Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Donato Bramante rappresenta una figura nodale nello svolgimento dell’architettura del Rinascimento; da un lato raccoglie l’eredità culturale di Brunelleschi e di Leon Battista Alberti, dall’altro fonde tale eredità con uno studio sistematico delle rovine antiche, tanto che il suo linguaggio architettonico di gusto antichizzante, adattato alle diverse tipologie di edifici, diviene in breve modello imprescindibile per tutti gli operatori cinquecenteschi.
La formazione e le prime opere
Nato nel 1444 nel Ducato di Urbino, Donato Bramante si forma nella città feltresca attorno agli anni Sessanta del Quattrocento, come vuole Vasari, e quindi in un ambiente culturale particolarmente attento all’applicazione, in pittura e in architettura, dei principi matematici della prospettiva, grazie alle presenze di Piero della Francesca, di Leon Battista Alberti, di Francesco di Giorgio Martini entrato ufficialmente al servizio della corte urbinate probabilmente dopo la partenza di Bramante.
Della produzione giovanile di Bramante non si sa pressoché nulla. Gli sono state perciò attribuite, con maggiore o minor fondamento, una serie innumerevole di opere architettoniche realizzate entro il 1475: dalla Cappella del Perdono a Urbino, alla Chiesa della Colonnella a Rimini, dal duomo di Faenza al portale ferrarese di Schifanoia, alla Cappella Maggiore della Chiesa di San Francesco a Mantova (ora distrutta).
Attestato nel territorio della Serenissima, a Bergamo, nel 1477 Bramante vi realizza, per un amico del suo protettore Ascanio Sforza, l’importante decorazione della facciata del Palazzo della Ragione; poi le sue tracce si perdono nuovamente negli anni seguenti.
Bramante a Milano
Nel 1481 Bramante è attestato a Milano, dove probabilmente giunge in seguito alla presa del potere da parte di Ludovico il Moro, fratello di Ascanio: gli viene attribuito il disegno della stampa Prevedari, un esercizio prospettico di gusto antiquario, cum hedifitiis et figuris, che rappresenta un imprescindibile caposaldo artistico dell’intera opera bramantesca, ma anche un vero e proprio orientamento per la contemporanea cultura figurativa lombarda. Ormai al servizio degli Sforza – inginiero et persona quale si delecta cossì de pictura como de architectura – Bramante ottiene una serie di prestigiosi incarichi pittorici, ai quali si affiancano in breve importanti commissioni per progetti architettonici (cui fa però da contrappunto una sua sostanziale imperizia tecnica, poi puntualmente ricordata dalle fonti, specie nel progetto delle fondazioni degli edifici). Egli procede dunque, come testimonia Cesare Cesariano, agli interventi – peraltro criticamente assai dibattuti – nella piccola chiesa di Santa Maria presso San Satiro che viene rinnovata in linea con la nuova politica, propugnata dai signori milanesi, di celebrazione dell’antica chiesa locale (Satiro era fratello di sant’Ambrogio).
Tutta la vicenda, però, ha oggi contorni poco chiari: Bramante prosegue una serie di opere, già iniziate anni prima, di assai difficile attribuzione e datazione, considerando che egli compare nell’impresa nel 1482, quando la costruzione del nuovo impianto planimetrico è già piuttosto avanzata.
Nel 1486 l’artista si impegna nel progetto della facciata, che non viene poi realizzata, ma certo la sua attenzione si concentra sulla zona del presbiterio, dove per fornire un coro all’edificio – essendo la parete quasi del tutto appiattita lungo la linea del transetto e non potendosi allungare lo spazio a causa di una strada urbana – Bramante ha modo di portare alle estreme conseguenze le possibilità di illusione spaziale offerte dalla costruzione prospettica. Nella cortina infatti viene creato un incavo piatto, profondo solo 96 cm, che Bramante tratta scenograficamente come un lungo coro prospettico, attraverso una decorazione a stucco che imita in alto una volta a lacunari digradanti, mentre in basso è posta su un ordine di lesene nella realtà anch’esso di scarsissimo rilievo. Un esempio questo che, meraviglia dei contemporanei, diviene in breve paradigma del problema tra l’essere e l’apparire dell’architettura, stimolo agli studi scenografici e al gusto quadraturistico fino all’anamorfosi. Ma anche dal punto di vista linguistico, con questo intervento Bramante fornisce un forte segnale per la cultura architettonica nell’utilizzo assai avvertito (peraltro in linea con i costrutti già presenti nella stampa Prevedari) di una antiquaria e albertiana concatenazione tra lesene maggiori e pilastri minori, in vista dell’adozione consapevole degli ordini architettonici degli antichi.
