EFESO ("Εϕεσος, Eptḥĕsus)
Città dell'Asia Minore (Lidia) alla foce del Caistro (Kücük Menderes), sulla costa dell'Egeo. Storia. - Era in origine sul mare, ma gli apporti alluvionali del fiume l'hanno via via allontanata da esso, che dista oggi dalle rovine circa otto chilometri. L'esistenza nel luogo di un antico e venerato santuario, e la sua posizione centrale rispetto alle principali vie di comunicazione sia fra l'interno della penisola dell'Asia Minore e la costa, sia lungo questa, fecero assurgere la città a posizione primeggiante nel mondo greco. La sua origine risale ai tempi anteriori alla colonizzazione ellenica: la tradizione ne attribuiva la fondazione alle Amazzoni o ai leggendarî Efeso e Coresso, eponimi rispettivamente della città e del monte su cui il nucleo principale di essa sorgeva. Certo anteriore ai Greci e indigeno, cioè probabilmente cario, è il culto della dea della fecondità della terra che i Greci assimilarono ad Artemide e i Romani a Diana. Carî, Lidî o Lelegi, secondo i geografi, furono i primi abitatori del luogo; oltre al nome di Efeso altri ne sono tramandati, i quali forse si debbono riferire a località o colline adiacenti, e poi in essa incorporate.
La colonizzazione greca portò nel luogo un gruppo di Ionî, condotti, si dice, da Androclo, della stirpe reale di Codro: la tradizione poneva la loro venuta nel secolo XI a. C. Recenti ricerche sembrerebbero localizzare il punto della colonia greca sulla collina a nord-ovest dello stadio, anziché, come finora si era creduto, su quella di Aia Soluk. Per lungo tempo gli Androcleidi, o Basilidi, tennero il governo della città, retta a forma monarchico-aristocratica. Necessità di espansione, determinata soprattutto dalla crescente importanza del tempio di Artemide, che, per il diritto di asilo di cui godeva e per essere la sede d'una grande banca asiatica, richiamava via via sempre più numerosa popolazione intorno a sé, la portarono a combattere con i popoli e le città vicine, particolarmente con Magnesia sul Meandro, del cui territorio essa si rese padrona nel secolo VII. Nello stesso secolo la repubblica aristocratica cedette il luogo alla tirannide: abbiamo il nome e il ricordo di tre tiranni, Pitagora, Melas e Pindaro, i quali ebbero soprattutto a destreggiarsi nei riguardi dei re di Lidia, cui infine dovettero soggiacere. Creso, circa la metà del sec. VI, s'impadronì della città, e mentre largamente contribuì alle spese di costruzione del primo grande Artemisio (v. sotto), sottomise gli Efesini al pagamento di un tributo. Particolarmente notevole per lo svilvppo topografico della città fu l'opera del re, che portò l'abitato dalla collina nel piano sottostante; nello stesso tempo la costituzione della città fu riformata in senso democratico con l'opera di un legislatore fatto venire da Atene. Vinto Creso da Ciro (541), Efeso, che aveva avuto allora un altro breve periodo di tirannide, fu saccheggiata dai Persiani; da Dario fu unita alla satrapia della Ionia.
Alle lotte fra Greci e Persiani Efeso partecipò con scarso entusiasmo, anzi forse fu più per questi che per quelli, molto avvantaggiandosi della caduta di Mileto. Tuttavia, resa a libertà da Cimone al pari delle altre città marittime dell'Asia, entrò come queste a far parte della lega delio-attica. L'ordinamento interno divenne allora decisamente democratico. Nella guerra del Peloponneso tenne dapprima per Atene, poi per Sparta, e più volte fu tratta a partecipare direttamente alla lotta o dovette difendersi dai vicini satrapi persiani. Dopo la pace di Antalcida fu di nuovo soggetta al re di Persia, sotto il quale rimase fino alla vittoria di Alessandro Magno (334). Assai spesso, alle travagliate vicende esterne si aggiunsero in questo periodo mutamenti di regime, a volta a volta aristocratico, democratico, tirannico.
Dopo Alessandro fu disputata fra Lisimaco di Tracia e Demetrio Poliorcete, rimanendo definitivamente al primo nel 287; sull'agitato periodo della storia della città gettano luce varie iscrizioni consvrateci. La signoria di Lisimaco segnò per lo sviluppo della città, la cui popolazione fu accresciuta con quelle di Lebedo e di Colofone, distrutte, una svolta di grande importanza: fu infatti Lisimaco che, trasportando di nuovo l'abitato sulle colline e precisamente su quelle più a sud-ovest, il Coresso e il Pion, ne tracciò il piano sulla base delle regole ippodamee, lo circondò di mura, e scavò un nuovo porto in luogo dell'antico, adiacente all'Artemisio, ormai interrato: tale siste. mazione la città mantenne, salvo variazioni di particolari, per tutta l'età romana. In onore della sposa del re la città fu chiamata Arsinoeia: ma il nome andò in disuso subito dopo la morte di Lisimaco. Scomparso il quale (281), i fautori dei re di Siria consegnarono la città a Seleuco, e per circa un secolo Efeso fu disputata tra i Seleucidi e i Tolomei: era dei primi, e precisamente di Antioco III, quando i Romani cominciarono a far sentire la loro influenza in Oriente. Nelle guerre tra Antioco e Roma Efeso compare più di una volta come residenza del re, ma, dopo la sconfitta subita a Magnesia, questi abbandona la città ai Romani, i quali a loro volta la cedono agli alleati, i re di Pergamo. Venuto il regno di Pergamo in potere dei Romani per il testamento di Attalo III, anche Efeso diviene romana, sostenendo negli anni immediatamente successivi la parte principale nella lotta contro Aristonico, discendente illegittimo dei re pergameni, sorto a contrastare l'esecuzione del testamento. Ordinata nel 129 da M′. Aquilio la provincia dell'Asia (V. asia minore, IV. p. 923), Efeso ne fu la capitale, e in essa presero stanza in gran numero publicani e commercianti, solo preoccupati di trar dalla nuova doviziosa provincia la maggior copia di ricchezze. E fu forse il malcontento suscitato da tale poco accorta politica che spinse gli Efesini a parteggiare per Mitridate, e ad eseguire con acceso zelo l'ordine che il re aveva dato proprio da Efeso di uccidere in un sol giorno quanti Romani ed Italici fossero nell'Asia. Due anni più tardi, dopo la battaglia di Cheronea, Efeso torna dalla parte di Roma e dichiara la guerra al re del Ponto; e la fedeltà a Roma riconferma dopo la pace dell'84, dedicando un monumento a Giove Capitolino.
