JANNACCI, Enzo
Vincenzo (Enzo) Jannacci nacque a Milano il 3 giugno 1935. I genitori gli imposero il nome del nonno, che, di origine macedone, era emigrato in Puglia, dove aveva conosciuto la nonna di Enzo, per poi stabilirsi a Bari alla vigilia della Grande Guerra. Il padre, Giuseppe, era un ufficiale dell’aeronautica di stanza all’aeroporto Forlanini di Milano: partecipò alla Resistenza, e i suoi racconti avrebbero inspirato alcune canzoni di Enzo. La madre, Maria Mussi, casalinga, era di Como.
Terminato nel 1954 il liceo scientifico «Leonardo da Vinci», si diplomò in armonia, composizione e direzione d’orchestra al Conservatorio di Milano. Il 23 novembre 1967 si sposò con Giuliana Orefice: dall’unione nacque nel 1972 il figlio Paolo che sarebbe diventato musicista, accompagnando il padre in non poche esibizioni e iniziative.
Nel 1967 conseguì la laurea in medicina all’Università statale di Milano. Già da studente universitario Jannacci aveva iniziato ad alternare l’attività di studio a quella di musicista e compositore. A metà degli anni Cinquanta aveva cominciato a frequentare gli ambienti del cabaret milanese, dove il suo talento fu apprezzato. Nel 1962 il regista Filippo Crivelli lo scritturò per lo spettacolo Milanin Milanon, in scena al Teatro Gerolamo con Tino Carraro e Milly (Carolina Mignone): lo spettacolo viene riconosciuto come la prima consacrazione della vita artistica di Jannacci. Crivelli ne avrebbe parlato come di un artista «del calibro di Charlie Chaplin»; Luciano Bianciardi lo avrebbe definito «un poeta di poesia schietta sostenuta da un amore per la povera gente»; Cesare Zavattini lo avrebbe considerato un «esponente del neorealismo nella canzone d’autore». Qualche anno più tardi Umberto Eco accolse nei libri della Bompiani L’incompiuter (1974), scritto da Jannacci in collaborazione con Beppe Viola. Nei suoi primi approcci musicali Jannacci si avvicinava al jazz, esibendosi in locali milanesi come il Taverna Mexico, l’Aretusa e il Santa Tecla. Nel corso di quelle prime esperienze suonò con musicisti come Stan Getz, Gerry Mulligan, Chet Baker e Franco Cerri. Nel 1956 fu ingaggiato come tastierista nel gruppo Rocky Mountains (la voce solista era Tony Dall’Ara). Nello stesso anno Adriano Celentano, allora agli esordi, gli propose di entrare nel suo complesso, i Rock Boys. Con quella band Jannacci partecipò, il 7 maggio 1957 al Palazzo del Ghiaccio di Milano, al primo Festival italiano di rock’n’roll: il gruppo interpretò brani come Ciao ti dirò, che lanciò Celentano verso la celebrità. Nella formazione del «molleggiato» suonava, alla chitarra, Giorgio Gaber: con lui Jannacci, alla fine del 1958, formò il gruppo “I due corsari”, che debuttò nel 1959 con alcuni 45 giri registrati per la Dischi Ricordi. L’esperienza proseguì anche l’anno dopo con altri due 45 giri intitolati Come facette mammete e Non occupatemi il telefono. Quelle registrazioni segnarono la nascita di uno dei sodalizi più prolifici della canzone italiana d’autore.
Dopo i primi dischi con Gaber, Jannacci debuttò come solista: brani quali L’ombrello di mio fratello (1963) e Il cane con i capelli (1963) facevano intuire quello stretto rapporto tra canto e comicità surreale che sarebbe diventato un tratto caratteristico del suo stile. A questo filone si affiancarono subito testi più romantici e introspettivi, come Passaggio a livello, delicata canzone d’amore che Luigi Tenco interpretò nel 1961. Nel 1963 Jannacci seguì come pianista la tournée di Sergio Endrigo e iniziò ad esibirsi al Derby, storico locale milanese. Su quel palcoscenico conobbe Dario Fo, Cochi e Renato.
