CAETANI, Enrico
Secondogenito di Bonifacio, signore di Sermoneta, e di Caterina di Alberto Pio, conte di Carpi, nacque nel 1550. Nel 1560 ricevette la tonsura e gli ordini minori; in questa occasione lo zio paterno, il cardinale Nicola, gli cedette la precettoria dell'abbazia pugliese di S. Leonardo della Matina, un cospicuo beneficio, tradizionalmente attribuito alla famiglia Caetani; nell'ottobre del 1566 faceva inoltre cessione in suo favore dell'abbazia dei SS. Pietro e Stefano di Valvisciolo, presso Sermoneta. Sotto la sorveglianza dello zio Nicola il C. compì i primi studi a Roma, avendo tra i propri maestri anche il vecchio Paolo Manuzio. Dal 1569 fu a Perugia, per seguire i corsi giuridici di quella università, dove si addottorò nel 1573, quindi di nuovo a Roma, per intraprendere la rituale caccia ad uffici e prebende. Nel 1574 fece parte del seguito del cardinale Filippo Boncompagni, inviato a Venezia da Gregorio XIII per incontrare il nuovo re di Francia Enrico III nel suo viaggio di ritorno dalla Polonia. Subito dopo ottenne la carica di referendario delle due Segnature.
Quindi per parecchi anni la carriera del C. fu arrestata dai cattivi rapporti intervenuti tra Gregorio XIII ed il cardinale Nicola Caetani. Fu soltanto nel 1585, col nuovo pontificato di Sisto V, che il C. cominciò a ricevere incarichi e titoli adeguati alle ambizioni della sua casata. Sin dal 29 luglio 1585, infatti, Sisto V creava il C. patriarca di Alessandria e nel dicembre dello stesso anno lo elevava al cardinalato, con il titolo di S. Pudenziana: oltre alla benevolenza del pontefice pare che influisse non poco, nella designazione alla porpora del C., anche una richiesta formulata in questo senso dal duca d'Olivares, ambasciatore a Roma di Filippo II.
Il 22 ag. 1586 il C. fu designato legato di Bologna, succedendo nella carica ad A. M. Salviati. Nel governo della legazione il C. incontrò subito notevoli difficoltà, soprattutto a causa dell'insolubile problema del banditismo che sconvolgeva la regione e dell'ostilità della popolazione ad ogni decisa azione repressiva.
Già il Salviati aveva destato il più profondo malcontento tra i Bolognesi mandando a morte, forse troppo sbrigativamente, un vecchio feudatario, il conte Giovanni Pepoli, sospettato di aver offerto asilo ai banditi, ed era stata appunto la reazione della popolazione a determinare il richiamo dello stesso Salviati. Il B. dovette quindi assumersi un'eredità pesante, che ben presto lo portò a considerare la legazione piuttosto come un momentaneo esilio che non come un'occasione per dare prova di saggezza amministrativa e di intraprendenza politica: finì, insomma, per lasciare le cose come stavano, cercando di non offendere gli interessi costituiti e brigando per liberarsi di quella carica più imbarazzante che fruttuosa; in effetti, la più brillante iniziativa del C. a Bologna fu, nel 1587, un censimento della popolazione.
L'occasione per un onorevole ritorno a Roma fu offerta al C. quando, in seguito alla morte del camerlengo Filippo Guastavillani, Sisto V per la prima volta dichiarò ufficialmente acquistabile il camerlengato. Questa carica, indubbiamente prestigiosa perché costituiva il più alto ufficio nell'amministrazione dello Stato ecclesiastico, era anche considerata straordinariamente redditizia, e tutta la famiglia dei signori di Sermoneta si impegnò perché il C. potesse disporre dei 50.000 scudi necessari all'acquisto. Vincendo una notevole concorrenza il C. fu pertanto nominato camerlengo il 10 sett. 1587 e ufficialmente richiamato dalla legazione bolognese il 26 ottobre successivo.
Il calcolo finanziario dei Caetani si rivelò ben presto troppo ottimistico, poiché Sisto V, impegnato in una politica di rigido contenimento delle spese e di sgravio fiscale delle popolazioni, non soltanto impedì la libertà di iniziativa che i titolari della Camera apostolica tradizionalmente si riservavano, ma stornò anche, dalle entrate della Camera, la cospicua somma annua di 6.000 scudi. Anche le prerogative di direzione amministrativa del C. furono di molto diminuite dalle crescenti facoltà dei tesorieri della Camera apostolica, Guido Pepoli dapprima e poi Bartolomeo Cesi, che furono in effetti i veri responsabili della politica finanziaria del pontificato.
