Presso i Greci, ἐνϑουσιασμός era la condizione di chi era invaso da una forza o furore divino, cioè della pitonessa, dell’indovino, del sacerdote, nonché del poeta, che si pensava ispirato da un dio. Il sostantivo si trova la prima volta in Platone, che con esso indica in un primo tempo la condizione del poeta, che non saprebbe render ragione di ciò che dice, perché ispirato dal dio, poi, con significato mistico-teologico, quella dei filosofi, che disprezzando le cure materiali vivono della divina verità. Riprendono quest’ultima concezione i neoplatonici, per i quali l’e. costituisce la via verso la perfetta visione o estasi (➔).
Nel Rinascimento G. Bruno pone l’e. alla base della sua religione della natura. Successivamente fu considerato dagli empiristi espressione di dogmatismo e di intolleranza, ma l’e. ricevette piena rivalutazione con A.A.C. Shaftesbury (A letter concerning enthusiasm, 1708) che, distinguendolo dal fanatismo e dalla superstizione, sue forme degenerate, lo pose alla base delle più alte manifestazioni della cultura umana. Su questa linea di distinzione fra un ‘e. ragionevole’ e un ‘e. fanatico’ si mantennero sostanzialmente gli illuministi e I. Kant e, fra i contemporanei, K. Jaspers.