CUCCIA, Enrico
Nacque a Roma il 24 novembre 1907 da Pietro Beniamino e da Aurea Ragusa.
Il nonno paterno, Simone, era un noto avvocato siciliano di origini greco-albanesi, eletto in Parlamento dal 1882 per quattro successive legislature. Il padre, su consiglio e con l’appoggio influente di Guido Jung, agli inizi del secolo si trasferì a Roma, dove fu assunto al ministero delle Finanze. Esperto di questioni fiscali e amministrative, collaborò anche con il giornale romano Il Messaggero, allora controllato dall’Ansaldo dei fratelli Perrone.
Come la sorella, Enrico frequentò le scuole della capitale e, terminato il liceo al Tasso, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza; si laureò col massimo dei voti nell'anno accademico 1929-30 sotto la guida di Cesare Vivanti con una tesi sui listini di Borsa e la speculazione. Già alla fine degli anni Venti iniziò un triennio di tirocinio come cronista presso il Messaggero, che gli valse l’iscrizione all’albo dei giornalisti professionisti.
Dopo oltre un anno trascorso a Parigi presso Sudameris, istituto controllato dalla Banca commerciale italiana e dalla francese Paribas, nel febbraio 1931 presentò domanda di assunzione alla Banca d’Italia, probabilmente con il sostegno di Jung.
Nello stesso anno prese servizio presso la delegazione londinese della Banca d’Italia, diretta allora da Joe Nathan, dove fu assunto in pianta stabile come suo assistente nel luglio 1932. Nel giugno seguente il ministro delle Finanze Jung lo volle accanto a sé, nonostante la giovane età e la modesta qualifica, alla Conferenza economica di Londra. L’esperienza di lavoro a Parigi e Londra gli permisero di perfezionare la conoscenza del francese e dell’inglese, cui aggiungeva quella dello spagnolo. Rientrato da Londra trascorse alcuni mesi a Parigi lasciando la Banca d’Italia nel giugno 1934 per trasferirsi all’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), ancora una volta grazie ai buoni uffici di Jung.
Alla direzione dell’IRI lavorò con Donato Menichella, affinando le proprie competenze tecniche nelle ispezioni delle società controllate (soprattutto bancarie) e, in particolare, nei controlli contabili. Risalgono a quegli anni la conoscenza e la frequentazione di Pasquale Saraceno e Tullio Torchiani.
Nel 1936, passato dall’IRI al sottosegretariato agli Scambi e Valute, fu inviato in Etiopia con il compito di contenere le spese dell’amministrazione coloniale e contrastare la gestione irregolare della valuta. Il rigore del suo intervento fu all'origine dell’ostilità delle autorità militari e dei circoli coloniali. Nell’aprile 1937 il viceré d’Etiopia, il generale Rodolfo Graziani, coinvolto indirettamente nelle inchieste sull’uso irregolare della valuta condotte da Cuccia e dall’altro funzionario del ministero Giuseppe Ferlesch, ne richiese la sostituzione al sottosegretario agli Scambi e Valute, Felice Guarneri, con un funzionario meno intransigente. Le insistenti pressioni di Graziani, che gli rimproverò un «atteggiamento da Padre eterno della valuta» (cit. in Gerbi, 1990) indussero infine Guarneri a richiamarlo in Italia, pur riconoscendogli però correttezza e legittimità di azione; nel luglio 1937 fu ricevuto a palazzo Venezia e personalmente elogiato da Mussolini, come si legge in una nota di cronaca del Popolo d’Italia, «per il lavoro compiuto in circostanze particolarmente difficili».
Il 27 ottobre 1938 fu assunto alla Banca commerciale italiana (Comit) come funzionario addetto alla direzione centrale, ottenendo la carica di direttore dal gennaio 1939. In questa veste fu incaricato di seguire il Servizio estero, allora guidato da Giuseppe Zuccoli che vantava una lunga esperienza di direzione delle affiliate estere, come l’importante Sudameris; fu affiancato dal di poco più giovane Carlo Bombieri, reduce da esperienze di lavoro all’estero, già conosciuto al liceo e con il quale in quegli anni strinse amicizia. Dall’ottobre 1938 seguì la gestione e la riorganizzazione dell’estesa rete estera Comit e dalla fine degli anni Trenta fu accolto nel circolo di Raffaele Mattioli, pur essendo raramente invitato alle famose serate in via Bigli. A questo stesso periodo risalgono la conoscenza e l’amicizia con due figure che sarebbero state a lungo per lui un riferimento centrale: Ugo La Malfa, dal 1939 posto da Mattioli a capo dell’Ufficio studi della Comit, e Adolfo Tino, avvocato, entrambi antifascisti e semiclandestinamente impegnati in attività cospirative.
Nel giugno 1939, dopo un breve fidanzamento, sposò la figlia di Alberto Beneduce, Idea Nuova, che conosceva e aveva frequentato sin dai tempi del ginnasio. Dall’unione nacquero Pietro Beniamino, Aurea Noemi e Silvia Lucia.
Nel marzo 1943, sempre affiancato da Bombieri, malgrado i passati contrasti con Zuccoli e con il capo del personale Eugenio Da Bove, divenne condirettore centrale addetto al Servizio estero della Comit. Durante la guerra poté quindi approfittare delle missioni all’estero per conto della banca per realizzare delicate operazioni di collegamento tra i gruppi della resistenza antifascista – nel 1942 aderì al Partito d’azione, probabilmente auspici La Malfa e Tino – e gli Alleati. Nel maggio 1942, con la copertura delle missioni per conto della banca, si recò a Lisbona per trasmettere, attraverso il diplomatico americano George Kennan, al conte Carlo Sforza, noto esponente dell’antifascismo negli Stati Uniti, il testo approntato da La Malfa e Tino contenente la cosiddetta «pregiudiziale repubblicana», pubblicato dal New York Times alla fine di giugno.
