JAJA, Donato
Nacque a Conversano, presso Bari, il 16 giugno 1839 da Florenzo e da Elisabetta Pinto. Cominciò gli studi al seminario in vista di una futura carriera ecclesiastica, ma nel 1860, dopo l'unificazione, si trasferì a Napoli, dove studiò sotto la guida del filosofo neokantiano F. Fiorentino, e nel 1863 a Bologna, per seguire il maestro, con il quale si laureò. Dopo la laurea insegnò al liceo di Caltanissetta, quindi a Chieti. Tornato a Bologna nel 1874, vi conobbe e frequentò A.C. De Meis e per suo tramite B. Spaventa che, oltre a influenzare lo stesso Fiorentino, divenne in seguito una figura chiave per la formazione intellettuale dello Jaja. Con Spaventa i rapporti dello J. divennero regolari quando nel 1879 egli si trasferì a Napoli per insegnare al liceo Genovesi. Nel 1882 conseguì la libera docenza e nel 1887 ottenne la cattedra di filosofia teoretica a Pisa, dove rimase per il resto della sua vita. Tra i suoi allievi ebbe G. Gentile, che gli successe poi sulla cattedra, e G. Lombardo Radice.
Nella dissertazione di laurea, data alle stampe con il titolo Origine storica ed esposizione della Critica della ragion pura di E. Kant (Bologna 1869), lo J. colloca Kant all'origine di una nuova scena del pensiero che raccoglie le due tradizioni precedenti lungo le quali egli articola la storia della filosofia moderna successiva a Cartesio: da una parte il filone filosofico che si pone il problema dell'infinito, dell'universalità e della necessità (Malebranche, Spinoza, Leibniz); dall'altra la tradizione francese, ma soprattutto inglese, sensistica ed empiristica (Locke e Hume). Kant pone il problema, ritenuto centrale dallo J., del debito che il pensiero ha nei confronti sia dell'esperienza, sia dell'universale. Tuttavia lo J. ritiene che Kant non abbia dato una soluzione adeguata e definitiva ed è anzi incline a sostenere che la soluzione vada trovata nei continuatori dell'opera kantiana. Emerge già qui chiaramente la tendenza a leggere la tradizione idealistica alla luce degli interrogativi kantiani, in una prospettiva che egli derivava da Fiorentino. Secondo lo J., Kant pone il problema della conciliazione di questi due elementi, di senso e intelletto, ma non lo risolve: "La manchevolezza", sostiene, "è nell'intima natura del sistema kantiano: in quest'ultimo lo spirito è dualità, scissura, intuizione e concetto, recettività e spontaneità, entrambi irriducibili" (p. 83), mentre la soluzione consiste nel mettere in luce l'unità, nel mostrare come l'universale kantiano sia non esclusivamente soggettivo ma oggettivo e pertanto corrisponda alla realtà. Compare qui un interesse dello J. per il modo in cui l'intelletto proviene dal senso (cfr. Plebe, in Guzzo - Plebe, p. 76), che mostra anche una sensibilità più vasta verso il regno della natura e le scienze empiriche e che in seguito lo portò a confrontarsi con il positivismo e l'evoluzionismo. Pesavano in questo probabilmente sia gli interessi positivistici di Fiorentino, cui egli dedicava questo volume, sia l'ambiente intellettuale bolognese, in cui spiccavano figure quali quella di De Meis.
Lo J. ebbe modo di sviluppare e precisare tali temi in uno Studio critico sulle categorie e forme dell'essere di A. Rosmini (ibid. 1878; nuova ed., a cura di P.P. Ottonello, Stresa 1999). Qui egli critica il Rosmini della Teosofia in quanto non dà spazio né illustra la centralità della mente nel suo rapporto con l'essere, mentre questo va visto alla luce dell'essere pensato dalla mente: "È necessario studiare la mente nella serie non interrotta dei suoi fenomeni, attraverso cui passa nel formarsi" (p. 112). Kant ha colto questo punto in quanto ha mostrato che prima di poter parlare dell'essere si deve indagare la natura della mente, e tuttavia ha finito con il postulare una irriducibile alterità della cosa rispetto alla mente. Fichte, e quindi Hegel, hanno invece compiuto il necessario passo in avanti mostrando come ciò che è fuori della mente è il risultato di ciò che la mente e il pensiero hanno rivelato.
