DONATO
Titolare di Ostia, una delle più importanti diocesi vescovili suffraganee della Chiesa romana, testimone e protagonista di alcune fra le principali iniziative di politica estera del Papato nel sec. IX, collaboratore di tre diversi pontefici in un'epoca di aspre lotte e continui rivolgimenti fra le diverse fazioni politiche che ruotavano intorno al soglio pontificio, per noi D. rimane tuttavia quasi sempre nell'ombra perché, all'infuori di alcuni episodi salienti della sua vita, che lo videro coinvolto nel più ampio gioco dei rapporti fra Roma e Bisanzio, nulla sappiamo di lui. Non conosciamo la data della sua nascita né da quale famiglia provenisse; non sappiamo quando sia divenuto sacerdote, né quando sia stato creato vescovo di Ostia, anche se sappiamo che sul finire dell'861 presule di questa diocesi era ancora Megisto (o Megezio); non possiamo dire infine con esattezza nemmeno quando sia morto. Quando D. viene ricordato per la prima volta dalle fonti a noi note, sul finire dell'866, appare infatti già vescovo di Ostia ed incaricato da papa Niccolò I, insieme con Leone, presbitero del titolo di S. Lorenzo in Damaso, e col diacono Marino (poi papa primo di questo nome), di una importante missione presso la corte di Bisanzio.
Scopo della legazione, che si inseriva nel quadro dei difficilissimi rapporti esistenti in quegli anni fra Roma e Bisanzio, era quello di recapitare all'imperatore ed alle più alte autorità politiche bizantine una serie di lettere del pontefice nelle quali ancora una volta veniva ribadita da parte romana la condanna del patriarca Fozio ed il rifiuto a ratificare la condanna pronunciata dal concilio costantinopolitano dell'861 nei confronti del patriarca deposto Ignazio. Fermo e deciso nel tono, il papa si mostrava però meno intransigente che in altre lettere scritte nel passato e lasciava spazio per un'eventuale possibilità di accordo con l'imperatore. Nel dispaccio contenente le credenziali, il papa definiva D. "reverentissimum et sanctissimum Sanctae Ecclesiae Ostiensis episcopum".
D. parti da Roma sul finire dell'866 con i suoi due compagni e con i vescovi Formoso di Porto e Paolo di Populonia, incaricati, questi ultimi, di una missione presso il khagan Boris, principe dei Bulgari. Le due legazioni avrebbero dovuto fare la strada insieme sino al territorio bulgaro; quindi D., il presbitero Leone e il diacono Marino avrebbero continuato il loro cammino verso Costantinopoli.
Convertitosi al cristianesimo nell'864 entrando subito nella sfera d'influenza della Chiesa bizantina, Boris era però ben presto entrato in contrasto con il patriarcato di Costantinopoli, non trovando in esso le risposte che cercava ai problemi religiosi e civili del suo popolo e non essendo riuscito ad ottenere per la sua Chiesa un patriarcato indipendente che gli garantisse quell'autonomia religìosa che era, ai suoi occhi, elemento indispensabile per tutelare la propria autonomia politica dall'Impero d'Oriente. Nell'agosto di quello stesso 866 aveva perciò inviato a Roma una propria ambasceria con lo scopo di chiedere al pontefice una risposta ai suoi molti dubbi religiosi e di ottenere l'erezione in patriarcato della sua Chiesa. Mostrandosi in questo più abile e sottile dei patriarca greco, Niccolò I si era affrettato a fornire al principe bulgaro tutte le risposte ed i chiarimenti richiesti e nel novembre gli aveva anche inviato alcuni missionari franchi e i due vescovi, Paolo di Populonia e Formoso di Porto, per risolvere tutti gli eventuali dubbi rimasti aperti ed assicurare così alla Chiesa di Roma il definitivo controllo religioso, ma anche politico, di quel popolo di neofiti.
