Ecologismo
Per l'e. moderno, uno dei più importanti movimenti sociali della seconda metà del 20° sec., nato negli anni Sessanta e consolidatosi nel ventennio successivo, gli anni Novanta sono stati un periodo di profonda trasformazione, che lo ha consegnato al nuovo millennio modificato rispetto alle origini. Durante gli anni Ottanta si era avuto, a livello nazionale e internazionale, il definitivo riconoscimento del diritto all'ambiente; un ruolo fondamentale di protesta, di stimolo e di proposta era stato svolto in tutto il mondo dalle organizzazioni ecologiste, che tra la fine del decennio e ldel successivo hanno raggiunto i massimi livelli di popolarità. L'ultimo decennio del 20° sec. ha denunciato l'urgenza di affrontare problematiche ambientali globali quali la perdita di biodiversità, i cambiamenti climatici, la distruzione delle foreste e degli oceani, i rischi dell'ingegneria genetica, la minaccia nucleare, l'uso di sostanze chimiche pericolose, la fame, l'uso non sostenibile delle risorse naturali non rinnovabili, primi fra tutti i combustibili fossili. Nel frattempo gli organismi istituzionali nazionali e internazionali preposti alla salvaguardia dell'ambiente, hanno attuato in tutto il mondo programmi d'intervento dotati di risorse ben superiori a quelle utilizzabili dalle associazioni ecologiste e rendendo meno necessario il loro intervento diretto.
Il mondo ecologista si è concentrato quindi sul perseguire lo sviluppo sostenibile, i cui principi, sanciti fin dalla prima Conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente tenuta a Stoccolma nel 1972, si erano andati affermando negli anni Ottanta fino a trovare la sua definizione più nota nel rapporto Brundtland: "L'umanità ha la possibilità di rendere sostenibile lo sviluppo, cioè di far sì che esso soddisfi i bisogni dell'attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere ai loro" (The World Commission on Environment and Development, Our common future, 1987, p. 43; trad. it. 1988, p. 32). L'obiettivo di perseguire lo sviluppo sostenibile ha ampliato notevolmente il campo d'azione dell'e., allontanandolo dalla difesa a oltranza dell'ambiente naturale, e favorendo al contempo il riconoscimento dell'importanza di coniugare la sostenibilità ecologica con quella sociale ed economica. Da un lato lo sviluppo sostenibile integrava in maniera articolata e coerente la tutela dell'ambiente con i principi di cooperazione internazionale, di equità tra Nord e Sud del mondo, di responsabilità dell'individuo, di rispetto delle capacità di carico degli ecosistemi, che erano state da sempre patrimonio del mondo ecologista. Dall'altro rinunciava alla speranza di salvaguardare il mondo selvaggio, che era stata, sin dall'Ottocento, alle origini del movimento e in particolare dell'ecologia profonda (deep ecology), ammettendo la necessità di integrare conservazione e sviluppo.
Il movimento ecologista ha dovuto quindi calibrare il proprio ruolo sviluppando, al fianco delle attività tradizionali di intervento diretto sul campo, di protesta e di denuncia, quelle d'interlocuzione continua con le istituzioni ambientali nazionali e internazionali, divenendo, anche in forza del prestigio e dell'appoggio popolare acquisiti, costante interlocutore di tali istituzioni, difendendo il diritto all'ambiente, stimolando l'adozione di nuovi strumenti normativi e contribuendo all'avanzamento delle conoscenze scientifiche.
Alla fine del secondo millennio l'e. è entrato con decisione anche nell'industria, per rendere, attraverso tecnologie innovative e sistemi di certificazione, i flussi di materia e di energia sempre più compatibili con le limitate risorse del pianeta e quindi, in particolare, per trasformare i tradizionali processi lineari di produzione, destinati a produrre scarti e rifiuti, in processi circolari in grado di recuperare materiali usati ed energia. In sostanza per promuovere un capitalismo naturale che riconoscesse "la fondamentale interdipendenza tra produzione/consumo del capitale creato dall'uomo e conservazione/utilizzo del capitale naturale" (Hawken, Lovins, Lovins 1999; trad. it 2001, p. 23).