In ogni caso, in un breve volgere di anni, il C. aveva acquistato un ruolo di grande rilievo alla corte pontificia: ufficialmente egli appariva come uno dei principali esponenti della riforma finanziaria, amministrativa e culturale intrapresa da Sisto V; oltre al suo ufficio di camerlengo infatti il C. prestava la propria opera in varie importanti commissioni cardinalizie tra le quali, sin dal 23 ag. 1586, quella preposta alla riforma disciplinare del clero romano e, dal 1588, quella per la riforma degli studi universitari; poteva contare inoltre sull'aperta protezione del pontefice, sulle vaste ed importanti relazioni della sua famiglia, sempre più legata in questi anni alla corte spagnola, ed infine sulle notevoli simpatie che egli stesso aveva saputo guadagnarsi negli ambienti curiali.
Era pertanto nelle comuni aspettative, alla corte pontificia, la concessione al C. di un importante incarico diplomatico che avrebbe prestigiosamente coronato la sua rapidissima carriera. E quando, nel maggio del 1588, Sisto V, su richiesta dell'imperatore Rodolfo, II e di Filippo II, inviò in Polonia il cardinale Ippolito Aldobrandini, a far da mediatore tra i due pretendenti alla corona polacca, Sigismondo Vasa e l'arciduca Massimiliano d'Asburgo, l'agente mantovano a Roma sottolineava la "maraviglia della corte ch'aspettava Caetano come ricco, grato di presenza, affabile di conversatione, di casa illustrissima, atto al bere et mangiare per compagnia come ricerca il paese ove vanno" (Pastor, X, p. 400).
Si trattava in realtà di un semplice rinvio, poiché Sisto V riservava il C. ad una incombenza assai più difficile e prestigiosa: nel settembre del 1589, infatti, lo sceglieva per la carica di legato in Francia, nel momento in cui, con l'assassinio di Enrico III (1º ag. 1589), la situazione politica e religiosa di quel regno precipitava verso la crisi definitiva.
Estremamente confuse erano le valutazioni che alla corte pontificia si davano degli ultimi avvenimenti oltremontani. L'ostilità della Curia verso l'eretico e scomunicato Enrico di Navarra doveva ora confrontarsi al fatto nuovo della sua proclamazione a re da parte dell'esercito, alla quale l'elezione, compiuta dalla lega cattolica, del cardinale di Borbone col titolo di Carlo X faceva da ben scarso contrappeso, poiché il cardinale era prigioniero del suo avversario. Appariva dunque sempre più pericoloso legare la causa della fede cattolica in Francia ai destini della lega, la cui inferiorità politica e militare era ormai evidente. Le adesioni al partito navarrese di larghe frazioni della nobiltà cattolica e persino di eminenti personalità ecclesiastiche, quali i cardinali Lenoncourt e Vendôme, se da una parte erano motivo di scandalo e di risentimento alla corte papale, dall'altra aumentavano le perplessità verso la politica sino allora seguita. In realtà l'ipotesi di un accordo con Enrico di Navarra trovava a Roma sempre nuovi fautori e lo stesso Sisto V appariva incline a rompere con una situazione che lo costringeva a sopportare la pesante tutela spagnola sul mondo cattolico. A questi sentimenti della Curia continuavano tuttavia ad opporsi le difficoltà che avevano tradizionalmente impedito ogni accordo con il re di Navarra: la diffidenza, da una parte, verso le promesse di conversione e di garanzie per i cattolici di cui Enrico era sempre straordinariamente prodigo; dall'altra, l'intransigenza di Filippo II contro ogni cambiamento della politica sin lì seguita di comune accordo. Questa condizione di incertezza della Curia doveva gravare pesantemente sulla missione affidata al C. e ne doveva, in definitiva, determinare il sostanziale fallimento.