Le due legazioni erano perciò partite insieme da Roma. Giunti presso Boris e trascorsi alcuni mesi presso di lui, nella primavera dell'867 D. ed i suoi due compagni si erano nuovamente messi in cammino per raggiungere Bisanzio e compiere la loro missione, ma, giunti al confine con l'Impero, erano stati fermati da un ufficiale di nome Teodoro che, prima di consentire loro di proseguire, aveva voluto avere istruzioni da Bisanzio. Trattenuto per circa quaranta giorni in una condizione di semiprigionia, D. era stato infine costretto a tornare, insieme con i compagni. sul propri passi. Era così rientrato direttamente a Roma, senza aver potuto consegnare le lettere pontificie all'imperatore.
Dopo un primo momento di sorpresa seguito all'improvviso mutamento di fronte di Boris ed al suo avvicinamento alla Chiesa di Roma, il patriarca di Costantinopoli ed il governo bizantino, consci dell'importanza politica della vicenda, si erano affrettati ad organizzare una rapida controffensiva: non potendo contrastare le mosse di Boris sul piano politico o su quello diplomatico, avevano deciso di staccarlo dalla Chiesa occidentale ricorrendo a pressioni di natura religiosa. Convocato dunque rapidamente un sinodo a Costantinopoli, vi avevano fatto condannare come eretiche e false tutta una serie di posizioni espresse dai missionari franchi che si trovavano presso i Bulgari. Tale condanna era stata immediatamente comunicata a Boris nella speranza di riuscire ad allontanarlo dagli Occidentali. Il messaggero imperiale si era quindi presentato a D. e agli altri messi papali: recava loro un documento in cui si poneva, come condizione irrinunciabile per poter proseguire il viaggio verso Costantinopoli, l'adesione alle decisioni prese dal sinodo e il riconoscimento della legittimità del patriarca Fozio, richiesta, questa, chiaramente inaccettabile per i rappresentanti del papa che, come ben sapevano i Greci, mirava ad una soluzione radicalmente opposta del problema. Al fermo rifiuto di D. e dei suoi compagni a sottoscrivere un simile documento le autorità bizantine avevano risposto impedendo loro di proseguire il viaggio ed ai tre non era rimasto che rientrare a Roma.
Pochi mesi dopo, nel dicembre dell'867, troviamo nuovamente D. menzionato nelle fonti: questa volta il suo nome è legato ad un avvenimento religioso ed istituzionale di grande importanza per la Chiesa di Roma. Il 14 dicembre infatti, insieme a Leone, vescovo di Silva Candida, ed a Pietro, vescovo di Gabii, D. procedette alla consacrazione di Adriano II, da poco eletto papa al posto di Niccolò I, morto circa un mese prima.
Erano già alcuni secoli che, come risulta anche dalla formula 57 "De ordinatione pontificis" del cosiddetto Liber diurnus Romanorum pontificum (a cura di H. Foerster, Berlin 1958, p. 111), si era venuta consolidando la tradizione che a consacrare il pontefice fossero i vescovi di Ostia, di Albano e di Porto, vale a dire i titolari delle più importanti diocesi suburbicarie. Tale prassi, ci informa il Liber pontificalis nella vita di Adriano II, non fu però rispettata in questo caso per due motivi: la vacanza della sede episcopale di Albano e l'assenza da Roma del vescovo di Porto, Formoso, impegnato nella legazione presso i Bulgari; a D. furono affiancati altri due vescovi titolari di diocesi suburbicarie.
Trascorso poco più di un anno, D. venne chiamato nuovamente a svolgere una missione diplomatica, questa volta ancor più prestigiosa ed impegnativa; nel giugno dell'869, infatti, fu prescelto da Adriano II come legato pontificio al concilio ecumenico allora convocato a Costantinopoli per chiudere definitivamente la questione di Fozio dopo che questi, in seguito all'avvento dell'imperatore Basilio (23 sett. 867) ed ai mutamenti politici che ne erano seguiti, era stato deposto e sostituito con l'antico patriarca Ignazio. Lo veniamo a sapere da una lettera del 10 giugno 869 con la quale il papa raccomandava al nuovo imperatore bizantino i suoi tre inviati: D., appunto, il vescovo di Nepi Stefano e, di nuovo, il diacono Marino.