L’artista, infine, non manca di adottare anche negli spazi, che fanno da corredo al corpo della chiesa di San Satiro, il proprio gusto antichizzante di marca antiquaria: egli procede infatti alla ristrutturazione della paleocristiana cappella a croce greca di Sant’Asperto, coronata da una cupoletta ottagona, e all’impianto del battistero, anch’esso ottagono, con otto nicchie in basso e loggia aperta nel secondo registro, memore degli esempi ravennati. In quegli stessi anni, per Bramante gli incarichi si susseguono: egli appronta una relazione scritta per la difficile conclusione del gotico tiburio del duomo della città, mentre – verso la fine degli anni Ottanta – è coinvolto nel cantiere, iniziato nel 1488 sempre su committenza di Ascanio Sforza, del duomo di Pavia.
Nel giugno del 1490, in occasione della visita alla fabbrica di Francesco di Giorgio Martini e di Leonardo, Bramante appare però già defilato dall’impresa. L’avvio dei lavori per la cripta e per il capocroce, assieme al suo certum designum seu planum per l’edificio, non mancano comunque di condizionare tutta la prosecuzione della fabbrica, pur nelle varie modifiche: il progetto si pone in linea con la più avvertita cultura architettonica quattrocentesca, puntando a realizzare una grande tribuna ottagona cupolata alla quale la chiesa a tre navate fa da avancorpo, rifacendosi in pianta sul Santo Spirito brunelleschiano di Firenze e rimeditando, in alzato, lo schema albertiano delle chiese centriche e ad aula.
Nel 1492 Bramante compare a Vigevano, come ricorda anche l’architetto e trattatista Cesariano, proprio mentre il Moro fa trasformare il vecchio castello in un palazzo nuovo e, soprattutto, si procede alla costruzione di una grande piazza urbana molto longa e larga cum portici, cum colonne et volti et boteghe da ogni lato, proprio com’era il Foro degli antichi romani secondo la descrizione di Vitruvio. Nessun documento ci attesta il coinvolgimento diretto di Bramante in quell’ideazione, anche se nel 1494 egli soprintende alla fornitura di colonne e capitelli; è però la forte carica antiquaria dell’intervento a orientare, dopo i lavori milanesi, verso una sua progettazione.
Nel 1492, sempre su committenza di Ascanio Sforza, Bramante è impegnato nella costruzione dei chiostri e della canonica di Sant’Ambrogio (il complesso è stato in buona parte ricostruito con un netto sovvertimento delle opere già previste prima del suo coinvolgimento). Ancora una volta, il linguaggio impiegato da Donato ha notevoli punti di contatto con quello impiegato dai più diretti continuatori di Brunelleschi nelle basiliche fiorentine: Bramante adotta le stesse soluzioni, come in quel girare degli archi non direttamente sulle colonne, ma su monconi di trabeazione (non farlo sarebbe stato una sgrammaticatura troppo evidente, dopo la pubblicazione del trattato di Alberti). Da notare è poi l’attenzione che l’architetto rivolge, ancora, al dettato vitruviano con quell’esplicita allusione all’antico racconto dell’origine lignea delle colonne: nel chiostro sono quattro i fusti trattati a tronchi d’albero con naturalistici nodi, appunto laboratae ad troncones, anche se Vasari attribuisce il suggerimento di quel costrutto piuttosto a Bramantino che non a Bramante.
