doping
<dë'upiṅ> (it. <dòping>) s. ingl., usato in it. al masch. – Le problematiche relative al d. hanno subito nei primi anni del terzo millennio un processo di migliore messa a fuoco, peraltro ancora in atto. Le direttrici principali di tale argomento riguardano la definizione di d. (in partic. l'elenco di sostanze e pratiche dopanti), l'entità del fenomeno, le azioni di contrasto. Trasversalmente a tali filoni agisce però il problema della mentalità della scorciatoia, dei rischi associati per la salute e, più in generale, della medicalizzazione nello sport in una società definita da alcuni studiosi 'farmacocentrica': il fenomeno del ricorso al farmaco (anche consentito) è dunque un problema riguardante non solo l´etica sportiva e i rischi per l'atleta, ma anche la salute pubblica. Una ragionevole e, generalmente, accettata definizione di d. è la seguente: somministrazione o assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l’adozione di pratiche mediche, o l’assoggettamento a esse, non giustificate da fatti patologici e idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo per alterare le prestazioni agonistiche degli atleti. Sono inoltre equiparate al d. la somministrazione di farmaci o sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l’adozione di pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche, che siano finalizzate o idonee a modificare i risultati dei controlli. La lotta al d. si rivela complessa soprattutto perché la ricerca di pratiche dopanti sempre più sofisticate si avvale, di fatto, dei progressi della ricerca scientifica ordinaria che sfrutta in maniera fraudolenta. Anche se il pensiero va facilmente alle grandi prestazioni dei campioni e dei professionisti, il fenomeno risulta in espansione soprattutto a livello dilettantistico e amatoriale. A puro titolo esemplificativo (poiché per ovvi motivi risulta complesso inquadrare statisticamente il fenomeno in termini totalmente certi), si possono citare, per quanto concerne l'Italia, i dati diffusi nel maggio 2012 dalla Commissione per la vigilanza e il controllo del doping (CVD) del Ministero della Salute (relativi all’anno 2011). Su 1676 atleti controllati in 386 eventi sportivi, 52 sono risultati positivi alle sostanze vietate (3,1%), in prevalenza maschi (più del doppio delle donne). Le sostanze più usate sono state diuretici e agenti mascheranti, al secondo posto gli stimolanti. Il 60% degli atleti controllati aveva un’età inferiore a 29 anni, la prevalenza di positività ai test antidoping è stata rilevata in atleti con età superiore a 44 anni. Oltre il 63% degli atleti è risultato positivo a un unico principio attivo, il 31% è risultato positivo a due sostanze e 2 atleti sono risultati positivi a 6 sostanze contemporaneamente. Occorre precisare che tali controlli si sono svolto nei settori dilettantistici, giovanili, nelle serie minori (dalla D in giù) e nelle discipline sportive meno controllate dal CONI. L'esiguità del numero degli atleti, non rappresentativo della federazione di appartenenza, rende dunque tali casi di positività non interpretabili come una stima della diffusione del fenomeno all’interno delle singole federazioni; si tratta tuttavia di dati significativi nello sport amatoriale e che riguardano perciò la popolazione generale. Nei primi anni del terzo millennio le attività antidoping si sono evolute e perfezionate. Dopo l'istituzione della WADA (World anti-doping agency) nel 1999 da parte del CIO (Comité international olympique) e l'ingresso nelle piene funzioni di tale organismo indipendente in occasione delle Olimpiadi di Sydney 2000, nel 2003 la Conferenza mondiale sul doping sportivo di Copenaghen del 3-5 marzo 2003 ha portato alla Dichiarazione sulla lotta al doping sportivo, con lo scopo di supportare la cooperazione internazionale tra autorità governative per rafforzare l'armonizzazione delle politiche antidoping e delle procedure in ambito sportivo e promuovere una convenzione internazionale dei vari paesi nell'ambito della lotta antidoping; in questa occasione è stato adottato il codice Wada, entrato in vigore il 1° gennaio 