Dopo l’8 settembre 1943 fece parte dei dirigenti della banca, tra i quali anche Bombieri, che Mattioli portò con sé a Roma nell’attesa della liberazione alleata. Nel novembre 1944 ancora Mattioli lo volle al suo fianco, allorché il sottosegretario agli Esteri Giovanni Visconti Venosta formò una delegazione di tecnici da inviare negli Stati Uniti per fornire informazioni sulle reali condizioni dell’Italia. La delegazione – composta, oltre che da Mattioli e Cuccia, da Quinto Quintieri, già ministro delle Finanze con Badoglio, dal direttore generale della Confindustria Mario Morelli e dal diplomatico di carriera Egidio Ortona – fu impegnata a Washington in una serie di colloqui con le autorità statunitensi. Nell’estate precedente il viaggio americano, Cuccia aveva intanto avviato con Mattioli la definizione di un progetto di banca per il credito industriale che, entro i limiti della legislazione bancaria vigente, consentisse di offrire finanziamenti a medio termine alle imprese. Durante la missione americana il progetto rimase en veilleuse per essere ripreso subito dopo la liberazione dell’alta Italia. Nella primavera 1945 si procedette infine alla presentazione del progetto presso il governatore della Banca d’Italia, Luigi Einaudi, la cui riluttanza fu per gradi superata ottenendo infine le autorizzazioni che portarono, il 10 aprile 1946, alla nascita della Banca di Credito Finanziario-Mediobanca, con sede in via Filodrammatici a Milano e un miliardo di lire di capitale. Cuccia ne divenne direttore generale.
Mediobanca si configurava essenzialmente come un istituto di credito industriale, la cui operatività dipendeva dalle filiali delle tre banche di interesse nazionale (BIN) – Credit (Credito Italiano), Comit e Banco di Roma – sia per la raccolta (attraverso i libretti di deposito), sia per la prima selezione della clientela industriale da affidare alle cure dell’istituto. Cuccia volle tuttavia, sin dall’inizio, rivendicare per Mediobanca una piena autonomia in materia di valutazione e concessione dei meriti di credito, anche a costo di frizioni con le banche socie. Nei primi dieci anni di attività Mediobanca operò come istituto di credito a medio termine e, anticipando scelte destinate a essere una costante, fornì finanziamenti soprattutto a grandi imprese (per oltre due terzi dei crediti concessi). Ai finanziamenti a medio termine, mediante sconti e, successivamente, in conto corrente, l’istituto di via Filodrammatici affiancò la direzione dei sindacati per il collocamento delle emissioni obbligazionarie e, seppur inizialmente in minor misura, azionarie. Potendo contare sulla vasta rete degli sportelli delle tre BIN, sin dai primi anni Cinquanta Mediobanca fu in grado di assolvere la funzione di 'ponte' tra le grandi imprese e il mercato dei capitali, allora caratterizzato da una certa disponibilità di fondi. Nel 1949 lo statuto di Mediobanca fu modificato così da includere l’assunzione di partecipazioni azionarie tra le operazioni attive.
Tra il 1955 e il 1956 Cuccia impresse all'istituto una direzione non esplicitamente contemplata nei progetti originari e un profilo differente da quello di semplice istituto di credito a medio termine. Nel 1956 varò un aumento di capitale, da 3 a 4 miliardi di lire, per adeguare i mezzi alla crescita delle operazioni prospettando i due settori di intervento dell’istituto: «operazioni tipicamente a medio termine» e «operazioni per promuovere e agevolare la costituzione e lo sviluppo di imprese, sia con il ricorso al mercato mobiliare, sia con capitali forniti direttamente dalla Banca» (Mediobanca, Relazione del consiglio di amministrazione al bilancio del 1956, p. 13). L’allargamento delle funzioni di Mediobanca verso il merchant banking acquistò così senso compiuto.
Con la partecipazione al capitale dei soci esteri l’istituto di via Filodrammatici mirava a instaurare relazioni durevoli con i principali gruppi senza limitarsi a finanziarne gli investimenti, ma affiancandosi alla direzione e alla proprietà nelle decisioni strategiche: in tal modo Cuccia ritenne di poter dare a Mediobanca un inserimento nella vita economica del paese sufficientemente ampio e profondo in relazione alle capacità e competenze accumulate nell’erogazione di finanziamenti a medio termine.
La svolta impressa da Cuccia alla struttura operativa dell’istituto con l’aumento di capitale fu completata dall’ammissione alla quotazione in Borsa delle azioni di Mediobanca, dal marzo 1956, e dall’allargamento della proprietà a importanti soci stranieri e privati. L’ingresso nel capitale di investitori stranieri fu propiziato da André Meyer di Lazard Frères & Co. di New York, conosciuto nel 1955 al rientro da un viaggio a New York dove Cuccia e Tino si erano recati alla ricerca di soci americani. La Lazard Frères di Meyer rilevò nel 1955 una sia pur modesta quota del capitale, insieme alla statunitense Lehman Brothers. Nel 1958 alla Lazard di New York e alla Lehman si aggiunsero la tedesca Berliner Handels-Gesellschaft, la finanziaria belga Sofina e la Lazard Brothers di Londra. L’ingresso di istituzioni finanziarie internazionali di così alto profilo aveva un duplice vantaggio per Mediobanca: le apriva la possibilità di accesso ai migliori mercati finanziari con partner di peso e le apportava un rilevante, per quanto intangibile, capitale di conoscenze e relazioni.
Contestualmente, a tutela dell’autonomia di Mediobanca da improprie pressioni esterne fu messo a punto un primo patto di sindacato di blocco tra le banche azioniste nel dicembre 1955.
