SCARPETTA, Eduardo
SCARPETTA, Eduardo. – Nacque a Napoli il 13 marzo 1853, terzogenito di Domenico, ufficiale agli Affari ecclesiastici presso il ministero del governo borbonico, e di Emilia Rendina.
Fu il capostipite di un’importante stirpe teatrale: Vincenzo, attore, musicista e autore teatrale, nato dal matrimonio con Rosa De Filippo; Maria, attrice e autrice teatrale nota come Mascaria, nata da una relazione con Francesca Giannetti, insegnante di musica; Titina, Eduardo e Peppino De Filippo, attori e autori teatrali, nati da una lunghissima relazione avuta con Luisa De Filippo, nipote di sua moglie; e ancora Eduardo e Pasquale De Filippo, nati dalla relazione con la sorellastra della moglie, Anna (nata dal secondo matrimonio del padre di Rosa, Pasquale De Filippo): il primo attore e commediografo noto in arte come Eduardo Passarelli, il secondo attore caratterista. Da questa stessa, ultima, relazione sarebbe nato anche Ernesto Murolo (poeta, drammaturgo e padre del celebre cantautore Roberto), ufficialmente figlio di Vincenzo Murolo e Maria Palumbo. L’unico figlio che non si dedicò al teatro fu Domenico che, pur portando il cognome di Scarpetta, non era suo figlio naturale, ma frutto di una relazione, precedente al matrimonio, tra Rosa De Filippo e il re Vittorio Emanuele II.
Il desiderio del padre, che sperava proseguisse negli studi, contrastava con la passione del figlio che trascorreva il tempo libero con un piccolo teatrino di pupi. Frequentatore assiduo, insieme al genitore, del teatro drammatico (erano spesso al Fiorentini ove alle recite della compagnia di Adamo Alberti si alternavano quelle di Tommaso Salvini) e comico (teatro San Carlino, regno del più famoso Pulcinella del tempo, Antonio Petito, per il quale il piccolo Eduardo nutriva una sorta di venerazione), da subito Scarpetta mostrò un rapporto complesso con la maschera di Pulcinella. Pur amando sopra ogni cosa il repertorio sancarliniano, il piccolo aveva un terrore profondo della mezza faccia nera di Pulcinella e anche quando ‘don Antonio’, presolo in braccio, si tolse la maschera per rivelargliene il segreto (la sua indole buona, bianca, di cui il nero è solo una piccola parte), continuò a preferire il repertorio di Petito senza Pulcinella. Già ai tempi del teatro dei pupi, d’altra parte, non era riuscito a trattenersi dal grattar via la faccia, metà bianca e metà nera, al pupo Pulcinella e più tardi, all’apice del successo, a seguito di precisa e meditata strategia, fu lui a dare il colpo di grazia alla maschera acerrana: «non volli dapprincipio eliminare del tutto la maschera di Pulcinella servendomene quasi come [...] di una decorazione, e decisi poi di sbarazzarmene [...] a tempo opportuno. Senza aver l’aria di uccidere quella vecchia maschera, che aveva fatto il tempo suo, aspettavo il giorno non lontano che essa si suicidasse, stanca ormai di vivere e persuasa dell’indifferenza del pubblico, o che pigliasse da sé la via dell’uscio come un’intrusa mal tollerata» (E. Scarpetta, Cinquant’anni di palcoscenico, 1922, p. 253).
‘Figlio di buona famiglia’, come si appellavano tra i comici quegli attori che non erano figli d’arte, Scarpetta cominciò come buffo e come cantante nelle ‘periodiche’, spettacoli che si tenevano settimanalmente nei salotti della piccola borghesia napoletana. Insieme ai cantanti, solitamente con voce da tenore (come quella di ‘Eduardiello’, come all’epoca era chiamato, per il quale si prevedevano grandi successi nella lirica), attrazioni principali erano i buffi con il loro (personale) repertorio di macchiette, imitazioni, canzonette e il loro costume fisso, un cappellino a mezza tuba e una cravatta rossa.