Nell'intensificarsi dei rapporti tra Roma e l'Oriente l'importanza della città cresce sempre più: ché essa è lo scalo naturale dell'Asia Minore. Nelle guerre civili seguite alla morte di Cesare, sono ad Efeso prima Bruto e Cassio, poi, dopo la battaglia di Filippi, Antonio, accoltovi con una solenne pompa bacchica: sono di questi anni e dei successivi, numerosi decreti tramandatici da Giuseppe Flavio in favore degli Ebrei, che costituivano un nucleo numeroso e fattivo della popolazione locale.
Con il regno di Augusto e con l'Impero la fortuna di Efeso si consolida e si accresce: il riordinamento della provincia vi stabilisce gli uffici di questa, ragioni politiche e religiose consigliano all'imperatore il restauro dell'Artemisio, nel cui recinto sorge uno dei primi centri di culto imperiale, e l'esecuzione di opere di pubblico decoro o utilità, come l'acquedotto. Gl'imperatori successivi continuano l'opera di Augusto, o direttamente o suscitando private iniziative. In particolare si debbono ricordare i lavori compiuti sotto Nerone per rendere praticabile il porto di Lisimaco; le numerose costruzioni e dediche offerte da due mecenati, Celso Polemeano e Vibio Salutare, sotto Domiziano e Traiano, il larghissimo favore di cui furono prodighi sia Adriano, che per due volte visitò la città, compì lavori al porto e assicurò l'abitato dalle alluvioni del fiume, sia Antonino Pio, gratificato del titolo di κτίστης, al cui regno appartengono le munificenze d'un altro ricco cittadino, P. Vedio Antonino. Nel 164 sono celebrate ad Efeso le nozze di L. Vero con Lucilla, e a ricordo delle vittorie partiche di M. Aurelio e L. Vero la città alza un grandioso monumento onorario. Caracalla, ordinando che il proconsole debba fare il suo ingresso nella provincia sbarcando ad Efeso, riafferma il primato di questa fra le altre città dell'Asia, che con essa contendevano i titoli di μετρόπολις e di πρώτη τῆς 'Ασίας. Invero Efeso è fra le maggíori città dell'Impero, e con Alessandria ed Antiochia tiene il primato in Oriente. Fiorisce insieme per il commercio e per la cultura (famosi particolarmente ne erano i medici); il culto di Artemide la fa centro religioso di grande venerazione; giuochi e feste, alcune di antica fondazione, altre istituite di recente dagl'imperatori, vi raccolgono più volte allranno gente d'ogni parte dell'Asia. Con l'affermarsi del cristianesimo non viene meno l'importanza della città: ché la nuova fede, predicatavi da S. Paolo e raffermata, secondo una tradizione molto antica ed attendibile, da S. Giovanni, fa di Efeso una delle sue sedi principali in Oriente. Nel 263 i Goti prendono la città e incendiano l'Artemisio; tuttavia ancora nei secoli III e IV si ha ricordo non solo di restauri ai vecchi edifici, ma della costruzione di nuovi. Sul principio del sec. V, forse nel 401, Giovanni Crisostomo fa chiudere il tempio di Artemide, nel 431 Efeso è sede del terzo concilio ecumenico (v. sotto). Nel 655 gli Arabi saccheggiano la città, la quale circa questo stesso tempo vede restaurate, con giro assai più breve, le mura; sennonché già Giustiniano, costruendo una grande basilica in onore di S. Giovanni sulla collina a levante dell'Artemisio, aveva determinato uno spostamento della popolazione verso di questa: quivi la città, ridotta a un piccolo villaggio, continuò a vivere nel Medioevo.
Occupata nel 1090 dai Selgiuchidi, fu ripresa da Alessio I Comneno, alleato dei crociati, nel 1097. Dopo la presa di Costantinopoli deI 1204 fece parte del regno di Nicea. Fu conquistata dai Turchi sotto il regno di Osmān (1308). Il nome turco dell'attuale villaggio, Aia Soluk (oggi ufficialmente Salçuk [Salgiūk]) è probabilmente la corruzione di "Αγιον Θεολόγος, il titolo, con cui era designato S. Giovanni, al quale Giustiniano dedicò una basilica; così pure forse il nome medievale italiano Alto luogo.
Efeso cristiana. - Gli Atti degli Apostoli narrano la predicazione in Efeso di S. Paolo, che vi rimase per più di due anni (anni 55-57). Dei frutti della sua predicazione tra i Gentili è prova la dimostrazione ostile fatta contro di lui dai cultori della divinità locale, Diana (Atti, XIX, 24 segg.): "E vedete e sentite, che non solo in Efeso, ma in quasi tutta l'Asia, questo Paolo con le sue persuasioni ha fatto cambiare di sentimento a molta gente, affermando che non sono dei quelli che si fan con le mani". Con queste parole Demetrio, uno di coloro che lavoravano in argento le statuette di Diana, eccitava i suoi compagni di arte contro colui che togliendo fedeli al culto locale veniva a danneggiare la loro industria. Anche la lettera di S. Paolo agli Efesini (v.), e più ancora le due a Timoteo (65-66), preposto a reggere la comunità cristiana di Efeso, mostrano quanto fossero strette le relazioni tra i cristiani di Efeso e S. Paolo.