L'ambasceria parti da Roma nell'estate dell'869 ed il 5 ottobre era presente all'apertura della prima sessione dei lavori del concilio; questi si protrassero per alcuni mesi, sino alla chiusura della nona ed ultima sessione nel marzo dell'870, e portarono, seppur tra molteplici difficoltà, alla condanna di Fozio. Tuttavia, quando il concilio stava per chiudersi, nel corso di una conferenza cui intervennero, alla presenza del basileus, ilpatriarca Ignazio, D. e i suoi due colleghi, e i rappresentanti del khagan dei Bulgari, i rappresentanti dei patriarcati orientali si espressero in favore dell'affermarsi della giurisdizione del patriarcato di Costantinopoli sulla Chiesa bulgara. Vedendo che a nulla servivano le sue proteste, D., facendosi forte di una lettera di Adriano II, che consegnò solo allora ad Ignazio, vietò a quest'ultimo di inviare sue missioni in territori di dominio bulgaro. Ma inutilmente: il gesto non servì a modificare le decisioni dell'assemblea. Si chiudeva così con uno scacco della politica papale la partita che aveva costituito uno dei principali motivi di scontro fra Roma e Bisanzio negli ultimi anni.
Nel marzo dell'870 D. iniziò, con i suoi due colleghi, il viaggio di ritorno, portando con sé gli atti del concilio destinati al papa. Fino a Durazzo furono scortati dallo spatario Teodosio: a Durazzo si accomiaurono da lui e dalla scorta e si imbarcarono su una nave diretta ad Ancona. Ma durante il viaggio il battello venne abbordato dai pirati Narentani guidati dal loro capo Domagoi: D. fu spogliato di tutto ciò che possedeva, fatto prigioniero e trattenuto in ostaggio con i suoi compagni per ben nove mesi, e solo sul finire dell'anno, il 22 dicembre, dopo ripetuti interventi di Adriano II e dello stesso imperatore franco Ludovico II, venne liberato e poté così far ritorno a Roma.
A D. erano naturalmente stati sottratti, nel corso delle tempestose vicende con cui si era concluso il viaggio di ritorno, anche gli atti ufficiali del concilio, dei quali era latore. Adriano II ne era però potuto entrare ugualmente in possesso grazie ad una copia portata a Roma da Anastasio Bibliotecario, il quale, arrivato a Costantinopoli alla testa di un'ambasceria inviata da Ludovico II per questioni matrimoniali, aveva potuto partecipare ai lavori dell'ultima sessione del concilio, mettendo a disposizione dei tre legati pontifici la sua conoscenza del greco. Rientrato in Italia seguendo una diversa rotta, aveva potuto raggiungere tranquillamente, e molti mesi prima di D., Roma.
Dopo questi avvenimenti, le fonti a noi note non ci dicono più nulla di D. sino all'875, quando il suo nome compare in una lettera di papa Giovanni VIII, purtroppo pervenutaci mutila. In essa il pontefice tenta di dissuadere i governanti delle città di Napoli, Salerno ed Amalfi dallo stringere accordi con i Saraceni, e conclude raccomandando loro due suoi messi: D., appunto, ed il presbitero Eugenio, che sarebbe poi stato il successore di D. sulla cattedra di Ostia. Dopo quest'ultimo accenno, di D. non conosciamo più nulla: sappiamo solamente, ed in via indiretta, che dovette morire non molto tempo dopo, nel corso dell'876. Ce ne accerta una lettera di Giovanni VIII a Lamberto, vescovo di Capua, del 15 marzo 877, dalla quale risulta che allora vescovo di Ostia non era già più D., ma il suo successore Eugenio.
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