La presenza poi della grande arcata centrale, sempre nel chiostro maggiore di Sant’Ambrogio, è stata letta dai critici come una vera e propria cifra bramantesca che ha fatto attribuire a Bramante una serie di altre opere, come la facciata della chiesa di Santa Maria Nuova ad Abbiategrasso. Nel chiostro ionico, di estremo interesse sono anche i piedistalli sottoposti alle colonne, secondo una variante antiquaria dell’ordine architettonico ancora piuttosto innovativa per l’epoca, e solo più di trent’anni dopo definitivamente istituzionalizzata da Sebastiano Serlio. Ancora all’inizio degli anni Novanta, Bramante è coinvolto sempre a Milano nell’ennesimo episodio architettonico di grande importanza per la cultura lombarda: il tema della tribuna presbiteriale degli edifici religiosi viene nuovamente ripreso nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, edificio che nelle intenzioni del Moro deve, da semplice chiesa mendicante, venir trasformato nel mausoleo degli Sforza. La presenza di Donato sul cantiere è però saltuaria: si sa che viene coinvolto nel 1494 per una fornitura di marmi, ma forse già nel 1492 egli partecipa, con il suo grande amico Leonardo e con Giuliano da Sangallo, al collegio dei periti richiesti dal Moro per la fabbrica. Le fonti milanesi e anche Cesariano – in genere così attento alle opere di Bramante, suo praeceptor – tacciono però sull’intervento di Donato, salvo nell’attribuirgli la cupola: la critica non è ancora oggi concorde sull’entità del suo coinvolgimento, poiché alcuni elementi della decorazione che parrebbero riferibili a una sua idea (come i nastri intrecciati sui grandi loculi, chiamati addirittura da Leonardo “gruppi di Bramante”), non appaiono comunque elementi sufficienti per dimostrare la sua partecipazione.
Bramante a Roma, architetto papale
All’approssimarsi della caduta del potere di Ludovico il Moro, potendo contare sull’amicizia di Ascanio Sforza, Bramante si trasferisce a Roma, dove – ricorda Vasari – ha una prima commissione pittorica da papa Alessandro VI per il Giubileo del 1500. Egli realizza, infatti, belle prospettive e si occupa della decorazione di facciate di palazzi, oltre che del rilievo di opere antiche (ma di questi disegni non ci resta nulla). Vasari afferma che alla committenza del cardinale Oliviero Carafa sarebbe legato il primo incarico architettonico di Bramante nell’Urbe, il chiostro di Santa Maria della Pace, i cui lavori si protraggono da prima del 1500 sino al 1504, e specie dopo il 1503. I documenti sono ancora una volta molto poveri di notizie: si sa solo che nel 1500 Bramante fornisce a maestranze in gran parte lombarde e settignanesi un disegno per la commissione di otto pilastri ionici. Il chiostro rappresenta un momento cardine nello sviluppo del linguaggio architettonico romano, tanto che anche Vasari sottolinea che proprio tale intervento fornisce all’artista grandissimo nome. In particolare, facendo leva sullo spiccato gusto antiquario del suo committente, l’architetto può realizzare, su modello del finto coro di San Satiro a Milano, un montaggio di lesene e pilastri – dove le arcate vengono rette dalle alette dei pilastri e la trabeazione soprastante dalle lesene – rimeditando e aggiornando, oltre all’esempio del cortile del palazzo di Urbino, soprattutto quello albertiano di Palazzo Venezia a Roma. Rispetto a quell’illustre precedente, infatti, Bramante innova ulteriormente la struttura: sovrappone pilastri liberi (vere e proprie albertiane columnae rectangulae) a quelli sottostanti, in modo che siano essi a reggere la trabeazione soprastante; le colonne che si alternano ai pilastri, invece, poggiano in falso nel mezzo dell’arco di sotto e vengono liberate da ogni impegno strutturale, rendendo più movimentata la struttura che a prima vista potrebbe sembrare piuttosto statica. Tuttavia il gioco di montaggi non convince completamente i suoi immediati successori: Vasari definisce l’intervento non “di tutta bellezza”.