Nell’aprile 1958, aumentato ulteriormente il capitale a 6 miliardi di lire e collocato oltre il 30% delle azioni sul mercato, il primo patto di sindacato fu sciolto in anticipo e ricostituito con l’allargamento, per il complessivo 3,75% del capitale, alla Lazard Frères, alla Lazard Brothers di Londra, alla Lehman, alla Sofina e alla Berliner Handels-Gesellschaft.
Con il patto di sindacato del 1958 le tre banche di interesse nazionale, designando tre membri della direzione del sindacato su cinque, mantenevano il controllo di Mediobanca. Il patto di sindacato di Mediobanca, in cui il 5% del capitale in mano ai privati era di fatto equiparato alla quota maggioritaria detenuta dalle banche pubbliche, fu concepito non tanto per proteggere Mediobanca da eventuali pressioni da parte delle tre BIN, quanto piuttosto per evitare intromissioni improprie da parte degli azionisti pubblici, vale a dire dall’IRI.
I nuovi indirizzi strategici non mancarono di suscitare perplessità in Mattioli, che le espresse in via riservata – pur senza mai renderle pubbliche – a Cuccia, domandando «in termini sereni e non brutali», come si legge nella minuta di una sua lettera del 1961, «nell’interesse di chi [fosse] amministrata Mediobanca»: per Mattioli, «la partecipazione Mediobanca delle BIN non [era] un impiego di portafoglio» poiché l’istituto era stato inteso «come uno strumento delle BIN» (Arch. storico di Intesa Sanpaolo, Archivio Banca commerciale italiana, Carte Mattioli) stesse, mentre le decisioni di Mediobanca relative alle concessioni di credito erano state prese in piena autonomia, senza aderire alle richieste di alleggerimento delle partite immobilizzate talvolta avanzate dalle banche socie.
Con gli aumenti di capitale di metà anni Cinquanta e l’avvio delle attività di banca d’affari Cuccia poté sviluppare l’istituto di via Filodrammatici secondo ritmi fin lì inimmaginabili: dai 10 miliardi di lire di crediti industriali erogati nel 1950 si passò ai 96 miliardi del 1960. La partecipazione di Mediobanca a grandi imprese si estese sino a comprendere Montecatini, SADE (Società adriatica di elettricità), Bastogi, Assicurazioni generali, Fondiaria, Finsider e Finelettrica, Pirelli, FIAT, SNIA (Società nazionale industria applicazioni), SIP.
Le partecipazioni azionarie furono assunte secondo uno schema di relativa semplicità ma anche di massima efficacia orientando Mediobanca all’acquisizione di pacchetti non troppo rilevanti quantitativamente, ma assai significativi negli assetti proprietari dei vari gruppi, anche mediante la partecipazione ai sindacati di blocco delle imprese. Ne derivò il rafforzamento della funzione di banca d’affari, ovvero di partner di lungo termine dell’impresa cui si offrivano i servizi collaterali di consulenza e assistenza tecnica e finanziaria per le operazioni di finanza straordinaria, per i riassetti organizzativi e per le ristrutturazioni. Il sistema delle partecipazioni – spesso incrociate – rinsaldava così i legami tra banca e impresa in una prospettiva di relazioni preferenziali durevoli. E nella stessa logica rientrò la partecipazione dei maggiori gruppi industriali nella compagine proprietaria di Mediobanca, sancita dall’ingresso in consiglio di Leopoldo Pirelli nel 1958 e di Gianni Agnelli nel 1962.
La domanda di finanziamenti rivolta all’istituto dai grandi gruppi privati si fece consistente all’inizio degli anni Sessanta, quando la disponibilità della Borsa si ridusse significativamente. Da quel momento Mediobanca intervenne con sempre maggiore frequenza e misura nella riorganizzazione dei grandi gruppi privati, promuovendo fusioni, razionalizzazione degli impianti e ristrutturazione delle imprese. Dai primi anni Sessanta Cuccia divenne il principale punto riferimento delle famiglie e dei gruppi di controllo delle maggiori imprese private italiane. Con la nazionalizzazione dell’industria elettrica nel 1963 le possibilità di finanziare gli onerosi progetti di investimento nei grandi impianti petrolchimici aumentarono notevolmente. Mediobanca poté anzitutto guidare la SADE verso la fusione con la Montecatini, in grave affanno per l’elevato indebitamento (1964). Di lì a poco gli fu affidato il compito di studiare il progetto di fusione della Montecatini con la Edison – la maggiore fino allora mai realizzata in ambito industriale in Italia – portata a compimento all’inizio del 1966. Anche in quel caso si trattava di far confluire l’enorme liquidità degli indennizzi della Edison nelle esauste casse della Montecatini.
La fusione diede vita alla Montedison, un gruppo con circa 700 miliardi di lire di capitale e oltre 170 stabilimenti, che non fu tuttavia in grado di armonizzare le strutture organizzative delle due società preesistenti in un assetto funzionale ai complessi compiti gestionali: stabilimenti chimici, impianti minerari, istituti di ricerca, imprese alimentari e grande distribuzione, istituti di credito e compagnie di assicurazione. Le crescenti difficoltà dell’industria chimica e la mancata ristrutturazione di Montedison peggiorarono nell’arco di pochi anni la posizione di quello che era divenuto ormai il secondo gruppo industriale privato dopo la FIAT. Per arginare le perdite e razionalizzare alcune produzioni chimiche su scala nazionale Cuccia si fece sostenitore della scalata alla Montecatini, tra il 1967 e il 1968, da parte dell’Ente nazionale idrocarburi (ENI) di Eugenio Cefis, nonostante ciò comportasse un consistente allargamento della sfera di controllo delle imprese pubbliche. Sul piano industriale la scalata era giustificata dall’opportunità di riorganizzare gli stabilimenti chimici dei due gruppi, progetto condiviso dall'allora governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, e dal ministro delle Partecipazioni statali, Giorgio Bo. Cuccia fu il protagonista meno visibile, ma non meno rilevante, della scalata dell’ENI e, a lui, i gruppi rappresentati nel sindacato di blocco della Montecatini affidarono il compito di mediare tra pubblico e privato con la riproposizione di fatto degli equilibri esistenti nel patto di sindacato della stessa Mediobanca.