Nonostante le sue origini paoline, la chiesa di Efeso si gloriava di essere la città dell'evangelista S. Giovanni. L'antica tradizione, trasmessa da S. Ireneo (Adv. Haer., III,1) e da altri scrittori, indica Efeso come luogo d'origine del IV Vangelo. A Efeso poi si venerava il sepolcro di S. Giovanni, cui Giustiniano nel sec. VI accrebbe splendore con una grandiosa basilica. Già il suo vescovo Policrate (circa 190) in una lettera a papa Vittore I, di cui alcuni passi sono stati conservati da Eusebio (Hist. Eccl., V, 24), vanta le grandi memorie della chiesa d'Asia, commemorando tra esse anche Giovanni, che "riposa ad Efeso". Nella lettera del concilio di Efeso (431) al clero e al popolo (Acta Conciliorum Oecumenicorum, ed. E. Schwartz, I, 1, n. 69) la città viene indicata come quella "dove stanno Giovanni il Teologo e la Vergine Madre di Dio, santa Maria". Probabilmente in questo passo (nel testo greco manca il verbo) si fa allusione ai due più celebri monumenti cristiani della città: il sepolcro di Giovanni e la grandiosa basilica metropolitana, a cui pure allude S. Cirillo nella lettera scritta immediatamente dopo la prima seduta al clero di Alessandria, indicando come luogo della seduta "la grande chiesa della città, che viene ehiamata Maria Madre di Dio" (Acta Conciliorum Oecum., I,1, n. 28).
La memoria di S. Giovanni e la posizione di Efeso quale metropoli della provincia di Asia dovevano conferire al suo vescovo una certa preminenza almeno riguardo ai colleghi della propria provincia. Dalla citata lettera di Policrate appare che papa Vittore I si era rivolto a lui per convocare i vescovi dell'Asia a un concilio. Per i secoli successivi le fonti non permettono di indicare con certezza le prerogative del vescovo di Efeso. Il concilio calcedonense (451) col suo famoso canone 28 sottomise i vescovi dell'Asia, insieme con quelli del Ponto e della Tracia, alla giurisdizione del vescovo di Costantinopoli, togliendo così a quello di Efeso il diritto di ordinare i metropoliti della diocesi civile di Asia. La più antica collezione romana di canoni, la cosiddetta Quesnelliana (sec. V), enumera nella sua prefazione i privilegi delle grandi chiese dell'orbe cristiano, Roma, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme ed Efeso: "Ad Efeso abitava il beatissimo apostolo ed evangelista Giovanni per molto tempo dopo la risurrezione ed ascensione del Signore; colà parimente scrisse, divinamente ispirato, il Vangelo, detto secondo Giovanni, ed ivi morì. Per questa memoria dell'apostolo ed evangelista, il vescovo di Efeso nei sinodi precede gli altri metropoliti" (Patrol. Lat., LVI, col. 369 segg.).
Topografia e monumenti. - Le rovine di Efeso, a cominciare da Ciriaco di Ancona che le visitò nel 1446, furono spesso meta di viaggiatori, soprattutto inglesi, ma rimasero pressoché inesplorate fino alla seconda metà del secolo passato.
Nel 1863 l'ingegnere inglese J. T. Wood, con l'appoggio del British Museum, iniziò le ricerche del tempio di Artemide, della cui ubicazione si era perduto il ricordo; tali ricerche, continuate sino al 1874, furono coronate da successo: pochi furono gli elementi delle colonne e della decorazione architettonica recuperati allora e negli scavi successivi del 1883, e portati poi a Londra, ma si fissò con precisione il luogo del tempio. Più ricca fu la messe d'iscrizioni, anch'esse tutte portate a Londra. L'esplorazione metodica della città vera e propria fu intrapresa nel 1895 sotto la guida di O. Benndorf dall'Istituto archeologico austriaco: vi lavorarono successivamente R. Heberdey, G. Niemann, W. Wilberg, Fr. Knoll, V. Hofert, J. Keil; interrotti i lavori dalla guerra, furono ripresi nel 1926 a opera del Keil e di Fr. Miltner, che tuttora li continuano.
Le rovine della città si raccolgono in due gruppi, l'uno più a nord-est costituito dalla collina di Aia Soluk, e dall'Artemisio ai piedi di questa, l'altro dalla città vera e propria, la città ellenistica di Lisimaco e la città romana, alquanto più a sud-ovest (Budrumia). Le costruzioni della collina di Aia Soluk appartengono tutte al periodo bizantino o a quello turco-selgiuchide (v. sotto). Il luogo dell'Artemisio, a sud-ovest della collina stessa, è oggi indicato da una specie di conca quadrangolare, più bassa del piano circostante, nella quale quasi nulla è rimasto di quello che fu uno dei più celebri e splendidi santuarî dell'antichità. Gli scavi hanno tuttavia chiarito la storia dell'edificio.
La costruzione più antica, il cui livello era di circa 8 metri più basso del livello attuale, era costituita da una piattaforma, di m. 4,36 per 2,86, accessibile da ponente, dove era una seconda piattaforma più bassa e più piccola, e chiusa all'ingiro da un muro, che segnava l'area sacra: nel muro della prima delle piattaforme furono rinvenuti numerosi ex-voto: qui doveva essere perciò l'immagine della divinità, forse dentro una piccola cella: dinanzi ad essa, sull'altro basamento, doveva essere l'altare. In un secondo tempo i due basamenti furono riuniti in uno solo, e forse questo fu chiuso entro una vera e propria cella. Certo una cella, di m. 16 × 31, della forma di un tempio in antis, se non forse anche con un colonnato intorno, ebbe il santuario in un terzo tempo. In luogo di questo santuario primitivo subentrò nel secolo VI a. C. il primo grande tempio in marmo, di m. 110 per 55, di stile ionico, diptero, con otto colonne per venti; la cella era divisa in tre navate da colonne. Architetti furono Chersifrone e Metagene, ma, secondo una tradizione posteriore, la costruzione durÒ 120 anni, e fu terminata da Peonio di Efeso e Demetrio circa la metà del sec. V. Largamente vi contribuì Creso di Lidia offrendo gran numero di colonne, ornate nella parte inferiore di altorilievi che sono oggi per noi un esempio notevole della più antica arte ionica. Il tempio fu incendiato da Erostrato nel 356, ma gli Efesini diedero subito mano alla sua ricostruzione, che era ancora in corso quando Alessandro visitò la città e fece l'offerta, che fu rifiutata, di compiere i lavori a sue spese. Il livello del nuovo tempio fu notevolmente rialzato dall'antico mediante una grandiosa terrazza di sostruzione, ma non sembra che la disposizione generale dell'edificio venisse mutata. Ne fu architetto Chiroerate; alla decorazione scultorea delle colonne lavorarono Scopa e i suoi discepoli, a quella dell'altare Prassitele: numerose altre opere d'arte, di scultura e di pittura, vengono inoltre ricordate come esistenti nel tempio o nel suo recinto: ben dunque esso poteva essere vantato come una delle maggiori meraviglie del mondo. L'invasione dei Goti del 263 d. C. ne iniziò la decadenza, che il trionfo del cristianesimo condusse a termine: non è infatti improbabile che le pietre e i marmi dell'edificio fossero in gran copia usati per la costruzione delle chiese cristiane e delle fortificazioni bizantine. Il tempio era chiuso entro un vasto recinto, che godeva del diritto di asilo, e nel cui ambito, che Augusto segnò con un muro, si trovavano altri edifici minori, fra cui un Augusteo.