La fama di Bramante a Roma è ormai tale che il numero degli edifici in cui viene coinvolto – o che molti autori hanno voluto assegnargli – risulta davvero impressionante, anche se il più delle volte i contorni del suo coinvolgimento sfumano: Vasari ci parla del completamento del palazzo della Cancelleria, forse nel cortile (terminato nel 1511) e della chiesa di San Lorenzo in Damaso, e poi degli interventi per la chiesa di San Giacomo degli Spagnoli in Piazza Navona, cui seguono i progetti di Palazzo Castelli (poi Giraud Torlonia, caratterizzato non a caso da ampie cortine di antiquario opus isodomum in travertino e da lesene superiori accoppiate), di Palazzo Fieschi, di quello Corneto in Piazza Scossacavalli e della Locanda del Sole. Tra le opere certe attribuite a Bramante si annovera il piccolo tempietto circolare di San Pietro in Montorio, caratterizzato da un’ala circolare e continua di colonne libere, vera e propria riproposizione filologica non solo di celebri rovine antiche, ma soprattutto della tipologia vitruviana del periptero romano, tanto che il tempietto entra nella manualistica successiva come esempio che, secondo Serlio e Palladio, è degno di stare alla pari con quelli antichi. Inserito nell’angusto cortile del monastero, ma probabilmente previsto da Bramante all’interno di uno spazio anch’esso circolare e colonnato (Serlio), il tempietto presenta un giro di sedici colonne di recupero di ordine dorico, poiché il complesso sorge sul luogo del martirio di San Pietro e l’ordine dorico si addice al padre fondatore della Chiesa. Con quest’esempio Bramante rimedita un tema che, dalla seconda metà del Quattrocento, appassiona la cultura artistica soprattutto di marca albertiana: non va dimenticato che un edificio circolare è previsto a Urbino per Federico da Montefeltro, così come sono in stretta relazione con la cultura della città feltresca le famose Tavole prospettiche, tra le quali proprio quella di Urbino – da alcuni attribuita a Bramante – che presenta al centro un grande edificio circolare; una tipologia poi trasmigrata anche negli sfondi dei quadri di Perugino (si ricordi che già nel 1493 il Moro fa cercare Bramante, improvvisamente partito da Milano, in Toscana e proprio nella bottega di quel pittore). Nel fregio del tempietto di San Pietro in Montorio, dove si alternano triglifi scanalati a metope decorate secondo le elegantiae dell’ordine dorico, vanno notati nei rilievi gli strumenti liturgici per la messa e le chiavi di Pietro, in una puntuale cristianizzazione di analoghi strumenti per il culto pagano presenti nel fregio del tempio di Vespasiano a Roma. Il nucleo dell’edificio è listato da lesene che ribattono le colonne dell’ala esterna e sono a loro volta scandite da un diverso intercolumnio (il coronamento della cupola dell’edificio, al di sopra dell’alto tamburo incavato da nicchie semicircolari e rettangolari, è invece tardo).
A partire dal 1505 Bramante, ormai famosissimo, ottiene da papa Giulio II l’incarico “de i corridoi di Belvedere”, come racconta Vasari: due lunghissime ali parallele (circa 300 m) di porticati sormontati da due ordini di corridoi, posti a collegare il Palazzo Vaticano con la palazzina decentrata fatta edificare, alla fine del XV secolo, da papa Innocenzo VIII. Viene così a formarsi un enorme invaso unitario (poi frammezzato dall’ala della Biblioteca Vaticana solo ai tempi di papa Sisto V), articolato in tre livelli: una sorta di grande circo all’antica per giochi e naumachie, ma anche con le caratteristiche di uno spazio di esposizione antiquaria con statue nicchiate, chiuso da una scenografica serie di rampe e da una grande esedra – terminata poi da Pirro Ligorio).
Rispetto ai modelli antichi, che l’architetto tiene comunque ben presenti, Vasari ricorda che Bramante procede a “imitazione, ma con invenzion nuova”: così avviene per la tipologia dell’intero complesso; così per l’ordine dorico del cortile inferiore su modello del teatro di Marcello; così nella rievocazione di certe soluzioni tipiche dei terrazzamenti delle ville classiche, dato che allora la zona era in aperta campagna; così nelle costruzioni liberamente modellate su quelle del santuario di Preneste; per il grande emiciclo concavo/convesso che chiude tutto l’asse visuale e che è anticipato da una scenografica scala, si ricollega, invece, agli esempi dei ninfei romani. Le ali porticate – scandite da una rigorosa concatenazione di lesene/pilastri/archi, da una sovrapposizione di ordini (dorico/ionico/corinzio) e, nel cortile superiore, dal costrutto della travata ritmica (un grande pilastro con due lesene che inquadrano nicchie e riquadri sulla fronte, sull’esempio dell’interno dell’albertiano Sant’Andrea di Mantova) – costituiscono fin da subito un repertorio – imprescindibile per gli architetti degli anni a venire – delle varie possibilità insite nel montaggio degli elementi decorativi antiquari, facendo così del Belvedere una sorta di summa del nuovo linguaggio rinascimentale all’antica.