Le tormentate vicende della Montedison dei primi anni Settanta lo videro al centro degli accordi tra azionisti pubblici e privati per l’indisponibilità dei soci privati a intervenire con risorse fresche con cui ripianare le perdite e tentare il rilancio. Proprio mentre Cuccia e Cefis, divenuto presidente, avviavano la riorganizzazione delle società che permettevano il controllo della Montedison, ossia la Bastogi e l’Italpi, Mediobanca fu chiamata a difendere la Bastogi dalla scalata messa in atto dal discusso finanziere siciliano Michele Sindona per poter espugnare, dopo la conquista della Centrale, la Italmobiliare dei Pesenti, e per questa via le banche controllate. La scalata di Sindona, da alcuni apprezzata per l’adozione di strumenti innovativi come l’offerta di pubblico acquisto (OPA) – Cesare Merzagora, allora presidente delle Assicurazioni generali, cedette il pacchetto di azioni Bastogi detenuto dalla compagnia – fu fermata con il sostegno decisivo di Carli e con la neutralità formale degli Agnelli.
Negli anni Settanta alla guida di Mediobanca Cuccia, cattolico praticante, era divenuto il riferimento della cosiddetta finanza laica e delle grandi imprese private, distante dai partiti politici, malgrado la personale frequentazione con La Malfa, e ostile a un’ulteriore espansione dell’impresa pubblica, per quanto critiche fossero le condizioni di molte aziende dell’area privata. Per questo non poté disconoscere la complessa matrice, proprietaria e istituzionale a un tempo, di Mediobanca definendosi nel maggio 1978, dinanzi alla Commissione finanze del Senato, «un centauro, metà pubblico e metà privato» (Senato della Repubblica, VII Legislatura, Commissione programmazione economica, bilancio, partecipazioni statali, Indagine conoscitiva sul finanziamento delle imprese industriali in Italia, 30 maggio 1978, resoconto stenografico, p. 581)
La centralità di Mediobanca derivava proprio dalla peculiare posizione dell’istituto – «metà pubblico e metà privato» – in un’economia mista qual era quella italiana, dalla specificità e dalla qualità professionali dall’esperienza e dalle competenze acquisite, dai saldi legami internazionali, rafforzati dall’ottima reputazione goduta presso i banchieri europei e americani. La visione di Cuccia, il cui giudizio sulle qualità dei ceti dirigenti dell’economia e della politica era sovente negativo, si reggeva sull’idea che l’economia italiana avesse necessità di un’istituzione finanziaria capace di preservare le poche grandi imprese assicurandone la stabilità degli assetti proprietari più che rendendone contendibile il controllo.
Nella prima metà degli anni Settanta la struttura finanziaria delle imprese italiane, afflitte da una sensibile perdita di competitività, si deteriorò ulteriormente per l’innalzamento degli oneri dell’indebitamento. Di fronte alle difficoltà finanziarie delle imprese, che un sistema bancario ingessato non era in condizione di fronteggiare, Mediobanca disponeva di risorse, derivanti dall’ottima redditività e dalle emissioni obbligazionarie, e di specifiche professionalità e competenze tecniche nella ristrutturazione delle aziende. Nell’industria chimica l’assistenza tecnica e finanziaria di Mediobanca, sostenuta dalla partecipazione azionaria, interessò la Montedison e la SNIA. Dopo la prima parziale ristrutturazione e ripresa – centrata su dismissioni e piani di razionalizzazione impiantistica – ottenuta da Cefis intorno alla metà degli anni Settanta, la Montedison, ripiombata in grave crisi, avviò, sotto la guida di Mario Schimberni, un risanamento destinato a compiersi dopo la privatizzazione della società nel 1981. Anche in questa occasione Cuccia fu il promotore dell’operazione coinvolgendo tramite la Gemina i maggiori gruppi privati italiani: gli Agnelli (FIDIS), i Pirelli (Pirellina), gli Orlando (SMI), i Bonomi (Invest). La ricapitalizzazione e il riassetto proprietario furono studiati da Mediobanca quale premessa per la successiva razionalizzazione, anche in questo caso imperniata, come già durante la presidenza Cefis, sulla dismissione di alcune produzioni e sulla riorganizzazione delle società chimiche (Acna, Ausimont, Erbamont, Farmitalia, Himont, Montefibre, Montepolimeri) e delle società finanziarie e di servizi nella Iniziativa Meta, cui fece seguito la cessione della SNIA alla FIAT (1983). Il nuovo patto di sindacato si avvalse della Gemina, riorganizzata come holding di controllo, cui si affidò anche il salvataggio della Rizzoli nel 1984.
Il risanamento e il rilancio della Montedison seguì l’altra grande partita giocata da Cuccia in quegli anni: la ristrutturazione della FIAT. Per tutti gli anni Ottanta l’azienda torinese era stata appesantita da una elevata conflittualità, dalla permanenza di incoerenze organizzative e dagli oneri finanziari di un debito in aumento. Una presenza, pur modesta, di Mediobanca nel capitale della FIAT risaliva al 1965 e i rapporti di Cuccia con Gianni Agnelli alla fine degli anni Cinquanta, estesi presto a Meyer. Esauritesi le capacità di autofinanziamento della FIAT sullo scorcio degli anni Sessanta, Mediobanca aveva sostenuto un accordo, fallito, promosso da Meyer tra l'azienda torinese e la francese Citroën per la creazione del primo gruppo automobilistico europeo. Alla ricerca di risorse fresche per le depauperate casse della società, nel novembre 1976 l’industria torinese annunciò, a sorpresa, la firma di un accordo con la Lybian Arab Foreign Investment Company (Lafico), ovvero con il governo libico di Muhammar Gheddafi per un investimento azionario di 415 milioni di dollari, corrispondente al 9,7% del capitale. L’operazione fu seguita sino alla conclusione da Cuccia.