Le ragioni che portarono il papa alla scelta del C. sono chiaramente illustrate dall'agente mantovano a Roma, Matteo Brumano: "Sua Santità ha fatto questo cardinale et non altro, perché dice ha più condizioni de ogni altro. è sua creatura e de casa famosa, che ha servito in Francia suo padre, et anco è ricco, di buona presenza, sano, di spirito, intelligente sodamente col re Cattolico che aiuta questa impresa, sogetto destro, flematico et lontano da parzialità con principi di Francia che non s'intendano colla lega et parlamento di Parigi" (Pastor, X, p. 616). Nonostante il contrario parere del Pastor e le proteste pubbliche di indipendenza dalla Spagna di Sisto V e dello stesso C. - il quale si diceva "risoluto di conservar libera la mia volontà et non haver assoluta dipendentia da altri che da Dio et dal papa" (Caetani, Domus, p. 193) - la testimonianza del diplomatico gonzaghesco, del resto confermata dalle prime direttive impartite al C., prova che la scelta del cardinale di Sermoneta era in rapporto diretto con l'intenzione del pontefice di continuare nel solco della politica tradizionale, in pieno accordo con Filippo II e con la lega. Le istruzioni scritte impartite al cardinale legato riconoscevano di fatto come re di Francia il cardinale di Borbone ed impegnavano il C. a procedere, nella difesa degli interessi cattolici, in pieno accordo con il luogotenente generale dello Stato, il duca di Mayenne Carlo di Lorena, e con i più intransigenti avversari di Enrico di Navarra: la lega, la Sorbona ed il Consiglio comunale di Parigi.
Erano direttive perfettamente corrispondenti alle inclinazioni politiche e religiose del C., il quale in nessun momento smentì la sua solidarietà con i circoli più conservatori della Curia. E queste inclinazioni personali del legato furono indubbiamente sottovalutate dal pontefice quando questi ritenne di dover modificare le ipotesi su cui si fondava la sua politica, senza tuttavia ritornare sulla scelta del suo rappresentante. Furono probabilmente le ultime notizie sulla situazione militare, ora nettamente favorevole ad Enrico IV, i nuovi consensi politici guadagnatisi dal Navarrese (ultimo, ed estremamente preoccupante, il riconoscimento ufficiale della Repubblica di Venezia) e più, forse, il timore di un maggiore impegno politico-militare spagnolo che avrebbe ribadito le pretese egemoniche di Filippo II, a provocare un brusco revirement di Sisto V: quando già il C. era sul piede di partenza, il 2 ott. 1589, fu chiamato a un ultimo colloquio col pontefice, il quale, avanzando ambiguamente dubbi d'ogni sorta sulla elezione del cardinale di Borbone e sulla lealtà del Mayenne, in effetti svuotava di ogni significato le istruzioni già impartite al cardinale legato, concludendo anzi con un eloquente invito a vagliare le speranze di conversione del Navarrese.
Ma il C. non seppe, o più probabilmente non volle, interpretare le nuove indicazioni del papa come tassative norme di condotta: sin dal suo arrivo a Parigi egli sposò senza riserve le posizioni del Mayenne, della lega e della Sorbona, assumendo un atteggiamento di irriducibile ostilità verso i fautori cattolici di Enrico IV e accettando la tesi - formulata poi ufficialmente dalla Sorbona nel maggio del 1590 - secondo la quale la condizione di eretico recidivo escludeva definitivamente Enrico dal trono, anche in caso di conversione e di assoluzione papale.
In questo atteggiamento il C. era confortato non solo dal consenso di Roberto Bellarmino, assegnato alla legazione in qualità di consigliere teologico, ma dalla stessa perdurante ambiguità della politica di Sisto V; il papa, infatti, mentre riceveva a Roma gli inviati di Enrico di Navarra, assumeva nuovi impegni con Filippo II per una più massiccia azione comune contro gli ugonotti. Si trattava, evidentemente, soltanto di espedienti per guadagnare tempo, in attesa che il corso stesso delle cose consigliasse la più vantaggiosa linea di condotta; ma il C. interpretò l'atteggiamento del pontefice così come meglio conveniva ai suoi sentimenti politici e religiosi, spingendosi rapidamente tanto avanti nei suoi impegni coi collegati, che ben presto, anche seavesse voluto dare ascolto alle ingiunzioni sempre più minacciose del papa, ben difficilmente avrebbe potuto ritornare sui propri passi. "Et tutto ciò - commentava il Brumano il 12 marzo 1590 - è spiacciuto a Sua Santità molto, perché vede rotto il principio delle cose, quale con delicatezza et simulatione prudente si doveva trattare" (Pastor, X, p. 620).