Il suo apprendistato fu eclettico, come quello di tutti gli attori napoletani dal Settecento in poi, che si misuravano con un teatro che non prevedeva rigide distinzioni tra prosa, musica e danza: si doveva saper recitare la farsa, il grottesco, il dramma e la parodia, ma anche cantare, ballare e far pantomime. Così il quindicenne Scarpetta che, assunto nella compagnia Zampa in qualità di ‘generico di secondo filo’ (1868), si impiegò, per contratto, a «ballare, tingersi il volto, esser sospeso in aria, cantare nei cori e a solo nei vaudeville» (p. 91). Stessa situazione quando passò nella compagnia di Gaetano Pastena, e poi in quella del noto attore drammatico Michele Bozzo (1869). Si rappresentavano diversi generi e il giovane Eduardo, oltre che per le parti buffe, venne impiegato come corista nei vaudeville, corifeo nei balli e generico nei drammi. Alla prova con il genere serio, Scarpetta però fallì. Ritrovò e scontò la noia di quando, bambino, seguiva gli spettacoli al Fiorentini: suo padre si emozionava, piangeva; lui sbadigliava. In quel repertorio si sentiva ‘un pesce fuor d’acqua’. Nel comico, al contrario, si era sempre sentito ‘a casa’.
Nel 1871 passò nella compagnia diretta dal Pulcinella Raffaele Marino, il quale, compresa l’indole del giovane, decise di metterlo alla prova. Accettò di interpretare e mettere in scena un suo testo, Pulcinella creduto moglie di un finto marito (nelle pause del suo lavoro d’attore Scarpetta aveva preso a scrivere farse e brevi commedie), e consegnò nelle sue mani una vecchia farsa attribuita a Enrico Parisi, Pulcinella spaventato da un cadavere di legno, proponendogli di adattarla e di recitarla insieme: lui nel ruolo di Pulcinella ed Eduardo in quello di Felice (particolare tipo di ‘mamo’ o ‘mammo’, il ‘figlio di mammà’ piccolo borghese), che per Marino si sposava perfettamente con le doti di Scarpetta. Fu così che Pulcinella spaventato divenne Feliciello Sciosciammocca, mariuolo de ’na pizza. Sciosciammocca, letteralmente ‘soffia in bocca’, esisteva già, ma Scarpetta seppe ricrearne il tipo dal profondo, adattandolo alle sue corde d’attore e d’autore. Tanto da vestirlo come se stesso al tempo delle ‘periodiche’ e degli esordi nella prosa: una piccola tuba nera, un tight corto e stretto, pantaloni attillati a grossi scacchi colorati e scarpine da ballo. Il personaggio, che segnò la storia del teatro scarpettiano e, insieme, di quello napoletano, portò al giovane, oltre al successo, una scrittura al San Carlino nella compagnia di Antonio Petito, mmiez’ ’e cculonne (tali erano ritenuti gli attori di quell’ensemble), ove perfezionò e concluse il suo apprendistato. Debuttò nella stessa farsa che lo aveva rivelato ‘Felice’ (1871) e in poco più di un mese riuscì ad imporre il tipo da lui reinventato, che venne ad aggiungersi ai caratteri fissi della compagnia. Petito scrisse per lui Felice Sciosciammocca creduto guaglione ’e n’anno (1872) e prese a interpretare e mettere in scena i testi scritti per lui da Scarpetta (Gelosia, ’Na Commedia ’e tre atte, È buscìa o è verità?, dal Bugiardo di Goldoni). Alla morte del grande ‘Totonno’ (1876), la fama di Scarpetta era pari a quella del suo maestro, quella di Sciosciammocca a quella di Pulcinella.
Sciosciammocca è l’inizio e il cuore della grande riforma scarpettiana; la sua nascita e le sue inarrestabili evoluzioni hanno tracciato una precisa via di sviluppo del teatro comico napoletano, «uno spartiacque che si portò dietro tutti i migliori e divenne una nuova tradizione» (Carpentieri, 1982, p. V). È lui a segnare il passaggio dalla maschera al personaggio-individuo la cui natura non è più esclusivamente determinata dagli attributi fissi della maschera ma, anche, dalla specificità recitativa degli interpreti. Così Petito col suo diverso modo di interpretare Pulcinella (onde impedire ai codici fissi di trasformarlo nuovamente in maschera), così Scarpetta col suo Sciosciammocca che, pur rientrando nel ruolo del ‘mamo’ e rispettandone la tipizzazione, si contraddistinse per il suo lato umano, per il suo mutare insieme alle storie delle quali era protagonista, e per il suo appartenere alla realtà del pubblico. Sciosciammocca segnò anche il passaggio dall’autore-sarto (che cuciva i testi addosso all’attore) all’attore-autore: non sono più i testi che si adattano al personaggio, ma il personaggio che muta nei testi, secondo il contesto sociale, le sensazioni e l’umano sentire della nuova classe di cui è espressione. Oggetto del comico non è più la nobiltà sbeffeggiata dal popolo, ma la piccola borghesia, alla quale Sciosciammocca appartiene. Il personaggio comico è ora interno alla nuova classe che, nella vita come nel teatro, assume un ruolo da protagonista.