La discussa partecipazione dei libici rientrava tra le operazioni con cui Mediobanca aveva cercato di connettere i gruppi privati italiani ai mercati esteri, sia con accordi internazionali che permettessero di salvaguardare la dimensione e la competitività delle imprese italiane – come già tentato con la Citroën per la FIAT e con qualche risultato con la Dunlop per la Pirelli tra il 1970 e il 1981 – sia attraverso la raccolta di capitali da parte di investitori esteri. L’apporto dei capitali libici non fu tuttavia sufficiente a risanare e rilanciare il gruppo torinese. La ristrutturazione vera e propria dovette attendere l’autunno 1980, quando con la 'marcia dei quarantamila' Cesare Romiti assunse la leadership della gestione dell’impresa automobilistica. Secondo lo stesso Romiti, proprio in quell’anno la funzione di Cuccia divenne determinante per la casa torinese, grazie alla messa a punto di una strategia di rilancio, convogliando il gruppo su una forte struttura di comando affidata a Romiti. Sempre per Romiti (2004, p. 112), Cuccia prese le decisioni sui «settori da rafforzare», anzitutto l’auto, e sui «rami deboli» da tagliare, come la Teksid, «rivede[ndo] personalmente tutti i conti» e riorganizzando la finanza d’impresa con i successivi prestiti obbligazionari e aumenti di capitale. Negli anni Ottanta tra FIAT e Mediobanca si creò un rapporto di collaborazione, e per certi versi di dipendenza, tale da far parlare di simbiosi. Per la FIAT Cuccia si occupò delle trattative, poi fallite nel 1985, con la Ford per la costituzione di una joint venture europea. Quando nel 1986 la crisi tra Stati Uniti e Libia convinse la FIAT dell’opportunità di far uscire dal capitale gli investitori della Lafico, Cuccia mise a punto il piano generale e seguì le fasi più delicate delle trattative, e Mediobanca concesse all’IFIL (Istituto finanziario italiano laniero) un prestito decennale per riacquistare le azioni allora in mano libica.
Negli anni Ottanta l’istituto di via Filodrammatici fu impegnato anche a sostenere l’Olivetti e la Pirelli. Il ruolo di Mediobanca in Olivetti risaliva al 1960, quando aveva convinto la famiglia a quotare la società in Borsa, poco prima della morte di Adriano Olivetti. Nel 1964, di fronte alle crescenti difficoltà, Mediobanca aveva riorganizzato la proprietà dell’impresa con una cordata di soci esterni alla famiglia: la stessa Mediobanca, l'Istituto mobiliare italiano (IMI), la FIAT, la Pirelli e la Centrale rilevarono quote cospicue dei pacchetti detenuti dalla famiglia. Affidata la presidenza a Bruno Visentini, benché l’Olivetti mostrasse i primi segni di ripresa, nel 1965 Mediobanca e FIAT la indussero a cedere la divisione elettronica alla General Electric – sempre per il tramite della Lazard – facendo uscire la società di Ivrea da un settore promettente, i calcolatori elettronici, ritenuto però da Cuccia inadatto per gli alti investimenti in ricerca richiesti. Ma, alla fine degli anni Settanta l’Olivetti versava nuovamente in difficoltà. Alla ricerca di opportunità imprenditoriali dopo la breve esperienza di amministratore delegato e socio alla FIAT, all’Olivetti approdò Carlo De Benedetti, che si mosse con una certa autonomia da Mediobanca in diverse operazioni realizzate con la società di Ivrea e con la CIR, la holding di famiglia (accordi con la francese Saint-Gobain; successivo ingresso nel capitale Olivetti dell’americana AT&T; acquisto da parte della CIR della Buitoni e della Perugina, in alternativa alla BSN Danone sostenuta da Mediobanca). L’autonomia di De Benedetti sollevò la diffidenza di Cuccia e, come si sarebbe verificato durante il tentativo di scalata del 1986 alla belga SGB (Société générale de Belgique), Mediobanca decise di non intervenire. Sebbene non mancassero quindi i motivi di attrito tra i due uomini, Mediobanca non fece mancare alla CIR il proprio sostegno quando fu tentata la creazione di un polo alimentare con la proposta di acquisto della SME dall’IRI nel 1986, o quando l’Olivetti dovette reperire risorse e stabilizzare la struttura di controllo con i patti di sindacato.
Di gran lunga meno contrastati furono i rapporti tra Mediobanca e la Pirelli, la cui famiglia proprietaria aderì al sindacato dell’istituto sin dalla fine degli anni Cinquanta per divenirne, insieme alla FIAT, un elemento fondamentale. La disponibilità dei Pirelli a seguire le indicazioni di Cuccia fu ricambiata con un appoggio costante: con l’entrata di Mediobanca nella Pirelli & C. nel 1958, con la promozione di tutti gli aumenti di capitale del gruppo, con la messa a punto di quelle operazioni di ingegneria finanziaria capaci di stabilizzare la struttura proprietaria della società mediante un sistema di alleanze che assicurava, pur con un’esigua quota azionaria, il controllo del gruppo alla famiglia Pirelli.