2004. Nel 2005, inoltre, circa 200 paesi, alla Conferenza generale di Parigi dell'UNESCO del 19 ottobre, hanno sottoscritto la Convenzione internazionale contro il doping nello sport, con l'obiettivo di una sua eliminazione. Il codice Wada subisce periodicamente aggiornamenti, variazioni e precisazioni: l'ultima sua versione è stata approvata nel corso della Conferenza mondiale sul doping nello sport del 15-17 novembre 2007 di Madrid ed è entrata in vigore il 1° gennaio 2009. Esso fissa le regole e i principi dell'antidoping, che devono essere seguiti da WADA, CIO, federazioni; e stabilisce standard internazionali uguali per tutti i laboratori, relativamente a modalità di controllo e sostanze soggette a restrizione a fine terapeutico. Il Codice contiene anche una nuova definizione di d., che è relativa non soltanto alla presenza di una sostanza vietata, ma anche a quella dei suoi metaboliti e dei suoi marker. Inoltre, non si parla più di sangue o urina ma di 'prelievi corporali'. Per essere aggiornato sulle sostanze proibite l'atleta può sottoscrivere una sorta di documento personale, mediante il quale ottiene, per es. collegandosi in Internet, dati relativi alle sostanze vietate o a qualsiasi altro quesito relativo al doping. Le sostanze dopanti sono vietate sia in competizione sia al di fuori di essa; è considerato d. anche il semplice possesso da parte dell'atleta (o di membri del personale della squadra o dell'organismo di cui l'atleta fa parte) di sostanze o strumenti che servono per pratiche proibite. Ogni federazione internazionale e ogni organizzazione di controllo nazionale deve stilare un elenco preciso di sportivi di livello internazionale e nazionale da sottoporre a esami mirati che saranno accuratamente pianificati, privilegiando i controlli a sorpresa. La presenza nel fisico di una sostanza proibita, dei suoi metaboliti o dei suoi marker, l'uso o il tentativo d'uso di sostanze o metodi proibiti, il rifiuto di sottoporsi alle analisi, la falsificazione o il tentativo di falsificazione dei controlli comportano due anni di sospensione alla prima infrazione, e sospensione a vita alla seconda. Il Codice prevede sanzioni anche per le squadre: se due elementi sono trovati positivi nel corso dello stesso turno di prelievi, l'intera squadra dovrà superare una sorta di 'routine' di riqualificazione sottoponendosi a ripetuti test a sorpresa. Il tribunale di appello per atleti, dirigenti, federazioni internazionali e nazionali, nonché per la stessa WADA, è il TAS (Tribunale di arbitrato sportivo) di Losanna. In Italia, a livello di ordinamento giuridico ordinario, è stata promulgata la legge 14 dicembre 2000, n° 376, Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping. In ambito sportivo, come è scritto tra l'altro nel Documento tecnico attuativo del Codice mondiale antidoping e dei relativi standard internazionali varato dal Coni (Comitato olimpico nazionale italiano) all'inizio del 2012, è proprio il CONI, in quanto emanazione del CIO ed ente che cura l’organizzazione e il potenziamento dello sport nazionale, ad adottare le misure di prevenzione e repressione del doping nell’ambito dell’ordinamento sportivo: in qualità di Organizzazione nazionale antidoping (NADO) è l’ente nazionale al quale compete la massima autorità e responsabilità in materia di attuazione e adozione del Programma mondiale antidoping WADA, ivi comprese pianificazione e organizzazione dei controlli, gestione dei risultati dei test e conduzione dei dibattimenti. Alla lista di sostanze e metodologie proibite si è aggiunta, negli ultimi tempi, la possibilità del cosiddetto doping genetico, ossia lo sfruttamento delle biotecnologie per intervenire sulle stesse caratteristiche genetiche dell'atleta tramite prelievo di un DNA specifico e l'inserimento di geni opportunamente modificati; si tratta, in sostanza, di un uso fraudolento e ingiustificato di una sorta di terapia genica. Il problema della manipolazione genetica si pone a sua volta nel controllo e nella validazione delle prestazioni e naturalmente anche per i rischi e gli effetti collaterali che essa comporta.