CONTARINI, Domenico
Primogenito dei cinque figli (ebbe due fratelli, Angelo e Piero, e due sorelle, Paolina e Giulia) di Giulio, del ramo Ronzinetti, unico figlio ed erede del doge Domenico, e di Marietta di Piero Giustinian, nacque a Venezia il 28 marzo 1642.
Iniziata ventiduenne la vita politica, quando "si porta" in Maggior Consiglio, e agevolato dal fatto d'essere "nepote" del doge vivente e di famiglia influente e per di più imparentata col Giustinian spadroneggianti "nei voti di tutti i consigli", la sua affermazione - non intralciata da pratiche incombenze (figura infatti assente quando si stipulano affrancazioni di livello ed acquisti relativi alle proprietà sue e del fratello Angelo) - è rapida e brillante. Eletto rappresentante della Serenissima in Francia ancora l'8 giugno 1675, s'accinge - "sublime orator al re guerriero" esulta un sonetto - al viaggio alla fine di marzo del 1676. Questo, lamenta il C., è "lungo e disastroso", ché solo il 12 maggio è a Torino e all'inizio di giugno a Parigi.
Pochi, irrilevanti i problemi direttamente attinenti ai rapporti franco-veneti, riducibili a qualche sporadico sequestro di mercantili operato dai Francesi, ed è vanto del C. l'ottenimento della "restituzione delle navi confiscate" nonché il "ristabilimento della posta di Venezia". Esponente d'uno Stato marginale presso la corte che è, invece, il centro motore della storia, "fonte da cui... scaturiscono i più importanti maneggi d'Europa", laddove Luigi XIV - con la sola "remora" della monarchia britannica che, comunque, tende a lasciargli "libero il campo" - è "arbitro non meno della pace che della guerra", il compito del C. è soprattutto ricognitivo. Instancabilmente vigile, si raccomanda il Senato, deve "indagar con cautella" quali siano le "intentioni", andarsi "internando" accorto "nel più recondito de gli affari e de' negotiati", sino a "scuoprir" progetti e disegni alberganti "ne gli animi" del re e dei "ministri", per poi riferirne "con pontualità", volta per volta, con dispaccio "diligente e copioso" di "abbondanti e fruttuose" notizie, di "distinti raguagli", di dettagliati avvisi. Tenga, pertanto, "fisse le osservazioni" tanto sui "maneggi intorno la pace" quanto sugli "apparati... per continuare la guerra". In particolare non lasci "strada intentata per penetrare le vere intentioni" regie "sopra questa provincia", per individuare qualche eventuale "recondito fine" dietro le formulazioni ufficiali volte a tranquillizzare la penisola. Venezia formalmente, per bocca del C., plaude ai "fortunati successi" delle "armi christianissime", esulta per la "fortuna propitia" arridente alle "gloriose fatiche" dell'instancabile re Sole; è presente, tramite il C., a tutti i TeDeum di ringraziamento per ogni sua clamorosa vittoria. In realtà è in preda all'inquietudine, teme d'essere travolta da eventi più grandi di lei. Irreparabilmente piccola di fronte alla grandeur protervamente dispiegata, la sua neutralità si nutre spasmodicamente d'informazione, non già perché questa sia, nel suo caso, potere ma perché la sente essenziale struriento di sopravvivenza cui aggrapparsi per navigare tra insidie e trabocchetti senza soccombere. Sapere, grazie ai dispacci del C., "quanto passa e quanto merita riflesso", significa predisporre la rotta, prevenire gli eventi, non essernetotalmente in balia. Lungi dall'azzardare giudizi che competono agli inviati degli Stati che contano, il C., oltre ad esprimere una costante ammirazione per il susseguirsi di vittorie e conquiste, fa credito - mentre s'avviano le trattative a Nimega - a Luigi XIV d'una palese e "sempre dimostrata dispositione alla pace", giunge addirittura a dire che la "grand'opera della pace" è "unicamente