Se Sciosciammocca è l’anima della riforma scarpettiana, il corpo è il ‘nuovo’ San Carlino che Scarpetta scelse come dimora stabile della sua nuova compagnia e che riaprì il 1° settembre 1880 (dopo la morte di Petito il teatro era stato chiuso per mancanza di pubblico). Da questo momento, oltre ai ruoli di attore e autore, Scarpetta decise di assumere anche quelli di capocomico e impresario divenendo il prototipo dell’‘uomo-teatro’, tracciando una strada che dopo di lui fu percorsa da tutti i grandi del teatro napoletano.
«Nun è n’ommo ch’è muorto – aveva detto il vecchio impresario Luzi alla morte di Petito –, è nu teatro... è San Carlino!» (E. Scarpetta, Cinquant’anni di palcoscenico, cit., p. 198). Quella frase era rimasta nella memoria di Scarpetta e come un tarlo aveva continuato a sollecitare la sua coscienza. Quale San Carlino era morto? Quello di Pulcinella, che aveva fatto il suo tempo. Quel teatro, però, doveva risorgere e tornare a essere il tempio della comicità napoletana. Artefice della rinascita sarebbe stato lui, e la sua rivoluzione avrebbe toccato l’etica e l’estetica, investendo il teatro non solo in quanto edificio, ma anche in quanto simbolo di un genere (il comico) e di un modo di recitare. Trasformazioni, migliorie, abbellimenti, nuove decorazioni e dotazioni tecniche per sala, foyer, platea, palchetti, camerini e palcoscenico: nuove scene parapettate con arredi veri in sostituzione dei fondali di carta sui quali i mobili erano dipinti, nuovo sipario raffigurante Sciosciammocca (di Vincenzo Di Giacomo); aggiunta di un pianoforte nell’orchestra; ideazione di un campanello che collegava la buca del suggeritore con i camerini, onde avvertire gli attori dell’entrata in scena. Questione urgente quella del repertorio, sempre più lontano dal pubblico. Occorreva sostituire il fantastico (che era anche quello delle maschere, Pulcinella in testa) con il verosimile, ridurre al minimo pantomime, travestimenti. Rinnovare trame, storie e personaggi. Sostituire alla favola la commedia d’ambiente con interni borghesi, costumi appropriati, lingua contemporanea (anche il dialetto si trasforma, allontanandosi sempre più dal linguaggio della plebe e riducendo le fantasie verbali, appannaggio della comicità precedente). Produrre, questo il sogno e l’intento di Scarpetta, un teatro napoletano di prosa con un repertorio omogeneo, una sede stabile e una compagnia stabile.
Il rinnovamento etico, conseguenza di quello estetico centrato sul repertorio, partì dagli attori: per la sua compagnia ne scelse di grandissimi (Pasquale De Angelis, Gennaro Pantalena, Adelaide Schiano, Adelaide Agolini) e con loro lavorò per mettere a punto un programma di studio e affiatamento capace di arginare le deleterie abitudini della stirpe comica napoletana la cui performance, eccezion fatta per i grandi, continuava a essere basata sulle caratteristiche esterne prescritte dal ruolo (fisico, costume e trucco). L’etichetta comica non fu più solo l’abito (che rende riconoscibile il personaggio al suo apparire sulla scena), ma il particolare modo di recitare dell’attore. La comicità non dipese più dalla struttura fisica (il tipo strano o deforme che costruisce l’agire scenico sulle sue difformità), ma dal testo e dall’attore: dal suo dire, non più improvvisato e concertato ad arte; dalla sua recitazione, non più basata sui codici prescritti dalla maschera, ma sulla naturalezza del gesto e della voce, conformi, ora, al personaggio e alla situazione; dal trucco (non più maschere, semimaschere e uso di posticci e parrucche, ma volti appena truccati che affidavano l’espressione del loro sentire alla mobilità del viso e alla modulazione della voce). Bisognava dare ai comici un ordine, una disciplina, modificarne lo stato di precarietà (ove possibile pagandoli anticipatamente), ma anche e soprattutto imporre loro un tempo fisso e obbligato per le prove, abolendo la recitazione a soggetto e introducendo il copione scritto. Come scrisse Eduardo De Filippo, «la rivoluzione che Scarpetta operò nel teatro napoletano, intesa come recitazione, repertorio e messa in scena, lasciò tracce profonde anche nello spirito, nel comportamento e nel costume degli attori. I teatranti cominciavano ad acquistare una coscienza professionale che, giammai prima di allora, si erano sognati di possedere» (cit. in Mangini, 1961, p. 9).
