato della città, estendendosi gradatamente verso le zone meno esplorate dai cunicoli dei precedenti scavatori; in un secondo tempo di esplorare le zone suburbane, notoriamente ricche di ville di carattere patrizio. L'organizzazione data ai recenti scavi, e i risultati già conseguiti in questi primi anni, fanno ormai di Ercolano uno dei centri archeologici di maggiore e più vitale interesse per lo studio della città antica.
La città e i monumenti. - Mentre si attende allo scoprimento sistematico dell'abitato di Ercolano, i soli elementi che abbiamo per giudicare del piano d'assieme della città e del suo carattere edilizio, sono da un lato la pianta schematicamente delineata dal La Vega di tutta la zona esplorata per cunicoli, dall'altro la parte già scavata e in corso di scavo delle insulae meridionali.
La pianta delineata dal La Vega ci presenta solo una parte dell'antica città: otto insulae a sud di una grande arteria, nella quale è ovvio riconoscere il decumanus maximus; a nord di quest'arteria, in un grande edificio si volle da alcuni riconoscere la piazza del Foro, da altri, più ragionevolmente, una Basilica o altro pubblico luogo di convegno; a nord-ovest sorgono alcuni templi e il Teatro, e oltre la linea d'un torrente, che segnava il confine della città, la grande Villa suburbana dei papiri; a oriente, in un grande peristilio quadrato si volle vedere, senza giustificato motivo, parte di un'altra villa; a sud-est, a 150 m. circa dal limite delle insulae segnate dal La Vega, s'incontrano i primi sepolcri: dal lato verso il mare le case, come risulta chiaramente dai recenti scavi, giungevano fin all'estremo ciglio del piccolo promontorio, seguendone il margine e sporgendo sul pendio con terrazze e verande, sostenute da poderose opere di muri a terrapieno. Da tre lati adunque i confini della città ci sono sufficientemente noti; del tutto incerto è invece il confine verso monte, perché non sappiamo ancora quanti degli edifici segnalati lungo l'erta di Pugliano appartengano all'abitato urbano e quanti al suburbio. La parte esplorata per cunicoli comprende cinque cardines e due decumani, che si tagliano ad angolo retto; quasi certamente almeno un terzo decumano, come nella pianta di Napoli, doveva passare a nord attraverso altre 8 insulae. E come a Napoli, i decumani, da nord-ovest a sud-est, corrono parallelamente alla linea del litorale; i cardines invece, da nord-est a sud-ovest, perpendicolarmente al lido. Così la città si svilupperebbe presumibilmente per alcuni (Beloch) in un'area di cui gli assi misurerebbero m. 370 × 320 (un terzo circa dell'area di Pompei); ma non conoscendo ancora l'estensione e la configurazione del piccolo promontorio su cui la città sorgeva, ogni calcolo è prematuro. Certo è che Ercolano ci si presenta con una pianta assai più regolare di quella di Pompei; e lasciando da parte la discussa questione di influenze etrusche o greche nel piano regolatore delle città campane, è innegabile che essa ci rispecchia, per orientazione e distribuzione, la pianta di una citta sicuramente greca di origine e di impianto, cioè di Napoli. Il terreno fortemente acclive su cui Ercolano sorgeva ci si rivela dal forte pendio dei cardines; l'elevazione pur notevole del colle ci è attestata anche dal fatto che dei tre cardines finora scoperti, uno solo scendeva con ripida china verso il lido; gli altri si arrestavano sul ciglio abruptus della collina, terminando con un fognone per lo smaltimento delle acque torrenziali. Delle vie finora note, solo il decumano massimo, ha l'aspetto di grande arteria, e dal suo definitivo scoprimento è soprattutto da attendersi la rivelazione del vero aspetto e della fisionomia edilizia, architettonica ed economica di Ercolano; esso doveva corrispondere alla grande via di transito fra Napoli e le città più meridionali della Campania e tutto il mezzogiorno della penisola.
Dei monumenti scoperti nei vecchi scavi, solo in parte visibile è ora il Teatro, fatto edificare dal duumviro L. Annius Mammianus Rufus e costruito dall'architetto P. Numisius (Corp. Inscr. Lat., X, 1443 segg.). La pianta, grazie ai cunicoli che lo sezionarono in più punti, ci presenta un edificio di grande eleganza architettonica e di singolare preziosità artistica e decorativa, quale non si attenderebbe da una piccola città come Ercolano; del diametro di m. 53 (alquanto minore di quello di Pompei che è di m. 62), aveva la cavea sostenuta da due ordini di colonnati di 19 archi ciascuno; stucchi e pitture decoravano gli ambulacri; sulla cresta del muro si ergevano statue di personaggi municipali e statue equestri in bronzo dorato: anche più riccamente ornato era il prospetto della scena, con statue collocate nelle nicchie e negli archi dal lato interno ed esterno. Degli altri edifici pubblici, vennero messi in luce la cosiddetta Basilica a nord del decumano, con le statue dei Balbi e con le pitture murali di Teseo, di Ercole e Telefo, e di Chirone e Achille, giudicate fra i più eccellenti documenti della pittura antica, e forse anche un macellum, se le indicazioni incerte e imprecise meritano fede. Fra i 5 templi che gli scavatori borbonici battezzarono per tali, abbiamo certamente quello della Mater deum, chiaramente riconosciuto per l'iscrizione che accenna alla ricostruzione fattane da Vespasiano dopo il terremoto del 63. È in via di esecuzione lo scavo delle Terme delle quali, nel periodo 1869-1875, non si mise in luce che il cortile della palestra.