L’ambiente che Jannacci frequentava fra fine anni Cinquanta e primi anni Sessanta era animato da un particolare fervore teso a rompere con la tradizione melodica e a percorrere vie innovative in campo musicale. A Genova, città di frontiera prossima alla Francia, autori come Fabrizio De André, Gino Paoli, Bruno Lauzi e Luigi Tenco si facevano interpreti di una nuova sensibilità; dalle parti di Bologna Francesco Guccini e Lucio Dalla inauguravano la via emiliana al rinnovamento della canzone. Era l’inizio della rottura con la canzonetta italiana del dopoguerra, di quella tradizione cioè costruita su motivi orecchiabili e su testi adatti sia ad allontanare e dimenticare i problemi quotidiani, sia a diffondere sentimenti di tranquillità e di rassicurazione: a partire dal 1951 il Festival di Sanremo fu la vetrina di tale tradizione. In questo contesto Gaber e Jannacci diventarono i paladini della via milanese al rinnovamento della canzone italiana. Uniti da un profondo legame e da una fertile vena artistica, i due cantanti divergevano però nei ritratti sociali dei personaggi tratteggiati nelle loro canzoni. Mentre i personaggi di Gaber provenivano dal mondo della borghesia, quelli di Jannacci – non a caso definito «il cantore dei poveri cristi» – erano gli umili e i diseredati delle periferie milanesi. L’appartenenza dei personaggi delle canzoni di Jannacci a questa categoria sociale è confermata anche dal ricorso, in alcune sue canzoni, al dialetto, non come lingua della nostalgia ma come certificazione di appartenenza alla categoria degli ultimi. Ad accentuare il distacco di tali soggetti che non masticano l’italiano e faticano a star dietro alla modernizzazione del boom economico, Jannacci ricorre a una chiave comica e surreale che li fa apparire assolutamente fuori dal mondo reale. In tal senso Jannacci segnò il ritorno del «mondo alla rovescia», affollato di irregolari, artisti, saltimbanchi, insomma di quell’universo dei cantastorie nel quale la categoria dell’‘umanità’ si opponeva alla modernità a tutti i costi. In definitiva Jannacci portava sulla scena la realtà di quanti erano contrari a chi invocava la modernizzazione come chiave esclusiva del progresso: le frasi strampalate e senza senso, le cantilene e le filastrocche che spesso precedevano o accompagnavano le sue canzoni rientravano in quella che è stata definita schizo-music (Manfredi, 1980), espressione del rifiuto all’adattamento in un mondo in via di rapido cambiamento.
La sensibilità del cantautore milanese per questi temi favorì il rapporto con Fo, sul comune terreno della canzone politica, un genere che in Jannacci mescola i toni drammatici al surrealismo tipico del cabaret coevo. Questo timbro è presente fin dalla prima raccolta registrata nel 1964: La Milano di Enzo Jannacci. Formato da pezzi interamente in dialetto, il disco contiene tra l’altro uno dei suoi capolavori riconosciuti, El portava i scarp del tennis, racconto della vita sciatta e modesta di un barbone milanese che si conclude con la morte nell’indifferenza della gente («L’an trovaa sota a un muc de carton, / l’an guardaa che ’l pareva nisun, / l’an tucaa che ’l pareva che ’l durmiva, / lasa stà che l’è roba de barbon»). Sullo stesso tema Jannacci ritornò in canzoni come L’artista («L’artista vestito male, / senza cravatta, senza gilet, / fa niente se non mangiava, / andava in giro pareva un re!») o Un nano speciale («Ma un nano normale. / Un nano sempre in bolletta. / Un nano sempre vestito male. / Un nano che non piaceva alle donne»), pubblicate nel 1968. Altre figure di irregolari sono i personaggi della malavita comeL’Armando (1964), in un interrogatorio di polizia accusato d’aver ucciso un amico sbattendolo giù dal tram. Oppure Faceva il palo nella banda dell’ortica (1966): la canzone, che sembra ricalcare la banda sgangherata dei Soliti ignoti di Mario Monicelli, narra la storia di una banda di furfantelli che affida a un suo membro il compito di fare il palo e badare che non arrivi un poliziotto. Il palo però è cieco e sordo («ha visto nulla, ma in compens l’ha sentii nient, / perché a vederci, non vedeva un’autobotte, / però a sentirci, ghe sentiva un accident!»), sicché non si avvede dell’arrivo della polizia, che arresta tutti i componenti della banda senza accorgersi del palo. Rimasto anche l’indomani nella postazione assegnata, i passanti lo scambiano per un mendicante e gli danno l’elemosina.