Altro punto centrale della riforma fu il pubblico, che Scarpetta seppe ascoltare ed educare. Pubblico che lo sostenne in ogni scelta tanto che nel 1884, quando il San Carlino venne demolito, egli riuscì a trasferire il suo ‘nuovo teatro’, convintamente dialettale, sulle scene del Fiorentini, fino ad allora destinato alle compagnie che recitavano in lingua. Le polemiche non mancarono. In primis quella (che poi sfociò nella controversa questione per il cosiddetto teatro d’arte) alimentata dagli intellettuali e dagli autori napoletani (Salvatore Di Giacomo in testa) scandalizzati dall’alternanza tra lavori originali e riduzioni di testi altrui, soprattutto stranieri. Se con il suo teatro Scarpetta era stato capace di decretare la morte della commedia popolare napoletana aprendo la via alla ‘commedia dialettale napoletana’, era ora necessario, secondo la fronda capitanata da Di Giacomo, innalzarsi all’‘Arte’, mettendo quest’ultima al servizio di una drammaturgia autenticamente napoletana. Pur avendone gli strumenti (capacità e favore del pubblico), di quell’‘Arte’, tanto lontana dalla sua, Scarpetta non volle saperne. Il teatro che aveva in mente misurava il suo respiro su quello del pubblico e il pubblico, che lui aveva scelto e che mai l’abbandonò, continuava a chiedergli un teatro che parlasse con linguaggio, sentimenti e azioni propri della classe di cui era espressione. Il suo obiettivo era alto quanto quello dei digiacomiani: creare la commedia dialettale d’arte lavorando alla costruzione di un repertorio che rispondesse ai canoni della nuova comicità borghese. Non trovando, oltre se stesso, altri autori sensibili a questa nuova esigenza, rivolse lo sguardo altrove: a testi stranieri (o in lingua) che non appartenevano al repertorio popolare e dialettale, sui quali operava come il dottor Frankenstein con la sua Creatura. Commedie che gli avversari liquidarono come ‘traduzioni’ e che lui definiva invece ‘ricostruzioni’, ‘rifacimenti’, ‘creazioni’, delle quali Benedetto Croce, azzerando la polemica, ebbe a scrivere: «abilissime riduzioni che spesso s’avvantaggiano sugli originali e sempre li rinnovano, trasportandoli nell’ambiente partenopeo» (Croce, 1922, p. XII).
Agli anni continuativi al San Carlino e poi al Fiorentini, seguirono quelli al Sannazaro, al Fondo e negli altri grandi teatri di prosa italiani. Il tentativo, sempre perseguito e centrato, era quello di trasformare il teatro in cui sceglieva di lavorare in ‘casa dell’arte comica’ usando la stabilità della dimora per permettere alla sua compagnia maggiore studio e affiatamento. Il centro della riflessione teatrale tornò a essere lo spettacolo, che nelle mani di Scarpetta divenne un meccanismo preciso ed esatto, un’armonia che si reggeva sull’affiatamento di tutti gli strumenti (testi, attori, dotazione dei teatri e delle scene), sulla naturalezza della recitazione e sull’ascolto dei compagni e del pubblico.
All’apice del successo, a soli cinquantotto anni, ma con più di quarant’anni di palcoscenico alle spalle, decise di dare l’addio alle scene continuando nel teatro come autore (1911). Lasciò la compagnia al figlio Vincenzo, attore di grande spessore, musicista finissimo, cantante, autore teatrale, suo ‘obbligato’ e grande continuatore nel ruolo di Sciosciammocca.
Alla sua morte, il 29 novembre 1925, Napoli si fermò. Gli furono tributati funerali solenni. Fu imbalsamato e posto in una bara di cristallo dalla quale continuò a sorridere per molti altri anni. La sua maschera funebre è ora esposta nel foyer del teatro San Ferdinando di Napoli.