Già nel quartiere meridionale, messo in luce dai nuovissimi scavi, l'aspetto di Ercolano si presenta assai diverso da quello di Pompei; i prospetti delle case sono muniti di finestre assai più frequenti; balconi e tettoie si seguono ininterrottamente; le botteghe appaiono più rade; mancano del tutto finora programmi e iscrizioni murali che così singolarmente caratterizzano la vita municipale di Pompei. La vita di Ercolano ci si presenta più tranquilla. Senza un vero e proprio sviluppo industriale, senza il ricco retroterra della valle del Sarno che faceva di Pompei una città eminentemente mercantile, Ercolano, posta com'era sulla china del Vesuvio, con il solo prodotto dei floridi vigneti che ammantavano le pendicì dei colli all'intorno, in luogo che già Strabone decantava per la sua salubrità, ma troppo vicina a Napoli per svolgere una propria funzione economica, doveva essere residenza più serena e più signorile, meglio adatta per gli ozî di una dimora suburbana.
Ed Ercolano ci ha dato con la Villa dei papiri, detta impropriamente dei Pisoni, la più fastosa villa che l'antichità ci abbia conservata e che solo il sottosuolo di una città sepolta dal Vesuvio poteva rivelarci ancora intatta; era la dimora di un patrizio romano, di fine gusto e di larga ed eclettica cultura, che amava circondarsi nella sua villa di tutta una galleria di opere d'arte in bronzo e in marmo e di un'intera biblioteca di scritti di filosofia epicurea, che, con altri pochi latini, formavano un complesso di ben 1814 papiri (se ne sono svolti finora 585 interamente e 209 in parte). Al quartiere signorile di alloggio (non finito di esplorare), era collegato verso ponente un grandioso peristilio, e a questo seguiva una lunga terrazza (solarium) aperta verso il mare e terminante con una rotonda di belvedere; uno sviluppo lineare di non meno di 250 metri occupava tutto il fronte di questa grandiosa abitazione suburbana. Disgraziatamente, al difuori della pianta delineata dal Weber, poco o nulla sappiamo delle strutture e della decorazione parietale; lo scavo dovrà qui affrontare lo strato di lava di fuoco che si sovrappose alle colate di fango dell'anno 79.
Scoperte fortuite avvenute per il passato nella costruzione delle reali scuderie di Portici, e nelle parti più alte dell'abitato di Pugliano (a monte di Resina), attestano chiaramente che su tutte le amenissime pendici del suburbio ercolanese, si distendeva una fitta corona di ville signorili: è la frequens amoenitas orae di cui Plinio associava il ricordo con la descrizione della spaventosa eruzione.
V. tavv. VII-X.
Bibl.: La vasta letteratura sugli scavi e sulle scoperte ercolanesi si trova già sistematicamente raccolta in F. Furcheim, Bibliografia di Pompei, Ercolano e Stabia, 2ª ed., Napoli 1891; E. Gabrici, in Boll. d'arte Minist. P. I., I (1907), pp. 23-25; E. R. Barker, in The Class, Review, XXII (1908), p. 2 segg.; G. P. Zottoli, Bibliografia ercolanese, in Bollettino del R. Istituto di archeologia e storia dell'arte, II (1928), pp. 47-81.
Basterà qui ricordare come lavori di carattere generale: J. Beloch, Campanien, 2ª ed., Breslavia 1890, pp. 214-238, tav. VIII; Ch. Waldstein e L. Shoobridge, Herculaneum. Past, present and future, Londra 1908 (vers. ital. di A. Cippico, Torino 1910); A. Mau, Pompeji in Leben u. Kunst, 2ª ed., Lipsia 1908, p. 528 segg.; E. R. Barker, Buried Herculaneum, Londra 1908; Gall, Herculaneum, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VIII, coll. 532-547.
Fonti principali per la storia e per l'illustrazione delle scopete sono: A. Gori, Symbolae litterarieae, voll. I e II, Firenze 1748-1751 e Roma 1751-1752; M. Venuti, Descrizione delle prime scoperte dell'antica città di Ercolano, Roma 1748; Cochin e Bellicard, Observations sur les antiquités d'Herculanum, Parigi 1754; C. Rosini, Dissertat. isagog. ad Herculanensium voluminum explicationem, Napoli 1797; A. de Iorio, Notizie sugli scavi di Ercolano, Napoli 1827; infine le pubblicazioni ufficiali dei monumenti e dei papiri a cura della Reale accademia ercolanese, in due serie: Le antichità di Ercolano, voll. 9, Napoli 1755-1792, e Herculanensium voluminum quae supersunt: Collectio prima, voll. 11, Napoli 1763-1855; Collectio altera, voll. 11, Napoli 1862-1877; Collectio tertia, I, Milano 1914; v. anche D. Comparetti e G. De Petra, La villa ercolanese dei Pisoni, Torio 1883. - Sulla storia delle scoperte fino al 1875, vedi M. Ruggiero, Storia degli scavi di Ercolano ricomposta sui documenti superstiti, Napoli 1885; per il programma dei nuovi scavi, v. A. Maiuri, in Atti della R. Accademia Pontaniana, 1927.