Gentile (1923, p. 202) ebbe modo di considerare a questo proposito che la lettura che il proprio maestro aveva dato di Hegel era personale e forse inadeguata sul piano interpretativo: era uno Hegel mediato in primo luogo da B. Spaventa, che ne aveva sottolineato l'aspetto soggettivistico, e che lo J. aveva letto in modo ancora più immanentistico facendo equivalere l'essere con il pensiero umano.
Temi e ispirazioni filosofiche - in cui si mescolavano influssi hegeliani, fichtiani, e interessi verso le scienze e la dimensione empirica del pensiero - spinsero lo J. a occuparsi del positivismo e in particolare delle opere di H. Spencer in una serie di saggi. In una prima memoria del 1883, Dell'apriori nella formazione dell'anima e della coscienza (Napoli 1881; ma si veda anche La somiglianza nella scuola positivista e l'identità nella metafisica nuova, ibid. 1888), lo J. nell'esaminare e nel correggere il Fiorentino si occupa dei tre momenti della conoscenza: sensazione, rappresentazione e concetto. Nel discutere della sensazione ha già modo di articolare una posizione cui dette poi compiutezza in Sentire e pensare.
Secondo lo J. la sensazione non è solo stimolo che proviene dall'esterno ma è anche modificazione: è interna all'atto del sentire e alla sfera spirituale. In questo lo J. da una parte valorizza l'importanza dello studio scientifico dei modi in cui la conoscenza sorge e ha luogo, ma dall'altra mette in luce l'inadeguatezza di un punto di vista esclusivamente empirico. Tornato su questi temi nella memoria L'unità sintetica kantiana e l'esigenza positivista (ibid. 1885) il filosofo si propose di conciliare l'esigenza positivistica, che nega elementi a priori e che è invece interessata a ricostruire geneticamente il formarsi dei fenomeni, e l'esigenza kantiana, che vuole mantenere valido il punto di vista universale. Lo J. opera tale conciliazione ritenendo che il passaggio dalla sensazione sino alle forme più evolute di coscienza sia solo un passaggio di grado, mai categorico. Egli si appropria dell'idea di sviluppo e di ricostruzione genetica e la colloca nell'immagine idealistica di un essere che dà forma a se stesso a partire dai gradi più semplici e primitivi sino alle forme più sofisticate.
La trattazione di questi temi prelude all'opera matura dello J., Sentire e pensare (ibid. 1886). Scrive lo J. nella prefazione: "È mio fermo convincimento, che il problema speculativo, in tutta la sua ampiezza, resterà un labirinto senza uscita […] finché non solo non sarà studiato sul terreno indicatogli dalla filosofia moderna in genere e dalla critica kantiana in particolare, cioè su quello della conoscenza, e per esso della coscienza, ma più ancora finché nello studiare la coscienza non avremo preso le mosse da quel giusto punto, dove il senso finisce e la coscienza incomincia, o dove il senso non è più solamente senso, e già la coscienza comincia a mandare sul tronco di esso i suoi primi germogli" (p. 3).