Del resto una condotta flessibile e temporeggiatrice quale perseguiva Sisto V, se era possibile a Roma - e anche a Roma non lo fu a lungo, ché già nel marzo del 1590 si arrivava alla rottura tra il papa e l'ambasciatore spagnolo Olivares - lo era assai meno nel clima infocato di Parigi assediata da Enrico di Navarra: qui i fautori della lega erano diventati ancora più intransigenti con l'aumentare del pericolo e gli stessi non dubbi sentimenti del legato erano giudicati troppo tiepidi, commisurati come erano, per le urgenti necessità della difesa, ai troppo scarsi sussidi finanziari di cui il C. poteva disporre.
Certo è che Sisto V attribui al C. le più pesanti responsabilità, "dicendo che per il suo mal procedere ha ruinato la Francia et se quando egli gionse in Parigi, trovò che papa Sisto V era in tanta veneratione a tutti, hora ha ridotto le cose, che dicono che favorisce heretici, cosa indegna d'un legato ridur a questo le cose, ma forse verrà occasione ch'egli solo se ne pentirà" (ibid., p. 627). Invano il C. inviò presso il papa il fratello Camillo perché lo giustificasse: Sisto V "publicò di bugiardo" il messaggero - come scriveva il 6 apr. 1590 l'ambasciatore toscano Nicolini (Négociations diplomatiques, V, p.116) - e lo condannò agli arresti domiciliari, dichiarando infine decaduto il C. dalla legazione. A Roma tuttavia non mancavano i sostenitori del C., in particolare i gesuiti che polemicamente esaltavano nelle loro prediche "i fatti egregi del legato in Parigi per difesa dalli eretici", non esitando ad affermare pateticamente che egli "esponeva la vita contro alli eretici a imitazione de' martiri": la qual cosa - commentava il Nicolini - "veramente ha dato nel naso ad ognuno" (ibid., p. 133).
Ma non erano certamente queste resistenze a poter dissuadere il papa dalla via ormai intrapresa; messi a tacere i gesuiti con l'arresto di un paio dei predicatori più esaltati, Sisto V non attendeva onnai che la resa di Parigi per dare libero corso a una politica di accordi con Enrico IV. Di conseguenza la situazione personale del C., di fatto esautorato, ma non per questo meno esposto alle recriminazioni dei Parigini, appariva ormai senza via di uscita. La morte di Sisto V, il 27 ag. 1590, dovette dunque apparirgli provvidenziale: "Ho sentito quel dolore che mi si conviene di questo accidente, ma di tutto s'ha da rendere gratie alla Divina Providenza", era il suo trasparente commento (Caetani, Domus, p. 244). E la liberazione di Parigi da parte di Alessandro Farnese, il 30 agosto, sembrò convalidare contro quella del defunto pontefice la politica del legato.
Durante il periodo di sede vacante il Sacro Collegio lasciò il C. arbitro di decidere per la continuazione della legazione o per il ritomo a Roma: che era un indubbio segno di solidarietà. Ma il C. preferì chiudere la partita e il 24 settembre lasciò Parigi. Dovettero influire non poco sulla sua decisione le gravi difficoltà finanziarie in cui egli versava: lasciato privo di ogni sussidio da Sisto V. il C. era stato costretto a fare ricorso a tutte le proprie risorse per far fronte alle necessità incombente sino a fondere la sua stessa argenteria. Secondo gli storici della famiglia Caetani le spese eccessive e gli ingenti debiti cui il C. fu costretto durante questa legazione furono all'origine della grave decadenza economica in cui versò la signoria di Sermoneta durante tutto il secolo XVII.
Il C. giunse a Roma il 29 ott. 1590, in tempo per entrare nel secondo conclave di quell'anno, seguito all'effimero, regno di Urbano VII. Schieratosi naturalmente nel partito spagnolo, il C. ne seguì diligentemente le indicazioni, sostenendo dapprima il cardinale Facchinetti per poi accedere all'accordo finale sul nome dello Sfondrati, Gregorio XIV.