Nel decennio di massima influenza Cuccia dovette affrontare due passaggi delicati: la difesa dell’incolumità personale propria e dei familiari dalle ripetute minacce di Sindona e la difficile privatizzazione di Mediobanca. I rapporti con Sindona non erano stati semplici sin dall’inizio degli anni Cinquanta quando il fiscalista siciliano si era trasferito a Milano, ma, lo scontro tra i due si fece aperto nella seconda metà degli anni Sessanta, con la già ricordata tentata scalata alla Bastogi. Solo dal 1975 Sindona si convinse però che un «complotto» fosse stato ordito da Cuccia e La Malfa per impedirgli di cedere al Banco di Roma la Banca privata italiana e, anzi, imporne la liquidazione coatta. Dalla primavera 1977, con l’appoggio della criminalità italoamericana, Sindona avviò una campagna di violente intimidazioni nei confronti di Cuccia (sul cui uscio di casa esplose un ordigno) e soprattutto dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, il liquidatore della Banca privata italiana.
Le intimidazioni culminarono nell’assassinio di Ambrosoli l’11 luglio 1979. Tuttavia, le pressioni e le minacce a Cuccia continuarono costringendolo a incontri con Sindona a New York e con i suoi emissari a Londra e Zurigo sino al 1980. Per tutelare se stesso e i propri familiari Cuccia decise di non denunciare personalmente (ma lo fece attraverso l’avvocato Alberto Crespi) le minacce ricevute alle autorità giudiziarie né alle forze dell’ordine, una scelta molto discussa in seguito e da lui giustificata con la necessità di guadagnare tempo per «far ragionare gli irragionevoli», come disse nel 1981 dinanzi alla commissione parlamentare sullo scandalo Sindona.
Nel 1982, mentre veniva alla luce l’esistenza dei fondi neri dell’IRI depositati presso Mediobanca, Cuccia fu nominato consigliere anziano dell’istituto di via Filodrammatici e Silvio Salteri, la cui carriera si era interamente compiuta all’interno, ne divenne direttore generale e amministratore delegato, sostituito poi da Vincenzo Maranghi nel 1988.
Nondimeno Cuccia mantenne la medesima funzione di effettiva leadership della banca. Tra il 1984 e il 1985, mentre il presidente di Mediobanca Fausto Calabria si dimetteva per i fondi neri dell’IRI, Cuccia respinse diversi tentativi di insidiare l’autonomia dell’istituto da parte di esponenti della Democrazia cristiana. La proposta di aprire la proprietà di Mediobanca a un nuovo socio estero, Euralux controllata da Lazard, che avrebbe conferito non capitali ma un pacchetto di azioni Generali, naufragò proprio per le resistenze politiche.
L’effettiva autonomia di Mediobanca fu preservata dalla sua privatizzazione nel 1988, conseguita anche grazie all’accorta capacità di negoziazione del nuovo presidente, Antonio Maccanico, nipote di Tino, secondo lo schema di compromesso definito dall’allora presidente dell’IRI, Romano Prodi, di riduzione delle quote detenute dalle banche di interesse nazionale e dell’ingresso nel patto di sindacato – sino a quel momento mantenuto riservato – di nuovi soci privati: oltre ai Pirelli, a Lazard e alla Berliner Handels-Gesellschaft entrarono nell’azionariato gli Agnelli, De Benedetti, le Assicurazioni generali e La Fondiaria (con le quali si realizzava così un intreccio azionario), i Ferrero, i Ferruzzi (attraverso la Fondiaria), i Pesenti, i Ligresti, Pecci, i Marzotto, Stefanel. Conclusa questa fase della privatizzazione, Maccanico lasciò la presidenza dell’istituto a Francesco Cingano, già amministratore delegato e presidente della Comit, mentre Cuccia assunse la presidenza onoraria nel 1988.
La diffidenza, peraltro largamente ricambiata, di Cuccia verso il mondo politico fu all'origine della privatizzazione di Mediobanca e della contestuale cooptazione dei gruppi sino allora outsider rispetto all’istituto: da Raul Gardini, capo del gruppo Ferruzzi e presidente della Montedison dopo l’estromissione di Schimberni, a De Benedetti, propenso a muoversi in proprio, a Giampiero Pesenti, la cui decisione di rivolgersi a Cuccia rompeva con la tradizione familiare di consonanza con la finanza cattolica, fino ai nuovi gruppi, i Ligresti e i Ferrero. Nella ricomposizione degli equilibri promossa da Mediobanca, un ruolo importante svolsero le due compagnie assicurative compartecipate, Generali e Fondiaria. A queste Mediobanca assegnò il compito di assumere partecipazioni strategiche nei sistemi di controllo dei gruppi industriali amici, intervenendo pertanto nelle loro scelte finanziarie. A potenziare il sistema di tutela della proprietà dei gruppi riuniti intorno a Mediobanca, Cuccia rafforzò Gemina chiamando a parteciparvi i gruppi industriali già presenti in Mediobanca, ed ai quali si aggiunsero i siderurgici lombardi Lucchini e Arvedi.
Nei primi anni Novanta l’ottuagenario presidente onorario di Mediobanca, ancora attivo, continuò ad affrontare compiti impegnativi: il tentativo non riuscito di acquisire il controllo del Nuovo Banco ambrosiano (attraverso le Generali e Gemina), il salvataggio della Pirelli che si era impegnata nella fallita scalata alla tedesca Continental suggerita da François Michelin, la crisi del gruppo Ligresti travolto dalle difficoltà giudiziarie, gli affanni industriali della Olivetti di De Benedetti e, infine, il difficile risanamento della Montedison, affidato a Guido Rossi dopo l’uscita dei Ferruzzi (il gruppo Montedison era esposto per più di 31.000 miliardi di lire verso oltre 300 banche: un’operazione che Cuccia paragonò per ordine di grandezza allo smobilizzo attuato dall’IRI tra il 1933 e il 1934).
Con gli anni Ottanta e Novanta la discussione sulla funzione di Mediobanca assunse un rilievo pubblico. Sull’istituto pesavano opinioni diverse, profezie di declino – anche con riferimento all’avanzata età – e giudizi aspramente negativi.