Opere. Il teatro di Scarpetta – circa cento opere tra originali e riduzioni – comprende commedie, farse, parodie, riviste e operette. Tra le parodie la più celebre è Il figlio di Iorio (da La figlia di Iorio di Gabriele D’Annunzio) che gli procurò un processo per contraffazione, una causa memorabile (periti della difesa Benedetto Croce e Giorgio Arcoleo, dell’accusa Roberto Bracco e Salvatore Di Giacomo) e una solenne vittoria (fu prosciolto per non aver commesso il fatto). Tra le opere di varietà e rivista Lu cafè chantant (1893), che fu uno dei primi testi a esser scritto secondo il genere del neonato café chantant, e Allegrezza e guaie (1902), primo tentativo di rivista musicale dal quale scaturì la successiva e fortunata collaborazione con Rocco Galdieri (tra le tante riviste scritte a quattro mani L’ommo che vola, 1908). A segnare la storia del teatro napoletano molte delle sue commedie. Tra queste: Tetillo (1880); Tre pecore viziose (1881); ’O scarfalietto (1881); Il romanzo d’un farmacista povero (1882); ’A nutriccia (1882); ’Nu turco napulitano (1885); Miseria e nobiltà (1888), il cui primo atto venne dichiarato da Ferdinando Martini «degno della firma di Molière» (E. Scarpetta, Cinquant’anni di palcoscenico, cit., p. 313); ’Na santarella (1889); ’A nanassa (1900); ’O miedeco d’e pazze (1908). Scrisse, inoltre, poesie (tra le quali Lo poeto napolitano, o sia lo spassa-tiempo, 2222 vierze fatte dint’a 3333 minuti, Napoli 1872) e tre libri di memorie: Don Felice: memorie di Eduardo Scarpetta, Napoli 1883; Dal S. Carlino ai Fiorentini. Nuove memorie, Napoli 1900; Cinquant’anni di palcoscenico, Napoli 1922. Interpretò le trasposizioni cinematografiche, prodotte dalla milanese Musical Film (Renzo Sonzogno & C.), di cinque sue commedie: Miseria e nobiltà (1914) di Enrico Guazzoni, La nutrice (1914) di Alessandro Boutet, Un antico caffè napoletano (1914), Tre pecore viziose (1915) e Lo scaldaletto (1915), dirette da Gino Rossetti. Recitò anche in Giuliano l’apostata (1919), Il trittico dell’amore (1920) e Il volo degli aironi (1920), tutti diretti da Ugo Falena e prodotti dalla Bernini Film.
Fonti e Bibl.: V. Viviani, Una vis comica che scaturì dalle lacrime. L’amara giovinezza di E. S., in Id., [s.t. ma Per una storia del teatro napoletano], dattiloscritto inedito conservato nell’Archivio privato di Raffaele Viviani, s.d.; G. Zanazzo, E. S.: cenni critici e biografici, Roma 1890; S. Di Giacomo, E. S. attore, impresario e commediografo, in Id., Storia del Teatro San Carlino, Napoli 1891, pp. 381-389; L. Rasi, I comici italiani: biografia, bibliografia, iconografia, III, Firenze 1895, pp. 522-525; E. Montaldo, E. S.: biografia aneddotica con 19 ricche illustrazioni, Palermo 1901; A. Russo-Ajello, Teatri dialettali. E. S., in Id., Tragedia e scena dialettale, Torino-Genova 1908, pp. 157-200; B. Croce, Prefazione a E. Scarpetta, 1922, pp. IX-XIV; _S. D’Amico, S. E., in Enciclopedia Italiana, XXXI, Roma 1936, p. 14; N. Leonelli, Attori tragici e attori comici, II, Roma 1946, pp. 345-350; M. Scarpetta, Felice Sciosciammocca, mio padre, Napoli 1949; R. Minervini, I due Scarpetta, in Il Fuidoro. Cronache napoletane, II (1955), 3-4, pp. 124-126; G. Trevisani, Pulcinella e Sciosciammocca, in Id., Teatro napoletano, I, [Parma] 1957, pp. XXXVIII-XLVI; M. Mangini, E. S. e il suo tempo, Napoli 1961; V. Viviani, S. E., in Enciclopedia dello spettacolo, VIII, Roma 1961, pp. 1574-1580; Id., S. E., in Storia del teatro napoletano, Napoli 1969, pp. 575-601; P. De Filippo, Una famiglia difficile, Napoli 1976; R. Carpentieri, Feliciello Sciosciammocca lascia morire Pulcinella ma ne rivendica l’eredità, ovvero come si attua una «riforma» da parte di un figlio di buona famiglia, Introduzione a E. Scarpetta, Cinquant’anni di palcoscenico, ed. anast., Milano 1982, pp. V-XXIII; T. Paladini, Scarpetta in giacca e cravatta. La “maschera” di Felice Sciosciammocca, Napoli 2000; A. Pizzo, Scarpetta e Sciosciammocca: nascita di un buffo, Roma 2009; Gli Scarpetta e i De Filippo. Una famiglia d’artisti, a cura di G. Scognamiglio - P. Sabbatino, Napoli 2014; Pionieri del cinema napoletano. Le sceneggiature di Vincenzo e i film perduti di E. S., a cura di P. Iaccio - M.B. Cozzi Scarpetta, Napoli 2016.