PANTALEONI, Domenico
(Fastello). – Nacque intorno al 1336 da Francesco di Tano di Firenze, membro di una ricca famiglia di mercanti impegnata nel commercio con l’estero e nell’investimento in prestiti allo Stato, e visse nel quartiere di Santa Maria Novella a Firenze.
Dopo essere entrato nell’Ordine domenicano poco prima del 1355, Pantaleoni iniziò i suoi studi nella provincia romana dell’Ordine; in seguito, fu mandato a studiare in Inghilterra e a Parigi. Le date in cui Pantaleoni ricevette la laurea in teologia e conseguì il grado di magister sono sconosciute, ma è certo che tenne lezioni sulle Sentenze di Pietro Lombardo presso l’Università di Firenze nel 1369 e presso lo Studio generale del convento di S. Maria Novella, di cui fu priore nel 1370 e ancora nel 1373. Nel 1374, Pantaleoni fu impegnato come definitore sia del capitolo generale dell’Ordine, sia del capitolo della provincia romana, che si tennero nello stesso tempo presso il convento di S. Maria Novella.
Pantaleoni fu l’autore di almeno sette opere teologiche, i cui manoscritti si potevano ancora trovare nella biblioteca del convento di S. Maria Novella nel 1681, quando furono esaminati dallo studioso francese e frate domenicano Echard per il suo Scriptores ordinis praedicatorum. Questi manoscritti ora non esistono più. Tra le opere di Pantaleoni, c’era anche un trattato sulla moralità delle operazioni del Monte Comune di Firenze, vale a dire il debito pubblico di quella città.
Fortunatamente, una copia trecentesca di quest’opera, già presente nella biblioteca del convento di S. Marco, è ora conservata presso la Biblioteca nazionale centrale di Firenze (Conventi Soppressi, J.10.51, ff. 190-200): Tractatus magistri Dominici de Pantaleonibus de Florentia ordinis fratrum predicatorum super casu de monte ‹communi Florentie› contra magistrum Franciscum de Empoli ordinis minorum.
Altri manoscritti del trattato di Pantaleoni circolarono sotto il nome di Federigo Petrucci (morto nel 1343 circa), un eminente canonista senese. A partire dagli inizi del XV secolo, il trattato di Pantaleoni cominciò a comparire nei manoscritti e, successivamente, nelle edizioni a stampa della raccolta di consilia, disputationes e quaestiones di Petrucci. Di conseguenza, per tutto il XV secolo, Petrucci venne erroneamente identificato come l’autore del trattato di Pantaleoni da canonisti e teologi, tra cui s. Bernardino da Siena, s. Antonino da Firenze, Giovanni d’Anagni, e Corrado Summenhardt. Antonino, nella sua Summa, si riferì a Pantaleoni come a un esperto (peritus) sulle operazioni del Monte Comune.
Che il titolo del trattato di Pantaleoni sopra citato sia stato originariamente scelto dall’autore, o è frutto di un’aggiunta posteriore da parte di un copista, comunque comunica fedelmente il suo intento polemico: contestare e contrastare la robusta e sofisticata difesa della compravendita dei crediti nei confronti di prestiti allo Stato (prestanze) sul mercato secondario, sostenuta dal teologo francescano Francesco da Empoli nella sua Questio de monte (1353-1354, cfr. J. Kirshner, Francesco da Empoli, in Dizionario biografico degli Italiani, XLIX, Roma 1997, pp. 729-731).
C’era un ampio accordo tra teologi e giuristi, sicché città come Firenze, Genova e Venezia, per ragioni strettamente legate al bene comune, poterono legittimamente obbligare i loro cittadini a prestare il proprio denaro in tempo di pubblica calamità. A loro volta, queste città avevano potuto lecitamente offrire ai cittadini prestatori il pagamento annuale di un interesse del 5 per cento a titolo di risarcimento (interesse) per i costi sopportati fino a quando i prestiti non fossero stati completamente rimborsati. Inoltre, la comunità ex gratitudine poteva premiare questi cittadini con il pagamento di un interesse, che veniva considerato alla stregua di un dono lecito. Insomma, i cittadini prestatori potevano accettare una compensazione (interesse) o un dono (donum), senza la paura di aver violato il divieto d’usura della Chiesa. La liceità della compravendita di prestanze a prezzi ben al di sotto del loro valore nominale, consentendo agli investitori di realizzare enormi profitti, era chiaramente problematica. Per i moralisti critici nei confronti del Monte Comune, non c’erano dubbi che il peccato di usura era stato commesso da quei cittadini che avevano acquistato prestanze sul mercato secondario. Tra i critici più in vista e in grado di rumoreggiare, c’erano Pantaleoni e Piero Strozzi, uno dei principali teologi domenicani che, prima della sua morte nel 1362, era stato superiore, e quindi predecessore, di Pantaleoni presso il convento di S. Maria Novella.