Anche la vecchia palazzina di papa Innocenzo VIII subisce notevoli modifiche, come la costruzione della scala elicoidale che diviene, in breve, prototipo per i successivi modelli “a lumaca”: nella sua scansione continua di ordini architettonici sovrapposti di colonne libere – sottolinea Vasari – “il dorico entra nello ionico e così nel corinzio”. Contemporaneamente a una serie di ulteriori, importanti lavori (a Castel Sant’Angelo, nella rocca di Viterbo, nella rocca di Civitavecchia, a Roma nel palazzo dei Tribunali, nella tribuna di Santa Maria del Popolo, mausoleo di Ascanio Sforza, nella villa papale alla Magliana, a San Celso, nella basilica di Loreto, nel ninfeo di Gennazzano, e nella chiesa della Consolazione di Todi), Bramante viene anche incaricato di trasformare il Palazzo Vaticano, per “restaurare e drizzare” il vecchio edificio (Vasari).
Ma è nel 1506 che l’architetto inizia i lavori per la nuova basilica di San Pietro: la posa della prima pietra avviene il 18 aprile e viene accompagnata dalla fusione, ad opera di Caradosso, di una medaglia commemorativa con l’immagine della nuova facciata: essa, secondo le richieste del pontefice, incentra l’attenzione proprio sulle tribune, in linea con la cultura quattrocentesca. L’idea iniziale subisce comunque varie modifiche, anche per la presenza sul cantiere di Giuliano da Sangallo (come attesta una serie di disegni oggi agli Uffizi), portando alla redazione di almeno due diverse soluzioni da parte di Bramante.
Il primo progetto, il cosiddetto “piano di pergamena”, mostra una grande croce greca centrale (probabilmente della sola tribuna), intersecata da un quadrato esterno che, a sua volta, circoscrive i vani cupolati sulle diagonali; compaiono inoltre i famosi grandi piloni svuotati con pianta a triangolo isoscele che forniscono al nucleo centrale una forma a ottagono irregolare, legando così questo intervento a quelli precedenti eseguiti a Milano. L’idea però provoca subito grosse perplessità a Giulio II sia perché dovrebbe spostare il centro geometrico dell’edificio rispetto alla tomba di San Pietro, sia perché ciò comporterebbe il dover ignorare l’impianto del coro fatto erigere da Niccolò V, dopo il 1450, a Leon Battista Alberti e Rossellino.
Bramante deve dunque realizzare un secondo progetto: dopo il 1505, l’architetto sembra orientarsi più decisamente verso un impianto della tribuna detto a quincunx (cioè con nucleo centrale bilanciato da spazi diagonali, come in uno schema a quinconce), articolando maggiormente l’iniziale croce greca, mentre il vano centrale appare smussato agli angoli (con pilastri a libretto o “a sbarra”) a formare un ottagono con intorno dei deambulatori. E comunque l’architetto non stabilisce se il tempio avrebbe dovuto mantenere un aspetto longitudinale oppure no. Ne nasce una lunga serie di scherzi e motteggi contro l’indecisione di Bramante e il suo nomignolo di “Ruinante” per aver distrutto il vecchio San Pietro senza saper bene come ricostruirlo. Alla morte dell’architetto, infatti, oltre all’imposta dei nuovi piloni, all’interno della vecchia Chiesa ormai in rovina si eleva solo un piccolo, pur elegante, tegurio, sempre di ordine dorico, a protezione dell’altare sulla tomba di San Pietro (poi demolito nel 1592).
Con il Palazzo Caprini (oggi distrutto) o conosciuto anche come Casa di Raffaello, che l’acquista nel 1517, Bramante mette a punto, a partire dal 1508, una nuova tipologia di facciata di palazzo privato: il registro basso è scandito da bugnato in opera rustica di gusto antiquario; esso a sua volta regge le arcate e il registro o i registri superiori, inquadrati da semicolonne accoppiate; la soprastante trabeazione sottolinea così la magnificenza del piano nobile. L’esempio rende più agevole ed economico l’utilizzo degli ordini architettonici per le fronti di abitazioni, senza dover ricorrere alla sovrapposizione di più registri e permettendo una serializzazione delle campate sia in altezza che in larghezza. Di qui la grandissima diffusione del modello, grazie al felice compendio di valenze chiaroscurali e d’ornamentazione, e grazie anche alla evidente gerarchizzazione tra il piano della residenza nobiliare, quello commerciale in basso, e l’eventuale mezzanino per la servitù.