Lo J. è interessato a individuare il momento in cui la sensazione e la coscienza si sovrappongono. Da una parte è desideroso di fare propria la lezione dei positivisti e degli evoluzionisti, fino a spingersi ad affermare che "il principio assunto oggi a base delle scienze naturali, l'evoluzione" è vero e fecondo (ibid., p. 8), un'affermazione non priva di interesse in un autore che eserciterà il suo influsso nella formazione di una filosofia idealistica italiana lontana e refrattaria alla scienza e in particolare all'evoluzionismo. Dall'altra vuole rivendicare la presenza nella sensazione degli elementi embrionali della coscienza e cioè l'universalità propria della mente concepita kantianamente. Questo tentativo di conciliazione di due esigenze opposte non è di per sé indicativo di un fallimento di un'autentica comprensione di tali esigenze. In altri termini lo J. è interessato a conciliare una comprensione scientifica della natura, che prescinde da una descrizione in termini intenzionali, e che l'evoluzionismo ha esteso anche agli organismi viventi sino all'essere umano, con una sua comprensione in termini concettuali. Ma, usando l'evoluzionismo come immagine filosofica anziché come prospettiva di studio alternativa a quella filosofica idealistica, lo J. chiude quasi subito la sfida tra queste due comprensioni. Perciò parla in termini evolutivi del passaggio dalla sensazione alla coscienza per significare che non vi sono passaggi categorici ma solo di grado. "La sensazione", egli scrive, "è foriera della coscienza, e n'è la immediata preparazione. Dall'una all'altra è passaggio, non salto. Gli elementi tutti della coscienza sono elementi della sensazione. […] La vita della coscienza è due cose; è la continuazione della vita del senso, e per esso della natura tutta, e n'è il compimento insieme" (ibid., pp. 119 s.). L'immagine evolutiva è impiegata per significare questo passaggio dalle diverse forme della vita, che lo J. intende come una "forza" che si dispiega. "Il fatto adunque, di cui prendiamo nota, è che nel sentire si raccoglie tutto il mondo naturale sottostante, e che questo mondo naturale è qualche cosa di vivo, viva essendo e perenne e senza limiti la produzione degl'individui diversi, che si succedono e s'incalzano in tutti i diversi ordini della natura. Questo mondo naturale che si raccoglie nel sentire è la forza. Ed è forza il sentire. Quando la forza sottostante, compiute tutte le condizioni, sale al grado di sentire, produce ancora. E non intendiamo dei soli individui, che compongono il grande regno animale […]. Il sentire è per sé solo forza, perché per esso gl'individui senzienti (forniti delle capacità, della forza di sentire) non vivono soltanto, assimilandosi e trasformando gli elementi del mondo inorganico, ma il mondo preesistente della vita trasformano in una superiore esistenza, nell'esistenza rappresentativa. Nella rappresentazione […] la forza naturale incomincia a ritrovare se stessa, iniziando quel movimento di ritorno sopra di sé, nel cui compimento è il suo possesso, e la sua integrazione" (ibid., pp. 122 s.). Lo J. poteva già leggere in H. Spencer una concezione dell'evoluzione come un processo diretto a un fine, un'idea lamarckiana lontana dall'evoluzionismo di Ch. Darwin, di cui Spencer non si liberò mai. Ma egli chiude subito le possibili tensioni interne a questo paradigma e usa l'immagine evolutiva come un motore esplicativo di tipo hegeliano, spingendosi sino a invocare il superamento del principio di non contraddizione per spiegare il modo in cui la sensazione si evolve verso la coscienza: "Non resta dunque, che sieno e non sieno identiche, che sieno in parte identiche, in parte diverse. I fautori della inviolabilità del vecchio principio di contraddizione, così come era e poteva esser dato nella logica formale […] potranno trovare dura questa conclusione" (ibid., p. 76). L'evoluzione è immagine della forza che dal regno della natura ritrova se stessa, cioè si rende consapevole nel mondo dello spirito. In questo senso, lo J. può essere ascritto alla schiera di quanti hanno usato l'evoluzionismo per produrre una loro filosofia della storia.
Una conclusione, questa, che trova conforto in uno scritto successivo dello J., la memoria L'intuito nella coscienza (ibid. 1894).
È qui affrontata la questione se l'intuito abbia una parte nella ricerca scientifica: lo J. risponde affermativamente, sostenendo che tuttavia esso è posto in primo piano solo "quando il pensiero indagatore ha sentito il bisogno di ricorrere alla conoscenza in se medesima, e scrutarne il valore" (p. 5), e cioè quando vi è perplessità sull'evidenza del proprio oggetto di studio. Nel mostrare come la conoscenza non sia solo accumulo e accostamento di fatti, lo J. afferma, di nuovo contro i positivisti, che "i fatti e la storia, se sono la realtà, non sono tutta la realtà" (ibid., p. 7): "la realtà storica, oltre ad essere quella che è, e che ognun vede, è anche in miglior modo nell'universale e per l'universale" (ibid., p. 17). I fatti e la storia sono testimoni cioè di un universale che li raccoglie e dà loro un senso.