è significativa degli orientamenti di questo pontefice a proposito della questione francese - del tutto opposti agli atteggiamenti possibilisti assunti da Sisto V nell'ultimo periodo del suo pontificato - la pronta riabilitazione del C., chiamato a far parte, sin dal gennaio del 1591, della Congregazione cardinalizia per la Francia, insieme con gli altri cardinali ispanofili Facchinetti, Madruzzo e Santori. E da allora il C. fu il più ascoltato consigliere del pontefice, ispirandone la drastica linea di condotta e condividendone quindi largamente la responsabilità dell'inasprimento dei rapporti tra la S. Sede e i maggiori esponenti del cattolicismo in Francia.
Assieme alla decisione di intervenire più massicciamente in difesa di Parigi e delle altre isole della resistenza cattolica, con cospicui aiuti finanziari e militari ed in rinnovato accordo con la Spagna, Gregorio XIV, seguendo totalmente le indicazioni del C., inaspriva le pressioni sui fautori cattolici di Enrico di Navarra, minacciando contro di loro le più severe sanzioni canoniche; tagliava nettamente con ogni ipotesi di accordo con il Navarrese confermandone la decadenza - già stabilita da Sisto V nel 1585 - dai suoi titoli, dagli stessi Stati della casa d'Albret e da ogni diritto dinastico sulla corona di Francia; e infine si spingeva sino a offendere pesantemente i vivi sentimenti nazionali dei Francesi: in un duro monitorio al clero di Francia - nella redazione del quale il C. ebbe larga parte - il papa indicava infatti le origini autentiche della crisi attuale di quella nazione nella smodata sete di potenza che aveva sempre animato i suoi re, inducendoli a turpi alleanze con eretici e con infedeli e chiamando così sul paese l'ira divina. Solo la ritrovata concordia nell'ortodossia e nell'ossequio alle direttive della Chiesa avrebbe consentito alla Francia di ottenere da Dio il dono di un sovrano veramente pio e pacifico.Così la Curia tentava di prescindere dalle rivalità che da un trentennio dividevano la Francia, coinvolgendo i partiti contrapposti in un'unica condanna e cercando di avocare direttamente alla Chiesa la soluzione della crisi. A queste medesime valutazioni si ispiravano le istruzioni personalmente redatte dal C. per il suo successore in Francia, il legato apostolico Marsilio Landriano. Ma quando questi, giunto a Parigi, rese noti i sentimenti ed i propositi del papa, apparve subito chiaro quanto infeconda fosse la politica di cui il C. era divenuto il più influente promotore a Roma, una politica che, provocando, in tutti i ceti della popolazione francese una forte reazione nazionale e gallicana, non fu certo l'ultima causa del successo finale di Enrico IV.
Mentre il Mayenne e gli altri esponenti della lega non nascondevano le loro perplessità sulle dichiarazioni ed i propositi del legato, il Parlamento di Parigi proclamava l'autonomia della nazione e del clero francese da Roma e ordinava che fossero pubblicamente bruciati i monitori pontifici, accusando il Landriano di alto tradimento; infine i cattolici fautori del Navarra, ai quali in particolare si rivolgevano i minacciosi appelli della Curia, trassero da questi un nuovo incentivo per confermarsi nel proprio atteggiamento. E quando già il Landriano, allarmatissimo, denunciava a Roma il fallimento della propria missione, la crisi aveva un'altra battuta di attesa per la morte del papa, nell'ottobre del 1591.
Il nuovo conclave ebbe nel C. il maggiore protagonista, insieme con il cardinale Peretti, esponente dei cardinali creati da Sisto V: fu infatti il C., in parte scavalcando il capo della fazione spagnola, Madruzzo, a rendere possibile l'accordo tra i due partiti sul nome dell'Aldobrandini, Clemente VIII, tanto che quest'ultimo professò poi pubblicamente la sua gratitudine al cardinale di Sermoneta. Un segno del favore del pontefice fu l'offerta al C. di riassumere la legazione di Francia, e fu certo un caso fortunato, per la politica della S. Sede, che il C. rifiutasse, preoccupato di non aggravare la già pesante situazione finanziaria della sua famiglia. Tuttavia il C. fu ancora il protagonista degli ultimi disperati tentativi del partito spagnolo per impedire il riconoscimento di Enrico IV anche dopo che la sua seconda conversione al cattolicesimo, nel luglio 1593, aveva modificato l'iniziale atteggiamento intransigente di Clemente VIII. Invano il C. si prodigò per confermare il papa nella sua vecchia posizione: la sua lunga battaglia era ormai perduta.