Tutelando esclusivamente le famiglie proprietarie a discapito degli azionisti di minoranza, Mediobanca avrebbe stretto le grandi imprese entro logiche anguste disertando l’impegno nell’innovazione tecnologica e livelli di investimento dei competitori esteri. Anche a causa della visione di Cuccia le maggiori imprese italiane avrebbero sensibilmente perduto competitività e mercati, con effetti negativi sull’intera economia nazionale. Ai giudizi radicalmente negativi si accompagnavano analisi che evidenziavano gli effetti non positivi derivanti dalla posizione dominante assunta da Mediobanca, autentico monopolista nel merchant banking in Italia, o dallo scarso interesse dell’istituto verso le medie imprese.
Alle valutazioni negative, facevano da controcanto analisi più equilibrate, attente alla necessità delle funzioni di consulenza nella corporate finance e alle forme di governo societario delle grandi imprese. Mediobanca sarebbe rientrata nelle peculiarità del modello istituzionale del capitalismo italiano, la cui originalità, più che dalla funzione di 'cavaliere bianco' assolta dall’istituto di via Filodrammatici, sarebbe discesa dall’esiguità della platea delle grandi imprese: la struttura di gruppo della grande impresa italiana e i sistemi di alleanza e coalizione si sarebbero configurati quali assetti storicamente connessi alla relativa arretratezza dell’economia nazionale in chiave di meccanismi autoprotettivi.
La progettualità di Cuccia si estrinsecò in modo innovativo nell’originale formula operativa di Mediobanca, la cui offerta alla clientela spaziava dai finanziamenti alle operazioni sul mercato fino alla partecipazione azionaria. Mediobanca studiò inoltre operazioni e strumenti innovativi, come le emissioni di obbligazioni convertibili in azioni di altre società e le obbligazioni atipiche dell’Enel (dagli eurobond ante litteram del 1965 ai titoli indicizzati della metà degli anni Settanta), introducendo in Italia funzioni inedite (le trading companies con la Intersomer) o nuovi strumenti di analisi delle società, come la revisione contabile con la Reconta (1961), poi ceduta, e le analisi societarie e finanziarie con una società indipendente come la R&S.
Negli anni Novanta Mediobanca rimase il perno di un sistema di alleanze volto a garantire la stabilità della proprietà e del controllo delle grandi imprese private, il cosiddetto 'salotto buono' o la 'stanza di compensazione' degli interessi dei principali gruppi familiari: un sistema imperniato sulla cooptazione piuttosto che sulla contendibilità dei diritti di proprietà e dei poteri di controllo secondo regole di mercato. Per queste ragioni la strategia di Mediobanca veniva considerata negativamente come una barriera all’ingresso di nuovi soggetti e come il principale ostacolo allo sviluppo dei mercati azionari, nonostante fosse la banca, puntualmente, a guidare in Borsa le imprese che puntavano a raccogliervi risorse. Tuttavia, attraverso la selezione di manager, la consulenza per ristrutturazioni e operazioni di finanza straordinaria Mediobanca e Cuccia avrebbero soddisfatto fondamentali esigenze di stabilità delle grandi imprese: il 'quasi monopolio' di Mediobanca derivava, in questa chiave di lettura, dalle eccellenti professionalità in parte ereditate dall’esperienza della banca mista e in parte accumulate in proprio dai primi anni Cinquanta. Ciò costituiva, unitamente alla forte progettualità ed alla visione di insieme di Cuccia, un vantaggio competitivo decisivo, che si andava però riducendo.
Le innovazioni regolamentari e la riforma del sistema bancario dei primi anni Novanta, assieme all’apertura del mercato italiano alle banche d’affari straniere – con la privatizzazione e il riassetto dell’intero sistema bancario – ridussero le prospettive di conservazione della posizione dominante di Mediobanca. Con la nuova legislazione bancaria e con il ritorno alla banca universale si manifestarono, inoltre, frequenti e forti conflitti di interesse tra l’istituto di via Filodrammatici e le banche azioniste, ormai attive direttamente nei medesimi settori. Gli aspri e pubblici contrasti con Merzagora, ex presidente delle Generali, con Schimberni, in occasione delle scalate della Montedison alla Bi-Invest dei Bonomi e alla Fondiaria per trasformare il gruppo in una public company, con il presidente dell’IRI Prodi, allorché si trattò di definire le modalità di privatizzazione delle tre banche di interesse nazionale, furono altrettanti segnali di insofferenze personali e istituzionali verso la strategia e la prassi di Cuccia. La crisi della Rizzoli controllata dalla Gemina e l’indisponibilità dei Marzotto alla fusione tra la HDP (Holding di partecipazioni industriali) e Gemina per la creazione della cosiddetta Supergemina nel 1997, l’insuccesso delle Generali nella scalata alle Assurances générales de France, la perdita della Banca commerciale italiana, acquisita da Banca Intesa di Giovanni Bazoli, e la partecipazione in tono minore alle operazioni di privatizzazione delle imprese pubbliche scandirono, sullo scorcio degli anni Novanta, la progressiva perdita di quel primato di Mediobanca sino allora tenacemente conquistato e difeso.
Negli ultimi anni, uomo di vasta cultura e appassionato bibliofilo, Cuccia rimase fedele alle sobrie consuetudini di una vita, recarsi in ufficio a piedi e senza scorta, la difesa assoluta della sua vita privata, le assidue visite alle librerie milanesi.
A poco meno di novantatre anni morì a Milano il 23 giugno 2000 in seguito a un attacco cardiaco e per sua volontà fu sepolto accanto alla moglie Idea, mancata nel 1996, a Meina sul Lago Maggiore, dove i Cuccia avevano una villa, unica loro proprietà immobiliare.