Nel successivo Ricerca speculativa. Teoria del conoscere (I, Pisa 1893), lo J. insiste sul concetto del pensiero che ritrova sempre se stesso e non ha niente di anteriore. Egli ritiene che la filosofia sia l'unica disciplina che non ha un oggetto specifico di studio che non sia l'esigenza stessa di conoscenza. Come egli scrive, "si tratta di salire nelle alte regioni dell'intendimento puro, di usare del conoscere per costruire l'atto, il puro ed universalissimo atto, del conoscere […]" (p. XXXIV). Se alcuni interpreti hanno ritenuto che in quest'opera lo J. traesse le conseguenze del suo lavoro precedente e in particolare di Sentire e pensare (Plebe, in Guzzo - Plebe, p. 77), Gentile invece vi ha voluto scorgere la trasformazione dell'idealismo assoluto in spiritualismo assoluto, una posizione che preludeva agli sviluppi che egli stesso avrebbe dato all'idealismo italiano. Come notò, a tal proposito, lo J. "qui non muove più dal senso e dal bisogno di trascendere il senso quale è dato dalla coscienza, per spiegare la coscienza sensibile, senza incorrere nello scetticismo. Si mette innanzi l'atto del conoscere, prescindendo da ogni rapporto di esso con la verità, per trattare lo stesso del puro conoscere come principio unico ed assoluto di tutto, presupposto com'è da qualunque altro possibile pensiero" (Gentile, 1923, p. 218).
Oltre agli scritti menzionati, si segnalano ancora, fra gli altri: Un po' di polemica nella quale principalmente si discorre dell'articolo 73 dello Statuto in rapporto a' poteri supremi dello Stato, Bologna 1876; Saggi filosofici, Napoli 1886 (raccoglie scritti già pubblicati e l'inedito La virtù e i suoi elementi costitutivi); la prefazione alla raccolta di Scritti filosofici di B. Spaventa, a cura di G. Gentile, Napoli 1900; Enigma della coscienza, in Rivista filosofica, II (1900), pp. 340-345; L'insegnamento filosofico universitario ed il regolamento nuovo, Pisa 1903.
Il G. morì a Pisa il 15 marzo 1914. Fu membro della Società reale di Napoli e cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia.
Fonti e Bibl.: Necr. in Il Messaggero toscano, 17 marzo 1914 (C. Sgroi); Corriere toscano, 19 marzo 1914 (G. Tarantino); G. Gentile, Lettera a D. J., in Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, a cura della Fondazione G. Gentile per gli studi filosofici, I, Firenze 1948, pp. 3-11 (lettera di Gentile giovane laureato al maestro in data 7 ott. 1897); F. Battaglia, Lettere di A.C. De Meis a D. J., in Memorie dell'Accademia di scienze dell'Istituto di Bologna, cl. di scienze morali, s. 5, IX (1949); G. Gentile - D. Jaja, Carteggio, a cura di M. Sandirocco, I-II, Firenze 1969; S. Miccolis, Dieci lettere inedite di D. J., Firenze s.d.; G. Gentile, D. J., Pisa 1915; Id., Le origini della filosofia contemporanea in Italia, III, Messina 1923, p. 218; G. Alliney, I pensatori della seconda metà del sec. XIX, Milano 1942, ad ind.; B. Croce, Conversazioni critiche, s. 2, Bari 1942, pp. 30 s.; A. Guzzo - A. Plebe, Gli hegeliani d'Italia, Torino 1953, pp. 75-78; A. Guzzo, Cinquant'anni di esperienza idealistica in Italia, Padova 1964, p. 117 e passim; G. Vacca, Recenti studi sull'hegelismo napoletano, in Studi storici, VII (1966), pp. 208 s.; A. Cristallini, Il pensiero filosofico di D. J., Padova 1970 (con bibliogr. degli scritti dello e sullo J.); V. Carcuro, Polemiche filosofiche antirosminiane: Terenzio Mamiani e D. J., Aversa 1982; A. De Gubernatis, Diz. biogr. degli scrittori contemporanei, Firenze 1879, s.v.; Enc. Italiana, XVIII, s.v.; Enc. filosofica, IV, s.v.; F. Abba Luzzato, Diz. generale degli autori italiani contemporanei, I, sub voce.