economia politica
Forma del sapere che ha per oggetto la produzione, lo scambio e la distribuzione della ricchezza, sia a livello individuale e disaggregato (un singolo individuo o la famiglia, una singola impresa o un insieme di imprese, cioè un’industria), sia a livello sociale e aggregato (uno Stato, per es. lo Stato italiano, o un insieme di Stati, per es. l’Europa o il mondo intero). Convenzionalmente, e corrispondentemente a tale distinzione, se lo studio riguarda la singola unità (individuo o impresa), lo si definisce con il termine di microeconomia (➔ ); se riguarda, invece, l’insieme delle unità economiche, lo si definisce con il termine di macroeconomia (➔ ). La distinzione tra microeconomia e macroeconomia è relativamente recente e di solito si fa risalire l’origine della macroeconomia all’opera fondamentale di J.M. Keynes (The general theory of employment, interest and money, 1936). Per ricchezza si deve intendere non solo l’insieme delle cose materiali (come, per es., il grano o il ferro, le automobili o i computer), ma anche la conoscenza, il ‘saper fare’ servizi e le cose immateriali (come, per es., i viaggi o la cura delle persone); la ricchezza comprende, pertanto, oltre alle ‘cose’, la moneta e il capitale finanziario (come, per es., le azioni e le obbligazioni), anche ciò che viene chiamato il capitale umano (➔).
L’e. p. come forma del sapere o disciplina autonoma dalla filosofia, e specificamente dalla filosofia p. e morale, nasce nel Settecento contemporaneamente alla trasformazione della società occidentale da prevalentemente agricola a industriale. In modo particolare, alla sua origine stanno l’e. p. classica francese – la cui scuola predominante è la fisiocrazia (➔) e il cui principale esponente è F. Quesnay (Tableau économique, 1758) – e l’e. p. classica scozzese e inglese, i cui esponenti principali sono A. Smith (The wealth of nations, 1776) e D. Ricardo (Principles of political economy, 1817). Nel 1867 K. Marx pubblica il suo Das Kapital, che, pur inserendosi nell’approccio teorico classico, ne è una critica radicale. Notevole è il fatto che negli economisti classici la nozione di ricchezza, pur nella distinzione tra ricchezza dell’individuo e ricchezza della società, è strettamente legata alla nozione di felicità o benessere (in ingl., wealth deriva da well, che significa, appunto, «bene» e «prosperità»).
Nell’Ottocento, l’e. p. viene in generale a perdere questo riferimento alla felicità e al benessere, concentrandosi piuttosto – a partire soprattutto dalla scuola neoclassica o marginalistica (i cui principali esponenti sono l’inglese W.S. Jevons, l’austriaco C. Menger e il francese M.-E.-L. Walras, autori che scrivono e pubblicano nell’ultimo terzo dell’Ottocento) – sulla nozione di scarsità. Per scarsità si deve intendere l’insieme di tutte le cose che sono, al tempo stesso, utili e disponibili in quantità limitate. L’economia si trasforma così nella «scienza che studia la condotta umana come una relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili a usi alternativi» (L.C. Robbins, 1932). In altri termini, l’economia viene ad assumere come oggetto principale le scelte che gli esseri umani, sia come individui, sia tra loro associati, devono compiere «in condizioni di scarsità». Diviene inoltre una teoria della scelta ‘razionale’, poiché, dal punto di vista del metodo, viene privilegiato quello deduttivo: la teoria economica deduce le sue proposizioni, e conseguentemente anche le sue prescrizioni di politica economica, da alcuni postulati o assiomi posti all’inizio. La formulazione più rigorosa di questo modo di intendere e fare teoria economica la si trova nella Theory of value di G. Debreu (1959).
Soprattutto negli sviluppi ulteriori della disciplina nel Novecento e nel nostro secolo, le proposizioni e i precetti dell’economia vengono tuttavia sottoposti sempre più anche alla verifica empirica, attraverso differenti possibili metodologie, tra cui spicca l’econometria (➔), il cui scopo è quello di applicare i metodi della matematica e della statistica ai dati economici effettivi. Nel pensiero economico contemporaneo vi sono diverse scuole e differenti approcci. Non tutti, per es., ritengono che il carattere scientifico della disciplina debba fondarsi necessariamente sul metodo delle scienze matematiche e fisiche, e alcuni ritengono più (o altrettanto) proficuo il ricorso a metodi di analisi maggiormente vicini ad altre discipline, come, per es., la storia, la psicologia, la sociologia, la geografia o il diritto, che non applicano necessariamente metodi matematici e/o statistici. Per e. p. si intende anche quella particolare branca del pensiero economico che studia in modo interdisciplinare (utilizzando appunto sia la teoria economica sia il diritto sia la scienza p.) le relazioni tra il sistema economico e le istituzioni p., con l’obiettivo di disegnare i migliori assetti economico-politici possibili per le società attuali. Infine, una distinzione spesso utilizzata è quella tra economia positiva ed economia normativa, che, in verità, non è che una variante della (peraltro assai complessa) distinzione filosofica tra giudizi di fatto e giudizi di valore. Per e. positiva si intende, infatti, la descrizione della realtà economica così ‘come è’ (per es., in Italia, nel 2011, il tasso di disoccupazione giovanile è stato pari al 30,1%); mentre per e. normativa si intende un giudizio, e una prescrizione di p. economica, su come la realtà economica ‘dovrebbe essere’ (per es., il tasso di disoccupazione giovanile dovrebbe essere ridotto drasticamente per ragioni di giustizia e di equità, oltre che economiche: non è accettabile che 30 giovani su 100 siano disoccupati). È evidente che si tratta di una distinzione difficile da mantenere sempre e che in essa entrano, più o meno surrettiziamente, considerazioni ideologiche, o comunque etiche o politiche. Ma ciò non fa che confermare come l’e. sia una disciplina inevitabilmente p. e non wertfrei, cioè neutrale rispetto ai fini e ai giudizi di valore.