promossa dalla generosa mano di questo christianissimo monarca". Pateticamente lusinghiero, cerca d'insinuare tra le pieghe della bellicosa baldanza di Luigi XIV il richiamo seducente dell'"aggiustamento universale della pace": a questa, ripete riguardosamente, Venezia agogna non solo "per il suo antico instituto, ma per l'osservanza che professa alla Maestà Christianissima". Sottilmente adulatorio si diffonde a spiegare come alla grandezza creata con le trionfali vittorie sia degno premio il "beneffitio" della quiete europea. Fitti di "moti d'armi", punteggiati d'"assedi", risuonanti delle vicende del "campeggiare" e insieme stipati delle voci relative al tortuoso profilarsi - di contro ai rischi di "rotture" e di "universal combustione" - dell'accordo conclusivo a Nimega, i dispacci dei C. contengono, tuttavia, spunti ulteriori. C'è lo stupore per il lusso inaudito con cui la corte celebra i suoi riti mondani, quasi il regno sia immerso in un'operosa tranquillità, anziché sottoposto a continui "pesi" ed aggravi per colmare la voragine delle spese belliche. C'è la spiccata avversione - che attesta sintomaticamente sino a che misura il C. interiorizzi il punto di vista regio - per i giansenisti, "setta sediziosa", fomite di "divisioni" politiche e pronta ad "infettar la purità della fede cattolica". Osservazioni sparse, dapprima, nei dispacci che il C., partito da Parigi il 6 dic. 1679, riprende e fonde nella relazione presentata a Venezia il 28 maggio 1680, dopo essere rientrato insignito, nel frattempo, della "pretiosa veste dei censorato", ma anche con la tristezza di ricominciare l'esistenza nella "casa paterna" divenutagli quasi estranea per le "perdite de' parenti" avvenute durante la sua assenza e soprattutto per la morte del padre. Vibra, nel testo conclusivo del C., l'ammirazione per Luigi XIV che - sovrastando l'Europa ai suoi piedi (stremata la Spagna, impossibilitato a reagire l'Impero per la ribellione ungara, fiaccata l'Olanda dalla riluttanza popolare al "giogo" degli Orange) - imprime la sua indomita energia su tutta la Francia, tutta tenuta in pugno, tutta disciplinata, tutta trasformata in un formidabile apparato bellico in terra e in mare. Agisce di supporto, spiccando tra i "primari ministri", Colbert che, rastrellando manodopera specializzata concentra in Francia "tutte" le "arti", che esporta "mercanzie", specie prodotti d'abbigliamento richiestissimi per il dilagante "uso francese" nel vestire, introitando, in cambio, "oro". Nessuno minaccia seriamente il "regio assoluto dominio": i nobili si svenano finanziariamente per brillare a corte; il Parlamento è senz'"ombra d'autorità"; il clero è succube della "nominazione regia" d'arcivescovi, vescovi, abati; "oppressi" giustamente (ché l'unità religiosa è fondamento imprescindibile di quella statale) gli ugonotti, oggetto di opportuni "rigori" i giansenisti, la cui "dottrina" è di "mala qualità" contrastando le "regie prerogative sopra li benefici". Taglieggiata da "gravami", oppressa dagli "alloggi" delle truppe, la popolazione vive nella più avvilente miseria; per sfuggire alla morsa della fame non c'è, per il povero, che la soluzione dell'arruolamento. La divisa militare al posto degli stracci. "Quanto più miserabile è il paese, tanto più numerosi riescono i reali eserciti", commenta il C. sconcertato, quasi sfiorato dal dubbio una logica perversa sia insita nel modello Francia che, per tanti versi, l'affascina. Che il massimo della concentrazione del potere, il massimo della forza non siano, anche o invece, il massimo dell'ingiustizia? Impastata di lacrime e sangue la grandeur. Il "verme della gloria di un solo" divora insaziabile "oro", distrugge implacabile innumeri vite.