Le storie di povertà furono tra le tematiche prevalenti nella lunga carriera del cantautore, assieme ai brani di impegno politico: un timbro, quest’ultimo palese in testi come Sei minuti all’alba (scritto con Dario Fo; nell’omonimo album del 1966), nel quale Jannacci affronta il tema della Resistenza. La canzone, dedicata al padre e a quanti avevano preso parte a quell’esperienza, parla del breve tempo che separa il partigiano, catturato dai tedeschi, dalla fucilazione: una sorta di “lettera di un condannato a morte della Resistenza” in note musicali. In Soldato Nencini, presente nello stesso album, Jannacci racconta le difficoltà d’integrazione di un soldato meridionale in una caserma del Nord, dove ai problemi di ambientamento con i commilitoni si aggiunge la lettera della fidanzata che gli annuncia la volontà di separarsi. Il soldato Nencini, «semianalfabeta e per giunta terrone», diviene il simbolo del razzismo e del senso di emarginazione patito dalle popolazioni meridionali costrette a vivere al Nord. L’evocazione della nebbia, che il soldato vede per la prima volta in vita sua, mette in risalto una delle immagini che più dovevano colpire l’emigrato all’arrivo nelle città del Nord: il senso di spaesamento e sconcerto provato al primo contatto con la nuova realtà urbana era spesso accresciuto da quel fenomeno atmosferico sconosciuto, che faceva apparire la città d’arrivo come appartenente a un altro pianeta. La nebbia, dunque, come metafora del senso di estraniamento delle popolazioni sradicate.
Nel 1968 Jannacci registrò il singolo Ho visto un re, canzone famosa di Fo (la musica fu composta da Paolo Ciarchi ma registrata sotto il nome di Omicron, pseudonimo di Ernesto Esposito), tratta dallo spettacolo Ci ragiono e canto. È un’ironica presa di posizione nei confronti dei potenti, i cui interessi confliggono con quelli della gente comune. A primo ascolto il pezzo si presenta come un ironico nonsense: in realtà la canzone, se per la sua orecchiabilità svettò nelle classifiche, contiene metafore a sfondo politico. Tant’è che divenne uno dei brani simbolo della contestazione studentesca assieme a Vengo anch’io – No, tu no. Il ritornello di quest’ultima canzone (Vengo anch’io) suona come un’invocazione respinta dal coro (No, tu no), a simboleggiare in quel rimando di parole il tipico personaggio che rifiuta di sentirsi escluso e chiede, ma invano, di poter partecipare alla vita di tutti gli altri. Due strofe della canzone vennero rimosse dal testo per motivi di censura: una era riferita alla dittatura del generale congolese Mobutu, l’altra alla tragedia dei minatori italiani morti sotto le macerie a Marcinelle l’8 agosto 1956; un tema, quest’ultimo, sul quale Jannacci tornò poi con Sfiorisci, bel fiore, canzone dedicata ai morti in miniera, registrata nel 1965 e reinterpretata negli anni da Mina, Gigliola Cinquetti, Pierangelo Bertoli e Francesco De Gregori.
L’esordio di Jannacci coincise con gli anni del boom economico. In quel contesto temi quali la Resistenza, i diseredati e gli emarginati rischiavano di impallidire agli occhi di una modernizzazione improntata all’ottimismo. La pubblicità di una trasmissione televisiva come Carosello – l’insegna di un inarrestabile progresso messo alla portata di chiunque – rischiava di far dimenticare le storture del presente e di obnubilare un passato di ristrettezze e privazioni. In questo quadro, con le sue canzoni Jannacci rammentava che non tutti parlavano l’italiano, che parecchi strati della popolazione non erano toccati dai benefici del miracolo economico, e che la Resistenza aveva posto le premesse per un mondo migliore non ancora realizzato. I personaggi del miracolo economico di Jannacci sono gli stessi che sul piano letterario venivano evocati da autori come Pier Paolo Pasolini o Luciano Bianciardi. Se nella canzonetta italiana del dopoguerra cuore sta in rima con amore, in Jannacci va a braccetto con dolore, e se l’ottimismo a tutti i costi pervase il palco di Sanremo, nelle rime strampalate di Jannacci emergevano soprattutto sacrifici e privazioni. Come in Vincenzina e la fabbrica (1974), che descrive lo squallore e l’emarginazione dell’emigrato dal Sud. Il tema delle contraddizioni del miracolo economico vide Jannacci in prima fila anche nel cinema, nell’episodio Il frigorifero del film Le coppie, diretto da Monicelli (1970): Jannacci vi interpreta la parte di un immigrato sardo che, a costo di grandi sacrifici, compera a rate un frigorifero che però non è in grado di pagare; per saldare il debito la moglie si prostituisce. Di storie così è costellata la vita di fabbrica degli anni Sessanta, come in Prendeva il treno (1964), che registra il colloquio fra un uomo e una donna che «S’enn conosciuti a la catena di montaggio»; o come Andava a Rogoredo(1964; «Amori tragici, amori non consumati illusioni: no, davvero…»). Gli amori di Jannacci, sbocciati fra i pendolari che fanno la spola tra la periferia milanese e le fabbriche del miracolo economico, hanno tutti un triste epilogo; o se l’hanno lieto, nessuno se ne accorge, perché i «poveri cristi» fanno parte della moltitudine anonima descritta in La mia gente (1970): «La mia gente, la mia gente muore e nessuno se ne accorge»; personaggi che «li han lasciati accoppare dietro a una ciminiera». Evidente in questa canzone, e peraltro dichiarato, è il debito che Jannacci contrae con Jacques Brel. La lezione degli chansonniers francesi fece da sfondo comune al rinnovamento della canzone italiana. L’influenza di Brel e Georges Brassens, Boris Vian e Charles Trenet non va còlta solo nell’opera di divulgazione che in Italia ne fecero vari interpreti nostrani: più profonda fu l’influenza da loro esercitata nel rinnovare stilemi consunti e introducendo categorie e concetti fino ad allora assenti, in primo luogo quello relativo al tempo del reale.