L'e. ha affrontato quindi il nuovo millennio rinnovando il proprio impegno per la conservazione della naturalità del pianeta, ma sempre più anche quale elemento fondamentale per la sopravvivenza della specie umana afflitta da problemi di fame, di sete, di riduzione delle risorse, di inquinamento.
Dalla conservazione della natura alla biologia della conservazione
La consapevolezza di non poter arrestare lo sviluppo delle attività umane, ma di poterlo al più rendere ecologicamente sostenibile, ha determinato una modificazione profonda anche nell'approccio alla conservazione della natura, o meglio della biodiversità, costituita dalle specie viventi e dagli ambienti che queste compongono. L'approccio tradizionale, infatti, basato sull'istituzione di parchi e di riserve per tutelare le aree di maggior valenza ecologica e sulla protezione delle specie minacciate dall'estinzione, ha subito un notevole avanzamento concettuale. Gli ultimi decenni del 20° sec. hanno denunciato la gravità della perdita di naturalità del pianeta, causata dalla distruzione degli ecosistemi, ma anche dalla loro frammentazione, dovute all'accelerazione avuta dall'antropizzazione del territorio.
Le basi scientifiche di questo nuovo approccio, alla cui definizione hanno dato un contributo molto importante le associazioni ecologiste, e in particolare il WWF (World Wildlife Fund), sono quelle della biologia della conservazione, nata a partire dal 1980 con gli studi di M.E. Soulè e di B.A.Wilcox sviluppati negli anni successivi da G.K. Meffe e C.R. Carrol (Principles of conservation biology, 1997). Sono stati quindi studiati e identificati i criteri per censire e mappare la biodiversità, identificare la popolazione minima vitale di una specie e la dimensione minima di un ambiente naturale funzionale a ospitarla in maniera durevole. Da tali studi è nato, a partire dagli anni Novanta, un nuovo approccio alla conservazione della natura, che pur riconoscendo ai parchi e alle riserve un ruolo fondamentale, si basa su una visione di lungo periodo (almeno 50 anni) per sistemi di area vasta, nei quali è necessario garantire il 'tessuto connettivo della vita', in altre parole la circolazione delle specie animali e vegetali, e quindi gli scambi genetici indispensabili per garantire le opzioni evolutive dei sistemi naturali.
Tale approccio eco-regionale, adottato dal WWF internazionale sin dalla metà degli anni Novanta, ha portato alla redazione di studi innovativi per la conservazione della natura, a partire dal pionieristico Wildland Project, elemento fondante di un movimento ecologista impegnato per la salvaguardia degli spazi selvaggi del Nord America.
La rivoluzione di Rio
La pietra miliare nell'evoluzione del movimento ecologista alla fine del secondo millennio è per certo rappresentata dalla Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo (UNCED, United Nations Conference on Environment and Development) tenutasi nel 1992 a Rio de Janeiro, venti anni dopo la storica Conferenza di Stoccolma.
A Stoccolma per la prima volta era stata riconosciuta la responsabilità dell'uomo nei confronti delle generazioni future per la protezione della natura, la necessità di integrarla nei programmi di sviluppo anche tenendo conto delle implicazioni politiche che vi erano connesse, l'esigenza di affrontare le tematiche ambientali a livello globale. A Stoccolma venne gettato il seme di quello che sarebbe successivamente divenuto, quasi venti anni dopo, lo sviluppo sostenibile: il movimento ecologista e le Nazioni Unite avviarono infatti due percorsi autonomi finalizzati alla salvaguardia del pianeta, che si sarebbero integrati definitivamente proprio nella Conferenza di Rio de Janeiro, ma che condivisero nel corso degli anni tappe importanti, grazie al contributo dato dagli ecologisti in termini di stimoli, di conoscenze e di confronto.