Brevissima la pausa lagunare: nominato, già il 10 genn. 1680, ambasciatore a Leopoldo I (un imperatore cui, nella relazione del 29 nov. 1685, rimprovererà un eccesso di titubanza, un troppo sistematico contare sull'altrui "giuditio", una troppo scarsa fiducia in "se medesimo"; infatti, se "tale diffidenza e modestia ne' privati è virtù heroica, ... ne' principi" è, invece, "pestifera"), il C. parte alla fine di marzo del 1681, raggiunto a Treviso dal "titolo", concessogli in segno d'onore il 19, di "savio del Consiglio". Insediatosi nell'agosto a Vienna, inizia, protraendosi per oltre quattro anni, già turbato dall'incalzare delle "torbide emergenze" della rivolta ungherese, quello che il C. giustamente definirà "scabrosissimo ministerio", in un periodo "pieno di catastrofi e rivolutioni" che culmina nella terrificante visione della minacciosa avanzata ottomana sino alle soglie della capitale. Particolarmente sfortunato il C. ché dapprima la sede dell'ambasciata è accidentalmente "incenerita" mentre l'"avidità del popolo" ne approfitta per saccheggiarla, ed egli è, per di più, costretto al "risarcimento gravoso" del proprietario dello stabile per il quale deve "spremere" dalle sue "povere sostanze" ben 2.883 fiorini; trasferitosi in altra sede, questa, poco prima dell'assedio turco, subisce un "incendio" ed inoltre quanto il C., nel panico della "frettolosa fuga", vi lascia, viene trafugato da "soldati e cittadini". E non basta sia tenuto, una seconda volta, al risarcimento, ché il Senato, in aggiunta, lo redarguisce aspramente perché non sono state, "prima di ogni altra cosa, preservate" le "scritture pubbliche". Un rimprovero bruciante che si somma a quello, del 24 luglio 1683, d'aver seguito l'imperatrice Eleonora a Salisburgo, anziché rimanere, in ogni caso e ad ogni costo, accanto a Leopoldo I. "Attenderemo vi siate avicinato alla corte - scrive l'11 settembre il Pregadi al povero C., quanto mai avvilito anche perché, nella caotica e precipitosa fuga da Linz "per tema de' Tartari", perde "in quel quartiere tutto ciò che havevo fatto provedere per il necessano uso" - ... in essecutione dell'espressa publica intentione..., seguitando l'essempio degl'altri ministri de' principi", specie del nunzio. Un tono severo che, tutto sommato, il C. non merita: in un clima generale di panico che sospinge la corte a Linz, quindi a Passau, quindi di nuovo a Linz è giustificabile abbia perso i contatti. E, una volta liberata Vienna dall'incubo dell'assedio, il Senato è con lui più comprensivo: "si assicuriamo - così l'11 ottobre - che non vi allontanerete dalla persona dell'imperatore conforme le nostre intentioni, avertendovi che chiuderete la vostra ambasciata con merito e con altretanto compatimento agl'incommodi e dispendii sofferti nell'agitationi e mosse della corte". Né passa molto tempo perché l'operato del C. meriti l'"intiera soddisfattione" dei senatori, i loro ripetuti e calorosi elogi. Il C., a dire il vero, desidererebbe tornare a Venezia, ma il Pregadi non accoglie la sua "istanza": - le "gravi correnti congiunture" non permettono di renderlo "consolato" con la "permissione del congedo", per cui - coi relativo conforto dei "compatimento" senatorio - non può scrollarsi di dosso, pur essendo abbondantemente trascorsi i termini usuali, il "peso" della rappresentanza. Un obbligo cui non può sottrarsi specie quando - a seguito della proposta ufficiale fatta allo stesso C. a Vienna il 5 dicembre e alla Repubblica, dall'ambasciatore cesareo, il 13 genn. 1684 - il C. è nominato, il 12 febbraio, plenipotenziario della Serenissima nelle trattative di "lega ofensiva e diffensiva" con l'Impero e la Polonia.