A Brel si ispirò anche Gaber, che dello chansonnier francese sfruttò soprattutto il senso di delusione e disincanto insito in tanti suoi motivi: il brano Che bella gente (1971) è appunto la versione italiana di una canzone di Brel, Ces gens-là, riscritta da Herbert Pagani. Ma l’omaggio di Jannacci a Brel precedette quello di Gaber e andò al di là della mera traduzione italiana del testo: La mia gente di Jannacci è infatti del 1966. La canzone, più che suonare come un ricalco del titolo di Ces gens-là, che Brel aveva appena registrato, è un dichiarato omaggio di Jannacci al cantautore francese, al quale lo legava non solo una profonda affinità ma una evidente similarità nello sguardo sulla povera gente.
Anche in tali caratterizzazioni andrà ricercato il perché del non facile rapporto tra Jannacci e la televisione. Sul piccolo schermo il cantautore milanese stentò ad affermarsi, tant’è che nel 1961 il suo primo provino venne rifiutato. Nei primi anni la televisione italiana esprimeva ordine e compostezza. Le norme emanate nel 1954 dal primo amministratore delegato della RAI, Filiberto Guala, prevedevano che il piccolo schermo riproponesse i buoni sentimenti che animavano il «focolare domestico»: povertà, emarginazione, storie di dolore e sacrifici, tradimenti di coppia, tutto quanto potesse turbare la tranquillità delle famiglie italiane doveva rimanere fuori dal tubo catodico. In più, la presenza fisica di Jannacci sulla scena si giocava su tre registri che oltre la parola e la musica chiamavano in causa la mimica corporea. Per i supervisori della televisione provocavano sconcerto le posture sgangherate, l’agitarsi da marionetta, la chitarra imbracciata all’altezza del collo, la voce spaesata di Jannacci in confronto alla sobrietà e alla decenza della maggior parte dei cantanti. Di più, il contenuto politico di tante sue canzoni, puntato com’era sul malessere sociale, non era gradito all’establishment della dirigenza televisiva.
Deluso per queste prime esperienze televisive, tra il 1968 e il 1971 Jannacci soggiornò a varie riprese prima in Sudafrica e poi negli Stati Uniti per terminare gli studi in medicina, abbandonati dopo la laurea. Anche nei periodi di maggior successo Jannacci non trascurò mai del tutto la professione medica. Anzi, le esperienze di lavoro nel mondo della sanità ispirarono alcuni dei motivi più fortunati. In Quelli che (1975), scritta a quattro mani con Beppe Viola e più volte rimaneggiata e ricomposta (fu utilizzata anche come accompagnamento dei titoli di testa nel film Pasqualino Settebellezze di Lina Wertmüller, 1976), Jannacci stigmatizza la cialtroneria del medico della mutua e la ricaduta dei suoi errori sulla salute della gente comune; in Natalia (1979) lancia un vero e proprio atto di accusa contro i baroni della medicina, le lunghe liste di attesa negli ospedali e gli interventi chirurgici sbagliati.
Jannacci rientrò in Italia nel 1971. Negli anni immediatamente successivi accentuò l’impegno cinematografico e teatrale, quasi a voler sottolineare il distacco dal mondo della canzone, che non gli aveva lesinato qualche amarezza presso il grande pubblico e sul piccolo schermo. Firmò due pièces teatrali, Saltimbanchi si muore (1969, da cui trasse nel 1980 un varietà televisivo) e Il poeta e il contadino (1973, poi utilizzato per un varietà televisivo di Cochi e Renato). Continuò poi a calcare il palcoscenico fino a recitare accanto a Gaber e Paolo Rossi in una personalissima rivisitazione di Aspettando Godot di Samuel Beckett (1989-1991). Al cinema, dove aveva esordito negli anni Sessanta firmando colonne sonore per Monicelli, Lina Wertmüller, Steno e Salvatore Samperi fra gli altri, partecipò a pellicole come La vita agra di Carlo Lizzani (1964), L’udienzadi Marco Ferreri (1971), dove comparve nel ruolo del protagonista, e Il mondo nuovo di Ettore Scola (1982), fino all’ultima apparizione nella Bellezza del somaro, regìa di Sergio Castellitto (2010).