La città vera e propria si distende sulle due colline sorgenti a sud-ovest, il Panayir Dağ e il Bulbul Dağ, corrispondenti rispettivamente al Pion e al Coresso degli antichi, e su quel breve tratto di pianura che è compreso tra le falde delle colline stesse e quello che era il bacino del porto.
Lisimaco chiuse l'abitato entro una cerchia di mura di 8 km. di lunghezza. Di essa, costruita a grossi blocchi, alta circa sei metri e guarnita da torri quadrangolari, restano notevoli tratti specie sul Bulbul-Dağ, il cui sperone nord-occidentale si alzava in due punte, l'una, da un tempio dedicato ad Ermes, detta Hermaion, l'altra coronata da una torre oggi nota col nome di prigione di S. Paolo. Di porte se ne conoscono due: una, la porta di Magnesia, era nell'insellatura fra le due colline, e da essa usciva la strada che si dirigeva verso la valle del Meandro. L'altra porta, cui taluno vuol dare il nome di porta del Coresso, era sotto le pendici settentrionali del Pion, e per essa passava la strada più breve fra l'Artemisio e la città. La porta è ancora conservata, ma nel suo rifacimento bizantino. Entrando da essa si ha subito a sinistra lo stadio. Questo era appoggiato col suo lato meridionale al pendio della collina, e sorretto da grosse sostruzioni nel lato opposto: l'ingresso, dalla parte di ponente, era costituito da una costruzione ad archi, con sette passaggi. L'edificio, la cui origine risale certamente ad età ellenistica, fu restaurato al tempo di Nerone, e in età bizantina; in esso si svolgevano oltre alle corse dei carri anche gli spettacoli gladiatorî e le cacce di belve: e a questo scopo era riservato uno spazio circolare all'estremità orientale.
A nord dello stadio, dalla parte opposta della strada, si leva su alte sostruzioni un edificio, scavato in questi ultimi anni, nel quale si deve riconoscere il ginnasio di Vedio Antonino: al pari di altri edifici del genere esso era insieme ginnasio e terme; comprende infatti un gran numero di ambienti, destinati agli esercizî ginnastici, a rappresentazioni, a bagni: sulla fronte verso oriente è un cortile a colonne (palestra) in fondo al quale è una sala riservata forse al culto dell'imperatore: in essa furono rinvenuti numerosi resti di sculture, testimonî di una ricca decorazione statuaria. Sulla collina a ovest dello stadio sono i resti delle cosiruzioni di un tempio, che alcuni elementi, tuttavia ancora incerti, potrebbero far credere dedicato ad Apollo.
Procedendo per la stessa strada si sbocca nel piano compreso fra le pendici del Pion e il bacino del porto: quivi erano gli edifici principali della città, divisi l'uno dall'altro da strade a colonne. Il primo di questi edifici è la grande chiesa del Concilio (v. sotto). Al dì là di essa è un vasto complesso, costituito dalle terme, dal ginnasio e dal portico detto di Verulano, con la fronte e l'ingresso verso mezzogiorno sulla via Arcadiana (v. sotto). Delle terme, sorte fino dalla seconda metà del sec. I d. C., ma restaurate da Costanzo II nel sec. IV, tanto che un'iscrizione le nomina Thermae Constantianae, non sono scavati che alcuni ambienti: un ampio vestibolo a pareti laterali ricurve, un atrio, diviso da colonne in tre navate, una latrina e una sala quadrangolare, in origine decorata da statue e gruppi scultorei, dei quali sono rimaste solo le basi. Il ginnasio, a oriente delle terme, è costituito da un cortile quadrangolare, sui lati del quale si distribuiscono vari ambienti, di cui i più notevoli, per ampiezza e per decorazione marmorea, sono quelli nel mezzo delle ali di mezzogiormo e di settentrione; da questo edificio proviene una bella statua bronzea di 'Αποϑυόμενος, ora a Vienna. Ancora ad oriente del ginnasio, ed accessibile sia da questo sia dalla strada, è un vasto portico quadrangolare di m. 200 × 240, con tre file di colonne sui lati, che un'iscrizione ci dice essere stato rivestito di marmi al tempo di Adriano dall'asiarca Claudio Verulano.
Il complesso di edifici ora descritto aveva il suo ingresso sull'Arcadiana. Era questa la principale strada della città, la grande arteria centrale su cui si svolgeva il maggior movimento fra la piazza del teatro e le pendici del Pion da un lato, e il porto dall'altro. La strada era lunga 500 m.: aveva nel mezzo lo spazio destinato ai veicoli, largo 11 m., e ai fianchi di esso due portici di 5 m., dietro ai quali si aprivano le botteghe: il primo era pavimentato in marmo, i secondi a mosaico. La strada ebbe l'ultimo restauro e sistemazione dall'imperatore Arcadio, donde il nome che le è dato da un'iscrizione, dalla quale apprendiamo altresì che essa era di notte illuminata da lampade. In corrispondenza delle terme già descritte si alzano su di essa quattro colonne, con basi poligonali, che sorreggevano quattro statue, forse quelle degli Evangelisti. Erano esse pertanto un'aggiunta degli ultimi tempi. Più antiche assai invece erano le due porte monumentali che chiudevano la via alle estremità: di quella verso il teatro restano lo zoccolo ed alcuni frammenti di rilievi, dell'altra verso il porto furono recuperati copiosi elementi sì da poterne tentare una ricostruzione: era una porta a tre passaggi, il centrale architravato, i laterali arcuati; le fronti erano guarnite da coppie di colonne ioniche in aggetto: il livello a cui scende lo zoccolo della costruzione ci dice che essa appartiene alla prima età romana.