Dovrà, precisa il Senato, "ascoltare, trattare, firmare, deliberare e confirmare tutte le cose a nome nostro", nonché "promettere, fare, transigere con facoltà di giurare in anima nostra e di obligare a qual si sia conditione". Una "plenipotenza" così formulata perché il C. se ne valga "per avanzar solamente il trattato, non dovendo", però, "concludere se prima non avisate per ricevere ordini nostri, il che doverete fare per espresso corriere". Entrata, a Vienna, la trattazione nel merito, il C. supera l'iniziale titubanza polacca suggerita dal timore Venezia puntasse anzitutto al ricupero di Candia; è un'"impresa" troppo ardua, osserva il C., certo non azzardabile "di primo lancio". La "vostra prudenza si è contenuta in forma propria", l'approva il Senato. Merito dei C. altresì evitare alla Repubblica il rischio d'un attacco ai Dardanelli; sarebbe stato un "vano rimbombo", senza seguito di duraturo "acquisto". Insistendo sulla specificità mannara di Venezia la sottrae anche all'obbligo d'un aiuto diretto in caso d'assedio a Vienna o a Cracovia. Ben più utilmente la Repubblica può operare con pericolose "diversioni", intercettando i rifornimenti via mare. Stabilita la pertinenza veneta d'eventuali acquisti in Dalmazia, il C. riesce pure ad evitare una vincolante precisazione degli effettivi che la Serenissima avrebbe dovuto mettere in campo e a far rientrare - invocando la necessità dei segreto - la proposta di comunicaziono obbligatoria dei rispettivi piani strategici e tattici. Si deve infine alle insistenze del C. - che stende il progetto di lega quale concreta base di discussione - se c'è un concorde impegno orale sul carattere perpetuamente difensivo dell'alleanza, in aggiunta a quello ovviamente offensivo durante la durata della guerra. La stipulazione avviene in tempi rapidi, il 5 marzo. "Approviamo li capitoli trasmessici", gli scrive il Pregadi l'11, marzo, "e veniamo in risolutione di confermare in tutto lo stabilito da voi". E il 25 aprile giunge a Venezia il "cavalarizzo" con gli "originali dei trattato di lega sottoscritto e concambiato dalle parti".
Trattenuto a Vienna sino all'aprile del 1685 - e si occupa di "coltivar" il nunzio perché sostenga l'impegno antiturco di Venezia, delle licenze per le "leve" di fanti e cavalieri destinati alla Serenissima e delle relative concessioni di "transito" -, una volta rientrato in patria, il C. celebra nella relazione la "triplice invincibile unione" austro-veneto-polacca non solo quale strumento perpetuamente intimidatorio nei riguardi della Porta, ma anche come rafforzamento del prestigio e dell'autonomia della Serenissima. Non a caso il "triplice nodo" è malvisto dalle "due corone", la Francia e la Spagna. Queste avrebbero preferito Venezia sola contro il Turco, e, perciò, costretta a rivolgersi al loro aiuto condizionato. "Magnanima risolutione" e opportuna sotto tutti i punti di vista, perciò, quella "d'entrar nella lega".
Nominato ambasciatore a Roma sin dal 24 nov. 1689, il C. vi giunge il 23 dic. 1690 malandato in salute; e, nel corso dei cinquantasette mesi della sua protratta rappresentanza (durante la quale, nel 1693, viene "nuovamente decorato della veste di savio del Consiglio" e rintuzza, nel 1692, d'accordo coi rappresentante cesareo Antonio di Lichtenstein, la pretesa del contestabile Filippo Colonna di "cavalcar in riga" con lui e con quello), le sue condizioni s'aggravano ora per "flussione alla mano" destra "resa immobile et incapace a sostener la penna", ora per terribili emicranie, ora per "funosa flussione di gotta nelle parti superiori del corpo avanzata", ora per "acerbità" inasprita di "dolori" diffusi "universalmente per tutto il corpo". Si può dire non conosca requie tra "repplicati assalti" di "ostinate... flussioni" e "pertinaci... residui" di queste. Purtroppo non può approfittare dell'"affetto sviscerato" verso la patria del veneziano Alessandro VIII ché le sue "indispositioni si fanno disperate e il papa muore il 10 febbr. 