Una tappa fondamentale verso la Conferenza di Rio de Janeiro è stata la presentazione, nel 1991, da parte dell'Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN), del Programma per l'ambiente delle Nazioni Unite (UNEP) e del WWF, della strategia 'Prendersi cura della Terra, strategia per un vivere sostenibile'. Scopo di tale documento, che ha ampliato e approfondito i contenuti della Strategia mondiale per la Conservazione, pubblicata nel 1980 dalle stesse organizzazioni, consiste nel: "contribuire a migliorare le condizioni di vita della popolazione mondiale, definendo due esigenze precise: mantenere le attività umane nei limiti delle capacità di carico della Terra ed eliminare le disparità esistenti a livello sia di sicurezza sia di opportunità tra le regioni ricche e quelle povere del mondo". (IUCN/UNEP/WWF, Caring for the Earth, a strategy for sustainable living, 1991; trad. it 1991, p. 3). Sono stati individuati i principi guida per la creazione di società sostenibili e sono state definite anche azioni che ciascun individuo, a diversi livelli e con diversi ruoli, può mettere in pratica per attuarle. Intanto il mondo scientifico ha messo a fuoco i fondamenti dello sviluppo sostenibile e in particolare i rapporti tra equilibrio ecologico ed equilibrio economico, grazie soprattutto alle ricerche e all'impulso di R. Costanza e H. Daly. È nata così l'economia ecologica (ecological economics), come superamento dell'economia tradizionale, dell'economia ambientale e delle risorse naturali (environmental economics), quale nuovo campo di studi interdisciplinare attento alle relazioni tra ecosistemi e sistemi economici in senso lato. Contrariamente all'economia tradizionale, completamente astratta dall'ambiente, "la visione preanalitica su cui si basa l'economia ecologica è che l'economia, nelle sue dimensioni fisiche, è un sottoinsieme aperto di un ecosistema materialmente chiuso, che non cresce ed è finito" (Daly 1996, p. 103). Per l'economia ecologica la sostenibilità è "sviluppo senza una crescita che superi la capacità portante dell'ambiente, dove sviluppo significa miglioramento qualitativo e crescita significa incremento quantitativo" (p. 14). Durante la Conferenza di Rio de Janeiro, governi ed ecologisti hanno preso atto congiuntamente dei limiti della crescita, e conseguentemente della necessità di perseguire uno sviluppo ecologicamente, socialmente ed economicamente sostenibile. A tale fine, di enorme importanza storica, è stato definito un vero e proprio programma operativo congiunto dei governi e del mondo ecologista per la salvaguardia ambientale a livello globale, da attuarsi a diversi livelli, fino a quello delle comunità locali. A vent'anni dalla Conferenza di Stoccolma, nella consapevolezza che le scelte condivise e partecipate siano quelle destinate ad aver maggior successo, governi ed ecologisti si sono alleati per risolvere le problematiche ambientali, articolando la propria azione nel rispetto del principio 'pensare globalmente e agire localmente' avendo quindi una visione globale declinata a livello locale.
I risultati della Conferenza sono stati straordinari, in quanto sono state approvate: la Dichiarazione di Rio de Janeiro su ambiente e sviluppo, la Dichiarazione dei principi per la gestione sostenibile delle foreste, l'Agenda 21, la Convenzione sulla biodiversità e la Convenzione sui cambiamenti climatici. È stato anche deciso l'inizio dei negoziati per la Convenzione sulla desertificazione, che è stata successivamente adottata nel 1994. è stata inoltre istituita la Commissione per lo sviluppo sostenibile (CSD), che riveste un ruolo importante per il coordinamento a livello internazionale dell'attuazione di quanto previsto dall'Agenda 21.