Il trattato di Pantaleoni poneva al centro due questioni. In primo luogo, i cittadini costretti a prestare allo Stato potevano accettare qualche indennizzo (recompensatio damni)? A parte alcune riserve, Pantaleoni era d’accordo con Francesco da Empoli sull’ammissibilità di tale indennizzo. Seguendo l’Aquinate, tuttavia, Pantaleoni aveva respinto l’argomento secondo cui i prestitori originari potevano ricevere un indennizzo come lucro cessante, cioè per quei profitti ipotetici che avrebbero potuto conseguire in legittime imprese commerciali, ma ai quali avevano dovuto rinunciare quando erano stati costretti a prestare alla città il loro capitale di investimento. In secondo luogo, poteva il diritto a un tempo sui prestiti allo Stato, insieme con l’interesse annuo, essere acquistato da un terzo? Il diritto al 5 per cento, così come il capitale del prestito, non poteva essere lecitamente acquistato da qualcuno che avrebbe avuto l’intenzione di ricavarne un profitto. Le condizioni morali dei prestatori originari, spiegò Pantaleoni, erano uniche: essi o erano costretti a prestare o prestavano denaro liberamente, senza avere l’intenzione di trarre profitto. Queste particolari condizioni permettevano ai prestatori originari di accettare qualcosa oltre il capitale del prestito (ultra sortem mutui), assolvendoli perciò dal peccato di usura. Ciò che rendeva peccaminoso il rapporto tra acquirenti di prestanze e la città era il fatto che gli acquirenti desideravano ricevere un profitto da un prestito. Pantaleoni, inoltre, mise da parte l’opinione di Francesco da Empoli, secondo la quale poiché l’acquirente non aveva stipulato un contratto direttamente con la città, che continuava a essere in debito con il prestatore originario, ma solo con il prestatore originario, dal quale aveva acquisito la rivendicazione dei suoi crediti nei confronti della città, l’acquirente non commetteva usura. È vero, ammise Pantaleoni, che la città era in primo luogo obbligata con il prestatore originario, ma era logico supporre che, così come l’acquirente diventava creditore della città, la città si obbligava, sia pure secondariamente, con l’acquirente.
Pantaleoni respinse l’analogia di Francesco da Empoli con l’assicurazione marittima e l’accordo tra l’acquirente e il prestatore originario. Francesco aveva paragonato l’acquirente a un assicuratore che assumeva il rischio totale in vista di un premio dal 10 al 20 per cento del valore del carico, una disposizione approvata da teologi e canonisti. Allo stesso modo, quando uno acquistava i crediti del prestatore originario nei confronti della città, diciamo per il 25 per cento del valore nominale, egli si assumeva il rischio totale che il prestito potesse non essere rimborsato e che i pagamenti di interessi futuri sarebbero stati sospesi. Questi rischi, insistette Francesco, non erano ipotetici ma, come l’esperienza dimostrava, una realtà incontestabile che permetteva agli acquirenti di chiedere un premio (addirittura del 15 per cento) per i rischi che assumevano. Pantaleoni era d’accordo con Francesco che l’assunzione di rischio rendeva il contratto di assicurazione moralmente accettabile. Come scrisse Pantaleoni: «io rispondo e dico che posso lecitamente assicurare la merce e per l’assunzione del rischio posso ricevere un prezzo, perché niente al di là del capitale è richiesto o atteso; né qualcosa supera il capitale, dal momento che uno che assicura, e assume il rischio lui stesso nel caso in cui il carico è perso, deve restituire il valore del carico all’assicurato». Ma l’esporre il capitale di uno al rischio (periculum sortis), dichiarò, non dovrebbe essere usato come pretesto per realizzare un profitto da un prestito. Egli quindi negò che l’acquirente potesse ricevere un premio assicurando il prestatore originario contro la perdita del suo capitale. Per Pantaleoni, l’analogia con il contratto di assicurazione era falsa, perché: «chi compra [il diritto alle prestanze] non stipula un’assicurazione».
Pantaleoni riconosceva che, formalmente, il contratto tra il venditore e l’acquirente non era intrinsecamente immorale. Tuttavia, i contratti di questo tipo erano spesso stipulati in fraudem usurarium, vale a dire con l’intenzione di aggirare il divieto dell’usura. Per dirla con Pantaleoni: «sotto la copertura di un contratto di compravendita l’acquirente diventa liberamente e volontariamente un creditore del Comune al fine di ricevere il 5 per cento come conseguenza di un prestito». In conclusione, chi acquistava prestanze sarebbe stato giudicato un usuraio o davanti a un tribunale ecclesiastico o quando si confessava davanti a Dio (quoad Deum).
Pantaleoni morì nel 1376 e fu sepolto nella chiesa di S. Maria Novella.
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