1691. Seguono, esasperanti, "cinque mesi intieri" di "fazioni... intelligenze... negoziati" d'un conclave "troppo lungo" per l'incapacità, nel contrapposto ostinarsi dei "capi fatione", d'esprimere sollecitamente la risolutiva fumata bianca. Avanza, ma poi regredisce "la prattica di Altieri"; oggetto di viva simpatia da parte del "popolo" Barbarigo, ma senza reali possibilità di vittoria ché si affida solo alla "divina dispositione", senza, per "suo conto", darsi mini namente da fare. Invano il C. preme perché si pervenga alla "sospirata elettione"; eppure è "sommo" il "bisogno" si verifichi prontamente per Venezia ché, per sua disgrazia, in periodo di sede vacante, rimane bloccato il "moto", da Civitavecchia, della squadra pontificia per soccorrere, contro la Porta, la flotta veneta. Finalmente, il n luglio, il C. annuncia come "hieri" i cardinali, con cinquantatré voti su sessanta, abbiano eletto Innocenzo XII, uomo "piissimo" e di "somma carità verso i poveri". Egli "non ha parenti da vicino", aggiunge con un'ombra d'ironia, "e, per conseguenza, non si crede vi possa essere nepotismo". Col nuovo pontefice "principal oggetto" della permanenza del C. diventa il "procurare l'allestimento" delle galee papali "a rinforzo" dell'armata, sollecitare la "marchia delle soldatesche" destinate all'imbarco, ottenere, infine, la "risolutione" (di per sé "tarda e combattuta") della partenza. Avvenuta la quale, ci sono i doverosi "rendimenti di gratie alla Santità Sua" per il concesso "incaminamento" delle galee alla volta del "levante". Meno fortunati, invece, i suoi tentativi per avere da Innocenzo XII pure contributi in denaro alla "gagliarda" lotta antiottomana della Serenissima: seccamente il papa fa presente chessa ha il soccorso di un "corpo" che, con le galee di Malta, è di circa tredici galee, "molto meglio armate delle venete". Né il C. riesce ad indurlo ad un deciso intervento di mediazione e di pace (poiché si profila una mediazione svedese Innocenzo XII non vuole confondersi con gli "heretici"), sì che non resta che "veder lacerarsi la christianità fra se stessa e contaminato il riposo di questa afflitta" Italia. Segretamente appoggiato dall'inviato della pontificia Ferrara, il C. contrasta con vigore d'argomenti l'"inclinatione" del papa - "sinistramente impresso da' bolognesi", confortato dal parere di Giovan Domenico Cassini, a veder dei quale, col nuovo apporto, il Po si sarebbe, al più elevato di "due dita", e di lì a poco, data la maggior forza di scorrimento, avrebbe, peraltro, approfondito il proprio alveo - ad autorizzare la diversione delle acque del Reno "nel Po grande". Si tratta d'"operatione pregiudicialissima - s'accalora il C. - alli territori di Verona, Padova e Polesine", e, persino, a Chioggia e Venezia. A forza di ripeterlo incrina l'ostinazione del pontefice il quale - alla fine di gennaio del 1694 - promette che avrebbe "procurato di salvar capra e cavoli". Un "discorso", rileva il C., diverso dai "primi... co' quali... pretendeva di poter far qual si siasi operatione". Con altrettanta decisione il C. si batte contro l'invalso "abuso" per cui i cardinali veneti si permettevano di raccomandare loro protetti (specie quando sono in ballo nomine), senza, prima, "passare per mano" del rappresentante veneto. E vivacemente polemizza, altresì, contro l'"inventione di permutare i benefici che godono i nazionali", gli ecclesiastici cioè che siano anche sudditi dello Stato della Chiesa, "nello stato ecclesiastico, conferendone altrettanti nel venetoe. Nel frattempo le sue "incurabili infirmità", l'istintivo "riguardo della preservatione del proprio individuo naturalee l'inducono ad implorare più volte la sostituzione; a che pro la Repubblica - cui ha offerto l'impegno totale della sua "languida e logorata complessione", per la quale ha "consuntee le sue "ristrette fortunee - s'ostina a farsi rappresentare da un "cadavere spirante"? Non esagera: sta malissimo. Tardiva lo raggiunge la licenza di rimpatrio del 27 ag. 1695; e troppo tardi parte da Roma ai primi di settembre.