La Dichiarazione di Rio de Janeiro si articola in 27 articoli basati su principi che si ritrovano nella Dichiarazione dei principi per la gestione sostenibile delle foreste e nell'Agenda 21; i più importanti riguardano: l'equità fra generazioni, l'integrazione, le responsabilità comuni, ma differenziate, la non discriminazione, la precauzione, il principio secondo cui chi inquina paga, la necessità di salvaguardare le comunità indigene, la pace, il diritto internazionale in materia ambientale. Il risultato più importante per la tutela dell'ambiente a livello globale è stato, all'atto pratico, l'Agenda 21, un programma di azioni per attuare lo sviluppo sostenibile nel 21° sec., articolato in quattro sezioni delle quali le prime tre dedicate nell'ordine alle dimensioni dello sviluppo sostenibile: economica, ambientale e sociale e la quarta agli strumenti, finanziari e non, necessari per l'attuazione. L'Agenda 21 ha stabilito obiettivi e tempi per il loro raggiungimento, fissando verifiche quinquennali. Tra gli impegni rispettati si può, per es., citare il Protocollo di Kyoto (1997) della convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, mediante cui i Paesi industrializzati si sono impegnati a ridurre, nel periodo 2008-2012, il totale delle emissioni di gas a effetto serra di almeno il 5% rispetto alle emissioni del 1990.
Grande importanza ha avuto la Dichiarazione del millennio delle Nazioni Unite (United Nations millennium declaration, 2000), contenente i principi su cui fondare i rapporti internazionali del terzo millennio, e una serie di azioni e di obiettivi per lo sviluppo sostenibile.
L'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha deciso che la revisione dello stato di avanzamento dell'Agenda 21 coincidente con il decennale della Conferenza di Rio de Janeiro, all'alba di un nuovo millennio, si svolga con la partecipazione di capi di Stato e di capi di governo, allo scopo precipuo di rafforzare l'impegno globale per lo sviluppo sostenibile. L'evento si è svolto a Johannesburg, nella Repubblica Sudafricana, con una partecipazione straordinaria: più di 100 tra capi di Stato e capi di governo, 10.000 delegati di governi e organizzazioni internazionali, 8.000 delegati del mondo industriale, 4.000 giornalisti. Sono stati approvati: la Dichiarazione di Johannesburg sullo sviluppo sostenibile, che ha ribadito l'importanza del percorso iniziato a Stoccolma e proseguito a Rio de Janeiro e il Piano di attuazione (JPoI), accordi di collaborazione tra governi e vari portatori d'interesse, incluse imprese e associazioni non governative, per mobilitare risorse utili (La Camera 2003).
Il movimento ecologista in Italia dopo il 1990
Nel 1990 hanno operato in Italia 16 associazioni ambientaliste riconosciute dal Ministero dell'Ambiente e della Tutela del territorio: le più attive, tra quelle prettamente ecologiste, erano il Fondo mondiale per la natura (WWF Italia), Legambiente, Greenpeace, Italia nostra, Lega italiana protezione uccelli (LIPU), Amici della Terra, Federazione italiana pro natura e mare vivo. A esse si aggiungevano altre, meno focalizzate sulle problematiche ambientali, tra cui il Fondo per l'ambiente italiano (FAI), il Club alpino italiano (CAI) e il Touring club, oltre a una moltitudine di piccole associazioni e gruppi attivi locali non riconosciuti. Gli anni Novanta si sono aperti per il movimento ecologista italiano con due eventi molto importanti. Il primo è stato il referendum popolare per abrogare l'art. 842 c.c., che autorizza l'ingresso dei cacciatori sui terreni privati, e sulla riduzione dell'uso dei pesticidi (1990). Tale referendum, pur non raggiungendo il risultato sperato dagli ecologisti, ha portato all'emanazione della nuova legge sulla caccia (l. 1 febbr. 1992 nr. 157) che riduceva la stagione venatoria e il numero di specie cacciabili, legando i cacciatori al proprio territorio di appartenenza. Il secondo è stato un successo, maturato dopo oltre trent'anni di dibattiti e battaglie: l'emanazione della legge quadro sulle aree protette (l. 6 dic. 1991 nr. 394), che ha fatto finalmente entrare la tutela della natura di diritto tra le conquiste sociali e culturali della comunità nazionale e ha fatto salire al 10% nell'anno 2000 la percentuale di territorio nazionale protetto, raggiungendo l'obiettivo che gli ambientalisti si erano posti nel 1980 lanciando la 'sfida del 10%', durante il convegno presso l'Università di Camerino.