Intorno al porto, seguendo in parte la linea curva del bacino, si svolgevano altre costruzioni, connesse particolarmente con il traffico marittimo: ma nulla di esse si riconosce all'infuori della base di una seconda porta monumentale, che aveva la fronte leggermente concava e dava accesso alla strada parallela all'Arcadiana verso mezzogiorno. Dalla parte opposta del porto, ai piedi del Pion, le cui pendici erano soprattutto occupate da abitazioni private digradanti ad anfiteatro, l'Arcadiana sboccava nella vasta piazza del teatro. A settentrione di questo era un ginnasio-terma; appoggiata alla terrazza del teatro, una fontana ellenistica, e, come adagiato in una conca della collina, il teatro.
È questo uno degli esempî più interessanti di tal genere di edifici. Costruito in età ellenistica, mantenne della disposizione originaria la forma della cavea, che supera il semicerchio, e alcuni elementi della scena, poi incorporati nella scena romana: tale scena primitiva era costituita da un proscenio basso, a tre porte, ornato di pilastri con mezze colonne doriche, e da una parete retrostante più alta, con sette aperture. La scena dei tempi romani era invece come di solito una grandiosa costruzione a tre ordini, con ricca decorazione architettonica: i due ordini inferiori erano del tempo di Nerone, il superiore del principio del sec. III. Avanti alla scena era la vera tribuna, su cui agivano gli attori, il piano della quale era sostenuto da due file di colonne e una di pilastri. La cavea dava luogo a circa 25.000 spettatori, ed era accessibile anche dall'esterno; era guarnita alla sommità nella parte centrale da un portico a colonne.
Una strada, che veniva dallo stadio, correva avanti al teatro, e, proseguendo verso mezzogiorno, piegava poi ad oriente per entrare nella sella fra il Pion e il Coresso. Prima di voltare essa, che ha qui magnificamente conservato il suo lastricato marmoreo, lasciava a destra un altro notevole complesso di edifici. Era qui l'agorà ellenistica, piazza quadrata di 160 m. di lato, circondata da portici a due navate, con botteghe e magazzini, e occupata nel centro da un orologio: l'edificio ci si presenta oggi nella ricostruzione che subì circa il sec. III d. C. A levante dell'agorà, fra questa e la strada corre un porticato di stile dorico, del tempo di Nerone. Dove il portico termina, un breve andito dava accesso dalla strada a una specie di piazzetta interna, antistante la biblioteca, dalla quale una porta monumentale a tre fornici immetteva nell'agorà. La porta, coronata da una magnifica trabeazione, recava in greco e in latino il ricordo dei costruttori: Mazeo e Mitridate, che l'alzarono nel 4-3 a. C. in onore di Augusto, di Livia, di Agrippa e di Giulia. Un secondo ingresso monumentale aveva l'agorà dalla parte di ponente, mediante una specie di piazza allungata (lungh. m. 160) con due file di colonne e nel fondo un'esedra; a sud della piazza era un tempio chiuso entro un recinto: la sua architettura ricorda i monumenti di Eliopoli: è probabile fosse dedicato a Serapide. La biblioteca è forse il più bell'edificio della città: era costituita da una sala quadrangolare, splendida di marmi e con ricca decorazione architettonica. Nel mezzo della parete principale era un'abside; lungo le pareti, su due o tre ordini sovrapposti, nicchie per gli armadî dei libri, e avanti ad esse uno zoccolo che sorreggeva due ordini di colonne. La fronte, preceduta da una gradinata, aveva in basso tre porte, tra l'una e l'altra delle quali erano coppie di colonne in aggetto, e in alto tre finestre, fiancheggiate anch'esse da colonne sorreggenti alcuni timpani: esempio di quell'arte barocca fiorita, specie nelle provincie, nel sec. II d. C. Sotto l'abside centrale, nell'interno, era la tomba di colui, in cui onore il figlio e gli eredi innalzarono l'edificio, destinando in pari tempo una somma per l'acquisto dei libri: C. Giulio eelso Polemeano, senatore e magistrato, vissuto al tempo di Traiano. In età tarda, distrutto e interrato l'interno dell'edificio, la sua facciata servì di sfondo a una fontana ricavata al posto della gradinata d'accesso: formavano le pareti del bacino alcune grandi lastre marmoree a rilievo, ora in parte trasportate a Vienna, appartenute a un monumento commemorativo delle vittorie partiche di M. Aurelio e L. Vero.
Dove la strada che viene dal teatro volta verso sud-est sono, a destra, una porta monumentale, una costruzione quadrangolare, trasformata in età tarda in ninfeo, e un edificio ottagonale su base quadrata, coronato in origine da una piramide a gradini: recenti ricerche hanno dimostrato essere stato esso un heroon: a chi abbia appartenuto però non sappiamo. Un monumento consimile, ma di forma circolare, era a sinistra della strada, sulle pendici del colle: qualcuno ha pensato che esso fosse stato innalzato a ricordo della vittoria di Cuma su Andronico, ma non è improbabile fosse anch'esso un heroon. Proseguendo nella sella fra le due colline, si giunge a una piazza, a sinistra della quale è l'Odeon, o piccolo teatro coperto, costruito da P. Vedio Antonino circa la metà del sec. II d. C.; avanti ad esso correva un porticato, di età augustea, caratteristico per i suoi capitelli ornati di teste di toro; di fronte era una fontana, entro la quale veniva a fluire l'acqua del Marnas (Dervent Dere), portata alla città mediante un acquedotto da C. Sestilio Pollione tra il 4 e il 14 d. C. La fontana, costruita nel sec. II, fu restaurata da Costanzo II e Costante nel sec. IV.
Prima di giungere alla porta di Magnesia si lasciano a destra la cosiddetta tomba di S. Luca, costruzione circolare di età classica trasformata dai cristiani in cappella absidata con cripta, a sinistra una fontana di età traianea, e un ginnasio-terma. Fuori della porta a sinistra della strada che conduceva nella valle del Meandro, si distaccava una seconda strada in direzione dell'Artemisio: il sofista Damiano, nel sec. II d. C., l'aveva coperta di portici per stabilire una comunicazione, protetta dal caldo e dalle intemperie, fra la città e il tempio. Le strade fuori delle mura erano fiancheggiate di sepolcri, il maggior numero dei quali tuttavia digradava pittorescamente lungo i pendii delle colline: sarcofagi, mausolei in costruzione, tombe ricavate entro le grotte naturali. Alcune di queste erano dedicate fino dai tempi più antichi al culto: in una si localizzò in età cristiana la leggenda dei sette dormienti (v. sotto).