Tra i suoi contributi si veda Frankfurter Allgemeine Zeitung, 30 aprile 1958 (nota relativa ai soci di Mediobanca); il testo del documento presentato dal ministro delle Partecipazioni statali Clelio Darida relativo ai patti parasociali in Il Sole 24 ore, 31 gennaio 1985; Un esempio inimitabile, in D. Menichella. Testimonianze e studi raccolti dalla Banca d’Italia, Roma-Bari 1986, pp. 289 s.; Ricordo di Raffaele Mattioli, Firenze 1987, pp. 11-18; Associazione per il progresso economico, Sintesi dell’incontro con Marco Tronchetti Provera del 3 ott. 1994; Ravenna, Tribunale, Procura della Repubblica, Verbale di interrogatorio di E. C. da parte del sostituto procuratore Francesco Mauro Iacoviello (Milano, 13 marzo 1995).
Per la messa a punto della biografia si rinvia alla documentazione conservata a Roma presso l'Arch. storico della Banca d’Italia-ASBI, fondo Banca d’Italia, Segreteria particolare, Delegazioni, Corrispondenza Nathan, pratt., n. 3, fasc. 1, dove si trova il curriculum vitae presentato il 26 febbr. 1931 insieme alla domanda di assunzione; ibid., Personale, regg., n. 28; a Milano, presso l'Arch. storico di Intesa Sanpaolo, Archivio Banca commerciale italiana, in particolare alle Carte di Raffaele Mattioli e alle serie del Servizio estero; a Parigi, presso Archives historiques de Paribas, dove si trova traccia della partecipazione alle trattative per redistribuzione delle quote tra Comit e Paribas dopo la seconda guerra mondiale. Si veda anche Mediobanca, Relazioni di bilancio e Statuti, anni vari. E. D’Albergo, Struttura razionale e attualità di funzioni della Banca di credito finanziario (Mediobanca), in Rivista bancaria, n.s., II (1946), 9, pp. 22-41; E. Scalfari - G. Turani, Razza padrona. Storia della borghesia di stato, Milano 1974 (la citazione relativa a Mattioli e Cuccia a p. 159, il ritratto alle pp. 159-161); G. Rodano, Il credito all’economia. Raffaele Mattioli alla Banca commerciale italiana, Milano-Napoli 1983, pp. 167 s.; B. Andreatta, Le poche cose da fare, in Le banche e il capitale di rischio: speranze o illusioni?, a cura di F. Grassini, Bologna 1984, p. 210; G. Malagodi, Profilo di R. Mattioli, Milano-Napoli 1984, pp. 53-54; E. Ortona, Anni d’America. La ricostruzione 1944-1951, Bologna, 1984, ad ind.; C. Romiti, Questi anni alla FIAT, intervista di G. Pansa, Milano 1988; F. Brioschi - L. Buzzacchi - M.G. Colombo, Gruppi di imprese e mercato finanziario, Roma 1990, pp. 19-40, 65-114; S. Cingolani, Le grandi famiglie del capitalismo italiano, Roma-Bari 1990, pp. 89-108; S. Gerbi, Cuccia l’Impero ha bisogno di lei. Un’irresistibile ascesa dall’Etiopia a Mediobanca, in La Stampa, 6 maggio 1990; S. Battilossi, L’eredità della banca mista. Sistema creditizio, finanziamento industriale e ruolo strategico di Mediobanca, in Italia contemporanea, 1991, n. 185, pp. 642-651; N. Colajanni, Il capitalismo senza capitale. La storia di Mediobanca, Milano 1991; R. Prodi, C’è posto per l’Italia fra i due capitalismi?, in Il Mulino, 1991, n. 333, p. 30; C. Stajano, Un eroe borghese. Il caso dell’avvocato Giorgio Ambrosoli assassinato dalla mafia politica, Torino 1991, passim; A. Marchis - M. Marchionatti, Montedison 1966-1989. L’evoluzione di una grande impresa al confine tra pubblico e privato, Milano 1992, pp. 37-56; G. Piluso, Un centauro metà pubblico e metà privato. La Bastogi da A. Beneduce a Mediobanca (1926-1969), in Annali della Fondazione L. Einaudi, XXVI (1992), pp. 386-391; F. Tamburini, Un siciliano a Milano, Milano 1992; L. Einaudi, Diario 1945-1947, a cura di P. Soddu, Roma-Bari 1993, pp. 261 s., 299; G. Galli, Il padrone dei padroni. E. C., il potere di Mediobanca e il capitalismo italiano, Milano 1995; M. De Cecco - G. Ferri, Le banche d’affari in Italia, Bologna 1996, pp. 42-47, 61, 95-119; F. Amatori - F. Brioschi, Le grandi imprese private: famiglie e coalizioni, in Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, a cura di F. Barca, Roma 1997, pp. 128-133, 140-142; G. Bruno - L. Segreto, Finanza e industria in Italia (1963-1995), in Storia dell’Italia repubblicana, III, Torino 1997, pp. 507 s.; L. Contini, Introduzione, in Banca commerciale italiana - Arch. stor., Servizio estero e rete estera, Milano 1997, pp. 26 s.; V. Castronovo, Fiat 1899-1999. Un secolo di storia italiana, Milano 1999, ad ind.; G. Piluso, Gli istituti di credito speciale, in Storia d’Italia. Annali, 15. L’industria, a cura di F. Amatori et al., Torino 1999, pp. 523-526; G. La Malfa, C. e l’autonomia di Mediobanca, in Il Sole 24 ore, 17 gennaio 2003; G. Piluso, Mediobanca. Tra regole e mercato, Milano 2005; E. C. in Africa Orientale italiana 1936-1937. Carteggio E. C. Alberto D'Agostino, a cura di M. Martelli - M. Procino, Milano 2007; L. Segreto, Il caso Mediobanca, in Storia d’Italia. Annali, 23. La Banca, a cura di C. Bermond et al., Torino 2008, pp. 758-823; S. Gerbi, Mattioli e Cuccia. Due banchieri del Novecento, Torino 2011.