Le grandi associazioni, che un tempo erano fondate sul volontariato e sulle attività di contestazione, negli anni Novanta si sono attrezzate per interloquire costantemente con le istituzioni sia centrali sia periferiche, per svolgere quelle attività che scaturiscono da un e. che accetta il concetto d'impatto ambientale, associando alla protesta la proposta istituzionale e tecnica. Grazie al sostegno finanziario dei propri membri, esse si sono dotate di strutture professionali adeguate ai tempi, ma in alcuni casi troppo burocratizzate, riducendo la propria capacità d'intervento. Ai volontari che si erano battuti, in un'Italia priva di legislazione ambientale, perché fosse riconosciuto il diritto di godere del patrimonio naturale, anche a costo della limitazione dei diritti privati, si sono nel corso del tempo aggiunti altri, più attenti alle problematiche emergenti, derivanti dagli effetti ambientali e sociali della globalizzazione economica. La politica si avvicina così all'ambientalismo, ne assorbe talvolta uomini e idee, offuscando però in alcuni casi l'immagine del movimento davanti all'opinione pubblica.
Il movimento ecologista italiano ha affronta il 21° sec. sostenendo le grandi campagne internazionali, svolgendo attività di comunicazione, ricoprendo un ruolo fondamentale per l'emanazione di leggi, quali, per es., la legge Galli sulle acque (l. 5 genn. 1994 nr. 36), la legge Ronchi sui rifiuti (d. legisl. 5 febbr. 1997 nr. 22), il recepimento della Direttiva Comunitaria Habitat 92/43/CEE (d.p.r. 8 sett. 1997 nr. 357), il nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio (d. legisl. 22 genn. 2004 nr. 42). Tali iniziative, pur importanti, sono meno attraenti per il pubblico delle attività concrete per la conservazione delle grandi specie animali, delle aree naturali e dei beni ambientali, così che il numero di associati e le donazioni in alcuni casi tendono a rimanere costanti, in altri a diminuire. Le associazioni ambientaliste godono ormai di un clima di generale consenso, ma il supporto diretto da parte dell'opinione pubblica non evolve di conseguenza, anche perché attratto da altre problematiche emergenti e in gran parte irrisolte: le guerre, la fame nel mondo, la tutela dell'infanzia, la lotta alle malattie. Intanto, a dimostrazione del prestigio raggiunto, le associazioni più autorevoli accumulano, grazie alla regolarità con cui ricevono consistenti donazioni e lasciti testamentari, cospicui patrimoni costituiti da beni naturali e ambientali in tutto il Paese. È il caso del WWF Italia, proprietario di oltre 4560 ettari di aree naturali, e del FAI, che gestisce ben 35 proprietà comprendenti insediamenti storici, artistici e paesaggistici: in entrambi i casi si tratta di siti che sono distribuiti su tutto il territorio nazionale protetti e aperti al pubblico.
Il movimento ecologista italiano ha affrontato il 21° sec. con ben 58 associazioni ambientaliste riconosciute dal Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio, molte delle quali sorte, per ragioni politiche e con punti di vista molto diversi, in un clima di generale condivisione delle problematiche ambientali. Il loro futuro è legato alla possibilità di sostenere il prestigio e le competenze acquisite con l'indipendenza e l'aggressività delle origini, affiancate dalle migliori conoscenze scientifiche disponibili, per continuare a svolgere un ruolo fondamentale nella società civile difendendo i risultati raggiunti, purtroppo messi a rischio quotidianamente da cambiamenti politici, da interessi particolari e talvolta inconfessabili, dalla malavita.
bibliografia
H.E. Daly, Beyond growth. The economics of sustainable development, Boston 1996 (trad. it. Torino 2001).
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P. Hawken, A. Lovins, L.H. Lovins, Natural capitalism, creating the next industrial revolution, Boston 1999 (trad. it. Milano 2001).
F. La Camera, Sviluppo sostenibile, origini, teoria e pratica, Roma 2003.
G. Bologna, Manuale della sostenibilità. Idee, concetti, nuove discipline capaci di futuro, Milano 2005.