Per quanto forti potessero infatti essere il risentimento della Curia e dello stesso papa verso Enrico IV e il timore di rappresaglie da parte di Filippo II, ormai non poteva essere più ignorato il fatto che intorno al Borbone si andava ricomponendo ad unità l'intera nazione francese. E il trionfale ingresso in Parigi di Enrico, nel marzo del 1594, aprì di fatto il nuovo corso dei rapporti tra il re e la S. Sede, che doveva concludersi, un anno dopo, con l'assoluzione e il riconoscimento del sovrano.
L'indubbia sconfitta politica del C. non nocque tuttavia al suo prestigio, come prova il fatto che nel 1596 gli fu affidata una nuova importante missione diplomatica. Dopo la felice campagna condotta contro i Turchi in Valacchia nel 1595 dal principe di Transilvania Sigismondo Báthory, era cominciata una intensa attività diplomatica della S. Sede presso la corte imperiale, quella polacca e quella transilvana per concordare una lega tra queste potenze che facesse fronte alla controffensiva che si annunziava da parte del sultano. Poiché l'alleanza tra la Transilvania e l'Impero appariva stabilmente sancita dal matrimonio (1595) tra il Báthory e una figlia dell'imperatore Rodolfo II, Clemente VIII ritenne che le maggiori difficoltà alla lega sarebbero potute venire dalla Polonia, dove le buone disposizioni del re Sigismondo III Vasa erano perennemente vanificate dalle divisioni della Dieta. Perciò nel gennaio del 1596 il papa decise di affiancare al nunzio ordinario in Polonia Germanico Malaspina - il quale per suo conto già da tre anni si prodigava invano per l'adesione polacca a una lega con l'Impero - un nunzio straordinario, il vescovo di Caserta Benedetto Mandina, e infine un terzo e più prestigioso inviato, appunto il C., non ignaro della situazione per essere membro sin dal 1592 della speciale Congregazione per la Polonia istituita da Clemente VIII, nonché viceprotettore di quel regno dal 1594.
Nominato cardinale legato il 3 apr. 1596, il C. partì da Roma il 25 aprile. Un mese dopo era a Vienna e qui, nei colloqui con gli arciduchi Massimiliano e Mattia e con il Mandina, ebbe subito modo di rilevare che le difficoltà alla costituzione della lega erano di gran lunga maggiori di quanto a Roma non si ritenesse e trovavano anzi alimento nella stessa corte imperiale: l'arciduca Massimiliano infatti, designato al comando delle forze imperiali destinate alla lega, non aveva ancora rinunziato alle sue vecchie pretese sulla corona polacca e non senza motivo Sigismondo III avrebbe potuto temere che l'arciduca rivolgesse contro il suo regno l'armata destinata alla guerra contro il Turco; né da parte dell'imperatore - che il C. aveva mandato a intervistare a Praga da suo nipote Bonifacio Caetani - si mostrava l'esistenza di serie intenzioni di eliminare tali difficoltà: "Chiara cosa è che senza questa cessione - scriveva il C. da Vienna - i Polacchi non solo staranno duri, ma ostinatissimi e sarà vana ogni fatica che s'impieghi in questa pratica se non si rimuove la pietra di quello scandalo" (Pastor, XI, pp. 402 s.). Poiché lo "scandalo" non fu rimosso, le pessimistiche previsioni del C. ottennero abbondante conferma. Sin dai primi contatti tenuti in sua presenza a Cracovia, dal giugno 1596, tra gli inviati dell'imperatore e quelli di Sigismondo III apparve evidente che le pretese di Massimiliano d'Asburgo costituivano un ostacolo insormontabile ad un accordo. Solo la pazienza e l'abilità del C. riuscirono a ottenere, il 31 agosto, una adesione di massima al progetto della lega, subordinata da parte polacca a un giuramento di rinunzia che l'arciduca avrebbe dovuto prestare a breve scadenza: ma anche questa conclusione fu sconfessata subito dopo sia da Sigismondo III, sia da Rodolfo II.
Anche i ripetuti colloqui tenuti dal C. con il re di Polonia, nel settembre e nell'ottobre successivi, a Varsavia e a Cracovia, si conclusero con un sostanziale fallimento, poiché Sigismondo III oppose fermamente alle proposte del legato, non soltanto i pericoli che al Regno di Polonia potevano venire dalle ambizioni di Massimiliano d'Asburgo, ma anche lo scarso interesse che l'imperatore mostrava per una azione comune contro il Turco: e se l'intesa tra i collegati fosse venuta a mancare, i Polacchi avrebbero dovuto affrontare da soli l'insostenibile minaccia turca.