Assai più ristretta della città che abbiam0 ora descritta era la città bizantina: le mura di questa, che debbono attribuirsi al secolo VII, e delle quali restano notevoli avanzi, correvano a mezza costa del Panayir Dağ, e, mentre verso settentrione si riunivano con le mura di Lisimaco, verso mezzogiorno invece scendevano dal teatro al porto, lasciando fuori tutta la parte meridionale dell'abitato, a cominciare dall'agorà e dalla biblioteca.
I monumenti cristiani. - Gli edifici cristiani dovettero essere numerosissimi a Efeso, che fu uno dei principali centri del cristianesimo in Oriente. Oggi, tra le antiche rovine, sono da segnalare due importantissimi avanzi d'architettura religiosa: la Chiesa doppia o della Vergine e la chiesa di S. Giovanni. Nella prima, al centro della città antica, fu tenuto il concilio del 431, quando essa non aveva ancora la forma presente. Il gruppo delle sue rovine si distingue in quattro parti diverse per epoche e caratteri: un atrio circondato da portici; un battistero; una chiesa a cupola; e dietro a questa una basilica a tre navate, nella cui costruzione furono utilizzate parti d'un edificio ellenistico preesistente, composta di una lunghissima (m. 265) sala basilicale, con due corti ornate di esedre alle estremità. In un primo tempo, probabilmente nel sec. IV, la corte occidentale fu trasformata in atrio a portici conservandovi l'esedra, mentre della parte attigua della sala ellenistica si fece una basilica a tre navate, quella appunto dove si tenne il concilio, lunga 88 metri, aggiungendovi un'abside analoga a quella delle chiese di Siria e di Cilicia, fiancheggiata da due vani quadrati. Allora fu anche costruito il battistero, a nord dell'atrio, a pianta concentrica con nel mezzo la vasca battesimale. Alla fine del sec. V o al principio del VI, per cause sconosciute, si sostituì una chiesa a cupola alla parte occidentale della basilica, di cui rimasero l'abside e probabimente le campate orientali della primitiva navata. Poi, in un ultimo rifacimento, fu restaurata la zona orientale dell'antica basilica conservando l'abside, sostituendo alle colonne pilastri quadrati e munendo la navata d'un nuovo nartece. Particolarmente importante nella storia dell'architettura sacra in Oriente è la chiesa intermedia, situata fra l'atrio e la basilica: appartiene alla serie delle "basiliche a cupola", delle quali quella di Koca Kalesi sembra essere il più antico esempio; e segna la transizione fra la pianta allungata di Koca Kalesi e la pianta quadrata (S. Sofia di Salonicco; la Koimesis di Nicea), per l'ampliarsi della navata principale, che prende la forma d'una croce a braccia cortissime, pur conservando l'aspetto basilicale.
Della chiesa di S. Giovanni, elevata sulla tomba dell'apostolo sull'altura d'Aia Soluk che una bella cinta bizantina trasformò poi in cittadella, gli scavi (iniziati dalla Società archeologica di Atene e ora ripresi dall'Istituto archeologico di Vienna) hanno precisato la forma. Celebre nel Medioevo, fu costruita da Giustiniano per sostituire una basilica più antica le cui vestigia sono ora state ritrovate. Era cruciforme, come la distrutta chiesa dei Ss. Apostoli di Costantinopoli: il sepolcro dell'apostolo ne occupava il punto centrale, che corrispondeva al santuario della basilica primitiva. Una cupola di 14 metri di diametro copriva lo spazio centrale; cupole minori si elevavano sui bracci della croce divisi da colonne in tre navate, come in San Marco di Venezia, anch'esso imitato dai Ss. Apostoli di Costantinopoli. Dai frammenti venuti in luce si può avere un'idea della grande ricchezza dell'interno della chiesa: marmi scolpiti (capitelli, cornici, parapetti), pavimenti e rivestimenti in marmo, mosaici. Le sculture hanno lo stile del secolo VI, e i monogrammi di Giustiniano e di Teodora sono simili a quelli di S. Sofia di Costantinopoli.
Tra i monumenti cristiani sono notevoli inoltre i resti d' una bella fontana bizantina con plutei scolpiti del sec. VI, e sulla via Arcadiana un gruppo di quattro colonne su alte basi poligonali decorate di nicchie a conchiglia che ricordano il eelebre ambone di Salonicco. Sul fianco del Panayir Dağ si mostra ancora la Grotta dei sette dormienti, già celebre meta di pellegrinaggi. Ad essa si riferiva la leggenda dei sette fanciulli che, nascostivisi durante la persecuzione di Decio, vi si sarebbero addormentati per svegliarsi sotto Teodosio II. Vicino a essa è stato di recente scavato un vasto cimitero con una chiesa. Gli antichi veneravano pure a Efeso una tomba di S. Maria Maddalena.
Infine, a circa quindici chilometri dalla città, nel luogo detto Panagia Kapuli, sull'Ala Dağ, una tradizione di origine recente pretende riconoscere nelle rovine di una cappella bizantina una casa della Santa Vergine e il luogo ove essa sarebbo morta. Ma questa identificazione, che si basa sulle visioni di Caterina Emmerich, contrasta troppo con le notizie storiche.
I monumenti selgiuchidi. - Restano monumenti anche del periodo selgiuchida, e di essi il più importante è la moschea del sultano 'Īsà I. È un edificio quadrangolare di m. 57 × 51, dei quali due terzi sono occupati dal grande cortile ad arcate con la fonte per le abluzioni, e un terzo dalla sala di preghiera, oggi deturpata. La moschea aveva due minareti, dei quali resta uno solo, mozzato della parte superiore; particolarmente notevole è la facciata occidentale per le ricche cornici intorno alle finestre e al portale, sopra al quale è un'iscrizione: da questa apprendiamo che l'edificio fu costruito da un architetto di Damasco, e compiuto il 9 del mese di sha'bān del 776 èg. (= 13 gennaio 1375 d. C.).