Ritornò con maggiore assiduità alla canzone a partire dai primi anni Ottanta, quando sembrò aprirsi una nuova fase grazie all’amicizia e collaborazione con Paolo Conte, col quale realizzò, nel 1979, due brani di grande successo, Sudamerica e Bartali (nell’album Foto ricordo). Riprese allora anche l’attività concertistica, non senza polemizzare contro la televisione e affermando pubblicamente nel 1981 durante un concerto a Verona trasmesso dalla RAI che «la televisiun la t’endormenta cume un cujun». Nel 1985 pubblicò L’importante, disco che passò quasi inosservato ma che sulla lunga durata venne poi ricordato tra i suoi più significativi. Mai prona ai facili gusti musicali e alle scontatezze, nel corso degli anni la carriera di Jannacci ha scontato una sostanziale diffidenza da parte dello star system, raccogliendo viceversa un pieno e ripetuto riconoscimento da parte della critica. Nel 1989 partecipò per la prima volta al Festival di Sanremo con Se me lo dicevi prima, sulla lotta contro la droga; nel 1991 ci ritornò con La fotografia e ricevette il premio della critica; nel 1994 presentò con Paolo Rossi un brano dissacrante come I soliti accordi; nel 1998, sua quarta partecipazione al Festival, ottenne il premio della critica per Quando un musicista ride. Fra gli altri riconoscimenti, nel 2000 ebbe il Premio Ciampi alla carriera.
Negli ultimi anni della carriera Jannacci tornò a concentrarsi sulla passione d’origine: il jazz. Dopo sette anni di assenza dal mercato discografico pubblicò con l’etichetta Ala Bianca un nuovo CD, realizzato in collaborazione con il figlio Paolo, Come gli aeroplani. Nel 2006 realizzò l’album The best 2006, un doppio CD che contiene, riarrangiati da Paolo, 35 brani della sua lunga carriera.
La diffidenza da parte della televisione pubblica sembrò cessare negli anni Novanta. È pur vero che nei decenni precedenti Jannacci aveva collaborato episodicamente: nel 1973 aveva ideato il varietà Il Poeta e il Contadino; nel 1974 aveva scritto la sigla di Canzonissima E la vita, la vita, cantata da Cochi e Renato; nel 1977 era stato autore e interprete della sigla di Secondo voi?, secondo te?... che gusto c’è?; nel 1980 aveva ideato il varietà Saltimbanchi si muore (1980); nel 1983 aveva condotto il programma Gran simpatico e composto la sigla della Domenica sportiva, Linea bianca. Ma soltanto alla fine degli anni Ottanta iniziò un rapporto più disteso col mezzo televisivo. Nel 1988 partecipò a Trasmissione forzata, che segnò il ritorno di Fo e Franca Rame alla televisione, dopo che erano stati allontanati da Canzonissima nel 1962. Nel 1991 la RAI trasmise L’importante è esagerare, una serie di otto puntate dedicata alla carriera di Jannacci. Il 26 settembre 1993 su RAI 3 esordì, condotta da Fabio Fazio, la trasmissione Quelli che il calcio: il titolo derivava da Quelli che…, la canzone del 1975 scritta da Jannacci con Viola, e dal cantautore stesso arrangiata per la trasmissione televisiva. Il 19 dicembre 2011 Fazio condusse uno speciale dedicato a Jannacci: vi parteciparono alcuni degli amici più cari di una lunga vita professionale, fra loro Fo, Ornella Vanoni, Teo Teocoli, Roberto Vecchioni e Massimo Boldi. Nell’ultima parte della trasmissione comparve anche Jannacci che interpretava una nuova versione di Quelli che… Si trattò di una delle ultime apparizioni pubbliche di Jannacci, che aveva già iniziato a diradare i concerti anche a causa dell’età ormai avanzata.
Morì a Milano, a 77 anni, il 29 marzo 2013 per un tumore di cui soffriva da anni. La bara è stata esposta nel foyer del teatro Dal Verme; il corpo è stato tumulato nel famedio del cimitero monumentale.
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