Non valsero a modificare la situazione la grave sconfitta inflitta dai Turchi agli Imperiali e ai Transilvani il 23 ottobre, presso Agria (Erlau), e la caduta di questa stessa fortezza, ai confini della Polonia, nelle mani degli invasori. La Dieta di Varsavia del febbraio 1597 concluse in maniera del tutto negativa la missione del C., nonostante la sua appassionata perorazione in difesa della cristianità minacciata. Il C. fece quindi ritorno a Roma, dove costituirono una piccola consolazione le liete notizie che egli poté comunicare sui successi conseguiti dai gesuiti in Polonia nella restaurazione cattolica.
Poco dopo il suo ritorno a Roma, il C. dovette intervenire in un'altra incresciosa vicenda, quella dei dissidi tra le sparute minoranze cattoliche inglesi. Alla morte del cardinale inglese Guglielmo Allen, nel 1594, Clemente VIII aveva creato il C. cardinale protettore d'Inghilterra: ben lungi dall'essere puramente onorifica, questa carica obbligò il C. ad assumersi un patronato quanto mai scomodo, poiché i vecchi contrasti tra il clero regolare inglese e i gesuiti, che avevano trovato nell'Allen un ascoltato moderatore, si riaccesero approfittando dello stesso clima di relativa tolleranza di cui ora i cattolici potevano godere in Inghilterra.
Alla radice dei rinnovati dissensi era proprio la nuova moderazione della politica religiosa di Elisabetta. Le reiterate sconfitte inflitte agli Spagnoli negli ultimi anni avevano sostanzialmente rassicurato il governo inglese, rivelando l'impotenza delle pretese di restaurazione cattolica: un giudizio, questo, nel quale concordava lo stesso Clemente VIII, ma non i gesuiti inglesi, i quali continuavano nella loro tradizionale aggressività, moltiplicando dai loro numerosi collegi sorti sul continente con la protezione di Filippo II i loro libelli contro Elisabetta e gli anglicani: della qual cosa erano fortemente preoccupati i piccoli gruppi di secolari cattolici tuttora sopravviventi in Inghilterra, che da queste intemperanze temevano un nuovo precipitare della situazione.
La contesa venne frantumandosi in una serie di episodi particolari che inasprirono con inconciliabili personalismi la già tesa polemica. Dopo il suo ritorno dalla Polonia il C. fu costretto a numerosi interventi moderatori: personalmente egli era assai legato ai gesuiti, ma la sua parzialità era attenuata dalla consapevolezza che l'aggressività della Compagnia non avrebbe potuto produrre in Inghilterra se non nuovi pericoli. Decisivo fu comunque il suo intervento nel momento culminante del contrasto, tra il 1597 ed il 1599, in occasione della cosiddetta "questione dell'arciprete". Esprimendo le esigenze così del clero secolare inglese, come dei gesuiti capeggiati da Roberto Persons, nel 1597 il C. promosse una discussione nella Congregazione dell'inquisizione e presso lo stesso Clemente VIII sulla possibilità di eleggere vescovi inglesi con residenza in Inghilterra, intorno ai quali avrebbero potuto ricostituirsi le sparse ed indisciplinate membra del cattolicismo inglese. Il papa non ritenne tuttavia possibile, accogliere la proposta, probabilmente perché un effettivo esercizio delle funzioni episcopali avrebbe provocato contrasti assai pericolosi con le autorità politiche inglesi. Il C. ripiegò così sulla meno impegnativa soluzione di investire della autorità di dirigere e controllare il clero inglese il nunzio delle Fiandre, che in effetti da allora esercitò per un lungo periodo questa mansione. Un arciprete era poi designato a rappresentare in Inghilterra il nunzio delle Fiandre: per questa carica che, pur nella sua modestia, veniva ad assumere grandissima importanza, il C. scelse, nel marzo del 1598, Giorgio Blackwell, propostogli a quanto pare dal Persons, e comunque personaggio assai legato ai gesuiti. La scelta dell'arciprete e le istruzioni di cui il C. provvide il Backwell, in cui lo invitava a consultarsi con il Persons nelle principali questioni che gli sarebbero occorse durante il suo ministero, dovevano necessariamente suscitare il risentimento di quanti, tra i cattolici inglesi, temevano che il rinnovarsi della politica "spagnola" dei gesuiti in Inghilterra avrebbe provocato, da parte del governo di Elisabetta, le sanguinose repressioni di cui i cattolici avevano una così triste esperienza. Se la scelta di un capo del clero secolare amico dei gesuiti doveva nelle intenzioni del C. porre termine ai contrasti tra le due fazioni, il calcolo doveva perciò rivelarsi completamente errato: le reazioni degli avversari dei gesuiti furono infatti violentissime, si moltiplicarono in Inghilterra i libelli contro il C., il Persons e il Blackwell e le proteste contro le decisioni del cardinale protettore, ritenute lesive di antiche prerogative del clero inglese, assunsero toni nettamente "gallicani". Soprattutto si denunciavano i pericoli insiti nella preponderanza conservata ai gesuiti e si chiedeva che fossero sottoposti al più responsabile controllo delle massime autorità ecclesiastiche gli scritti controversistici diretti contro il governo di Elisabetta e la Chiesa anglicana.