Vedi tavole LXXXI e LXXXII.
Bibl.: Büchner, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., V, col. 2773 segg.; P. Romanelli, in E. De Ruggiero, Diz. epigr., s. v.; E. Falkener, Ephesus and the temple of Diana, Londra 1862; E. Hicks, Greek Inscript. in Brit. Mus., III, Oxford 1890, pag. 67-291; J. T. Wood, Discoveries at Ephesus, Londra 1877; D. G. Hogarth, Excavations at Ephesus, Londra 1908; le relazioni degli scavi dell'Istituto arch. austriaco sono nei volumi degli Österr. Jahreshefte, passim; più ampî studî su singoli monumenti in Forschungen in Ephesos, voll. 3, Vienna 1906-1923 ecc. - Su Efeso cristiana v. V. Schulte, Altchristliche Städte und Landschaften, Kleinasien, II, Gütersloh 1926, pp. 86-120. - Sui monumenti di epoca cristiana e selgiuchida v. per la "chiesa doppia": J. Strzygowski, Kleinasien, ein Neuland der Kunstgeschichte, Lipsia 1903, e specialment Österr. Jahreshefte, Beiblatt 1912; per la chiesa di S. Giovanni: Sotiriou, L'église de Saint-Jean le Théologien (estratto di Fouilles Grecques en Asie Mineure), Atene 1922, 1924 (in greco); Österr. Jahreshefte, Beiblatt 1929, 1930; F. Brischen, in Wasmuth's Lexikon d. Baukunst, II, Berlino 1930.
I concilî d'Efeso.
Il concilio del 431. - Convocato il 19 novembre 430 dall'imperatore Teodosio II nella metropoli dell'Asia per la Pentecoste (7 giugno) dell'anno 431, il concilio, a causa del ritardo dei vescovi della Siria, non fu aperto che il 21 giugno. Nella prima seduta, tenuta nella grande basilica metropolitana, dedicata a Maria Madre di Dio, fu discussa e decisa la causa di Nestorio (v.) autore dell'eresia ehe aveva dato motivo alla convocazione del concilio. Erano presenti 153 vescovi, oltre il diacono Bessula, rappresentante del vescovo di Cartagine, sotto la presidenza di Cirillo vescovo di Alessandria. A un triplice invito d'intervenire al sinodo, Nestorio, presente a Efeso, rispose negativamente. Il concilio in conseguenza procedette alla lettura dei documenti che dovevano servire di base ai Padri nel giudicare la causa in questione: tre lettere di Cirillo a Nestorio con la sua risposta; la lettera di papa Celestino a Nestorio; e la relazione dei vescovi deputati a Costantinopoli per rimettere a Nestorio la sentenza di papa Celestino. Tutti questi documenti sono inseriti negli atti del concilio; è notevole l'assenso esplicito dei Padri alla dottrina esposta nella seconda lettera di Cirillo a Nestorio: ognuno dei presenti espri. me il suo voto sull'ortodossia della lettera di Cirillo, respingendo la dottrina di Nestorio. Segue la lettura d'una serie di testi patristici nei quali si trova esposta e provata la dottrina tradizionale della Chiesa sul Verbo Incarnato. Il più importante però dei documenti letti in questa prima sessione è la collezione di estratti dai sermoni di Nestorio, dai quali risulta l'eterodossia del suo insegnamento. Questi sermoni, divulgati già in Egitto, e mandati da lui stesso a Roma, avevano dato motivo a S. Cirillo di combattere Nestorio e di scrivere a Celestino che lo facesse condannare nel sinodo romano del 430. E poiché Nestorio perseverava negli stessi sentimenti, il concilio pronunziò contro di lui la sentenza di deposizione.
Nella seconda seduta (10 luglio) intervennero i legati del papa, i vescovi Arcadio e Proietto e il prete Filippo. Alla lettura della lettera di Celestino al sinodo, da essi presentata, i Padri risposero acclamando il "nuovo Paolo" Celestino, manifestando così la loro unanimità col papa. I legati richiesero la lettura del protocollo della prima sessione, che venne fatta nella seduta dell'11 luglio, e in seguito confermarono la sentenza pronunziata contro Nestorio. Nella quarta seduta (22 luglio) il sinodo condannò ancora una volta la dottrina nestoriana.
Intanto, accanto e in opposizione al concilio, il vescovo Giovanni di Antiochia, appoggiato dal conte (comes) Candidiano, che l'imperatore aveva mandato a Efeso per mantenere l'ordine, aveva formato con i vescovi del suo seguito, una quarantina circa, un conciliabolo che scomunicava Cirillo e i suoi aderenti. Dal 26 giugno Efeso diventò così sede di due sinodi, che si combattevano a vicenda; l'uno, composto di circa 200 vescovi, guidato da S. Cirillo, mandatario del papa; l'altro, con a capo Giovanni di Antiochia e appena una quarantina di membri, dipendente in tutto dal messo imperiale Candidiano.
La causa esterna di questa scissione va ricercata in primo luogo nella prevenzione dell'imperatore e della corte, decisamente favorevole a Nestorio e contraria a Cirillo. Ciò appare non soltanto dalle lettere dell'imperatore scritte a Cirillo prima del concilio, ma più ancora dall'istruzione data a Candidiano per il concilio, secondo la quale ogni accusa contro qualsiasi persona veniva tolta alla competenza del concilio e riservata al tribunale della città imperiale. In possesso di questo documento, Candidiano cercò d'impedire il 21 giugno l'apertura del concilio; vedendosi respinto da Cirillo, si servì del malumore di Giovanni, indignato di vedere Nestorio condannato prima del suo arrivo (26 giugno), per spingere il dissidio alla rottura aperta. Alla domanda di Giovanni se nella causa di Nestorio si fossero almeno osservate le formalità canoniche, il messo imperiale rispose che non v'era stato alcun giudizio regolare. Dopo aver così provocato l'irrimediabile urto tra Giovanni e Cirillo, Candidiano continuò a tener l'imperatore all'oscuro dei fatti avvenuti, impedendo ogni comunicazione tra il concilio e Costantinopoli, dove si ebbero informazioni sugli avvenimenti soltanto per mezzo delle relazioni tendenziose di Candidiano e di Giovanni. Tanta fu l'ignoranza delle cose conciliari a Costantinopoli, che l'imperatore fece mettere sull'indirizzo del suo messaggio al concilio anche i nomi di Celestino e di S. Agostino, come se fossero presenti a Efeso, dichiarando approvare la deposizione di Nestorio, Cirillo e Mennone di Efeso, e sciogliendo l'assemblea. Finalmente il concilio riuscì a far arrivare un'esatta relazione all'archimandrita Dalmazio, veneratissimo dal popolo e dalla corte, il quale tolse d'inganno l'imperatore. Questi ordinò a sette vescovi di ogni parte di presentarsi a lui, e li ricevette a Calcedonia (settembre 431). Risultato di queste conferenze furono: un decreto di esilio contro Nestorio, il quale del resto già da sé aveva domandato di ritirarsi nel suo antico monastero di Antiochia, ciò che gli venne concesso; l'ordinazione del suo successore Massimiano, alla quale furono invitati i sette deputati del concilio, mentre Giovanni e i suoi dovettero rimanere a Calcedonia. Finalmente, l'imperatore invitò i Padri a ritornare nelle proprie sedi, mentre Cirillo e Mennone conserverebbero le loro.
Il concilio non aveva fatto altro che dare esecuzione alla sentenza di papa Celestino contro Nestorio, di cui Cirillo era il mandatario. I padri di Efeso, perfettamente consapevoli di questa unione del concilio con la sede apostolica, ne fecero aperta professione nella sentenza contro Nestorio. Nestorio non aveva adempito le condizioni impostegli da papa Celestino, nonostante che lo stesso Giovanni di Antiochia, in una lettera scrittagli prima del concilio, l'avesse invitato a lasciare la sua insostenibile opposizione contro il titolo di "Madre di Dio" dato dalla Chiesa e dai Padri alla Vergine Maria.
Ma S. Cirillo nella lettera con la quale comunicava a Nestorio la sentenza del papa, aveva aggiunto dodici anatematismi, che compendiavano l'insegnamento cattolico e la condanna degli errori nestoriani. Questi anatematismi, sebbene perfettamente ortodossi nella mente di Cirillo, contenevano nondimeno talune espressioni suscettibili d'interpretazione ereticale, come di fatto l'ebbero dipoi da parte dei monofisiti. Or bene, Nestorio, Giovanni d'Antiochia e i suoi seguaci ritornando alle proprie sedi più che mai esasperati, si servirono di questi "dodici capitoli" per iniziare contro Cirillo una campagna d'odio senza pari in quei secoli di lotte religiose. L'imperatore, dopo aver dato occasione al dissidio efesino soprattutto con la delegazione dell'inetto Candidiano, volle ora interporre tutta la sua autorità per riconciliare Giovanni e Cirillo. Dopo aver loro notificato la sua decisa volontà di metter fine alla scandalosa lotta tra vescovi, ne affidò la cura al vecchio vescovo Acazio di Berea. Questi per mezzo del suo discepolo Paolo di Emesa, riuscì (433) a pacificare i due contendenti. Giovanni accettò le condizioni di Cirillo; scomunicò Nestorio e i suoi errori, professando esplicitamente la maternità divina di Maria e l'unità della persona di Cristo in due nature. Così dopo 22 mesi di aspro conflitto, la pace della Chiesa era ristabilita.
Bibl.: Il concilio di Efeso è il primo, e finora l'unico, di cui stli studiosi posseggano gli atti in un'edizione critica, conforme alle esigenze della scienza moderna: Acta conciliorum oecumenicorum, ed. E. Schwartz, Berlino 1923-30, I: Concilium univ. Ephesenum, voll. I-V. Per la storia del concilio, sono da consultare specie le opere recentissime, fatte con l'aiuto dell'ed. indicata: R. Devreesse, Les actes du concile d'Éphèse, in Revue des sciences philos. et théolog., 1929, pp. 223, segg., 408 segg.; A. d'Alès, Le dogme d'Éphèse, Parigi 1931; P. Galtier, Le concile d'Éhèse: Les actes du concile, Rome et le concile, in Rech. de sciences relig., XXI (1931), pp. 166-199; E. Krebs, Gottesgebärerin, Colonia 1931.
Il brigantaggio d'Efeso. - L'appellativo di latrocinium fu dato dal papa S. Leone Magno al sinodo convocato in Efeso l'8 agosto 449 per ordine dell'imperatore Teodosio II e col consenso di papa Leone; l'appellativo fu dovuto ai procedimenti violenti con cui si impedì lo svolgimento regolare del concilio, il quale perciò fu riprovato e cassato dal papa. V'intervennero 127 vescovi e il diacono Ilaro rappresentante di Leone; la presidenza fu affidata dall'imperatore a Dioscoro (v.), che era stato il principale provocatore del concilio e per ordine dell'imperatore vi fece ammettere il monaco Barsauma, fanatico antinestoriano e amico di Eutiche (v.). La principale questione proposta al concilio era appunto di giudicare se era stata giusta la sentenza di Flaviano di Costantinopoli (v.), che in un sinodo del 448 aveva deposto e scomunicato Eutiche per il suo rifiuto di ammettere due nature in Cristo.
Per mezzo di illegalità canoniche e introducendo anche soldati nel concilio, Dioscoro ottenne l'assenso di molti vescovi alla condanna di Flaviano: alcuni per paura firmarono in bianco, altri non firmarono punto, e le varie firme furono poi aggiunte da Dioscoro. Flaviano fu malmenato e inviato in esilio, ma strada facendo morì per le percosse ricevute. Il rappresentante del papa, avendo osato pronunciare apertamente la parola di rifiuto alla sentenza del concilio, contradicitur, dovette darsi alla fuga; ma informò sollecitamente papa Leone di quanto era accaduto, provocando così l'annullamento del concilio e il suddetto appellativo passato alla storia. (V. anche calcedonia, concilio di; dioscoro; flaviano; leone magno).
Bibl.: Vedi le voci citate; Perry, Secunda Syn. Ephesina necnon excerpta quae ad eam pertinent, Oxford 1875, che contiene il testo siriaco degli atti; P. Martin, Le Pseudo-Synode connu dans l'hist. sous le nom de Brigandage d'Éphèse, Parigi 1875; A. Amelli, S. Leone Magno e L'oriente, Montecassino 1890.