Espressione del malcontento del clero secolare inglese fu la missione a Roma, nel settembre del 1598, di Guglielmo Bishop e di Roberto Charnock, i quali rinnovarono al C. la richiesta di un vescovo che avrebbe dovuto essere eletto dallo stesso clero secolare inglese e ribadirono le proteste contro i gesuiti e il Blackwell. La risposta del C. fu quanto mai decisa: fatti arrestare i due con un ordine del papa, nel febbraio del 1599 li sottopose a processo, rigettando le loro richieste e condannandoli, nell'aprile, a non ritornare in Inghilterra.
La "controversia dell'arciprete" si trascinò ancora per alcuni anni dopo la morte del C., avvenuta a Roma il 13 dicembre 1599.
Fonti e Bibl.: P. Manuzio, Epistolarium, Venetiis 1573, pp. 446, 522, 548, 550; Gratie ethonori di Bologna all'ill.mo et rev. sig. Henrico Caetano, Bologna 1587; G. De Calvis Oratio in aedibus ill.mi Henrici Cajetani, Romae 1588; G. F. Peranda, Lettere, Venezia 1601, passim; Collezione delle disposizioni su li censimenti del Stato Pontificio, I, Roma 1845, pp. 73 s.; Recueil des lettres missives de Henri IV, a cura di M. Berger de Xivrey, III, Paris 1846, p. 184; T. Tasso, Lettere, a cura di C. Guasti, III, Firenze 1854, p. 150; Négociations diplom. de la France avec la Toscane, vol. V, a cura di G. Canestrini e A. Desjardins, Paris 1875, pp. 84 s., 116, 133, 139 e passim;A.de L'Epinois, La légation du cardinal C., in Revue des questions historiques, XXX(1870), 2, pp. 215 ss.; 3, pp. 305 ss.; C. Manfroni, La legazione del cardinale C. in Francia, in Riv. stor. ital., X(1893), pp. 190-270; A. Solerti, Vita di Torquato Tasso, Roma 1895, I, p. 535; T. Graves Law, The Archpriest controversy. Documents relating to the dissensions of the Roman Catholic clergy, I, Edinburgh 1896, passim;L. V. Pastor, Storia dei papi, X, Roma 1928, passim;XI, ibid. 1929, passim;M. de Boüard, Sixte-Quint, Henri IV et la ligue, in Revue des questions historiques, CXVI(1932), pp. 59 ss.; G. Caetani, Domus Caietana, II, San Casciano Val di Pesa 1933, ad Indicem;P.Pecchiai, Roma nel Cinquecento, Bologna 1948, pp. 155, 261 s., 368; J. Delumeau, Vie économique et sociale de Rome dans la seconde moitiè du XVIe siècle, I, Paris 1957, p. 445; II, ibid. 1959, pp. 778, 839. Sulla missione in Polonia, cfr. J. W. Wos, Contributo per la pubblicazione del "Diario" del viaggio in Polonia di Giovanni Paolo Mucante, maestro di cerimonie del C., in Bull. senese di st. patria, LXXIII-LXXV (1966-1968), pp. 252-277 (tale diario risulta in corso di pubbl. a cura dello stesso autore).