Quando legge, a Venezia, il 5 luglio 1696, la sua relazione - ove, rilevato l'impegno caritativo ed antinepotistico del pontefice, ne indica pure l'angusto orizzonte politico, la sfasatura tra propositi e risultati - dichiara che, con la "salute abbattuta all'estremo", privo d'una ragionevole speranza di miglioramento, è costretto a dimettersi dal servizio pubblico. "Supplirò - promette - colle preghiere al cielo", invocando grandezza e prosperità per la patria. Ancora una volta non esagera: "ammalato da febre et flussione nel pett" morrà, a Venezia, il 31 dic. 1696. Egli si era sposato, ancora il 7 luglio 1683, con Giovanna di Francesco de Moncada vedova di Pio Giberto di Savoia, ma non ne aveva avuto figli.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, 59, c. 326v; 96, c. 84v; 159, alla data di morte; Ibid., Senato. Corti, regg. 52, c. 82v; 53, passim da c. 30r; 54, 55, passim;56, 58, passim rispettivamente sino a c. 157v e da c. 17r; 59-61, passim;62, passim sino a c. 53v; Ibid., Senato. Deliberazioni Roma ordinaria, regg. 86 (da c. 70r)-88, passim;89, passim sino a c. 37r; Ibid., Senato. Deliberazioni Roma expulsis papalistis, regg. 4, 5 (sino a c. 4r), passim;Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Archivio Morosini Grimani, 560, p. 597; Ibid., Cod. Cicogna, 2109, p. 90; 2403/9; 2519/3; 2520/5-7, 13-16, 44; 2521; 2525/6; 2527/5, 21; 2528/40; 2531/30; 2533/12, 16; Ibid., Mss. Correr, 22019; Ibid., Mss. P. D., 374/I, p. 157; 2261/6, 16-18; Rel. di amb. veneti..., a cura di L. Firpo, II, Torino 1970, pp. LVII s.; IV, ibid. 1968, pp. 273-301; V, ibid. 1978, pp. XXXIV s.; VII, ibid. 1975, pp. 307-347; Documente privitóre la istoria Românilor..., V, 1, a cura di E. de Hurmuzaki, Bucuresci 1885, pp. 103-107; IX, 1, ibid. 1897, pp. 299-306, 313-326; De gestis... Marci ab Aviano..., in Analecta... capuccinorum..., XXXIX (1923), pp. 202-205; G. B. Chiarello. Historia... dell'armi imperiali... dall'anno 1683 fino al 1687, Venetia 1688, pp. 104-106; The occupation of Chios... (1694)..., a cura di P. P. Argenti, Oxford 1935, pp. LXXXVIII n., 118 ss.; L. F. Marsili, Autobiografia..., a cura di E. Lovarini, Bologna 1930, p. 37; N. Beregan, Historia delle guerre..., I, Venetia 1698, pp. 26, 111, 135; C. Contarini, Ist. della guerra di Leopoldo primo..., I, Venezia 1710, pp. 254, 260; P. Garzoni, Istoria... di Venezia..., I, Venezia 1720, pp. 48, 57, 408, 546; G. Diedo, Storia... di Venezia..., III, Veneia 1751, pp. 361, 366; E. A. Cicogna, Delle Inscr. Ven., III, Venezia 1830, p. 489; VI, ibid. 1853, p. 504 n. 1; J. W. Zinkeisen, Gesch. des osmanischen Reiches..., V, Gotha 1857, p. 114; L. Ranke, Französische Geschichto, V, Stuttgart 1861, pp. 238-242 (il C. è nipote però, non "Sohn" del doge omonimo); Id., Storia dei Papi, Firenze 1959, p. 1027 n. 16; B. Cecchetti, ... Venezia e... Roma, I, Venezia 1874, pp. 358 s.; M. Brosch, Gesch. des Kirchenstaares, I, Gotha 1880, in nota alle pp. 450, 452 ss., 461, 463; G. Occioni-Bonaffons, Bibl. stor. friul., Udine 1881-1899, n. 822; A. A. Bernardy, Venezia e il Turco..., Firenze 1902, pp. 79 s.; F. De Bojani, Innocent XI..., Rome 1910-12, I, pp. 659 s.; III, pp. 860 n. 1, 929, 1026; O. Redlich, Gescht. Österreichs, VI, Gotha 1921, pp. 307 n. 2, 317 n. 4, 336 s., 341; E. Rott, Hist. de la représentation... de France auprès des Cantons suisses, VIII, Berne-Paris 1923, ad vocem;IX, ibid. 1926, p. 71 n. 1; D. Levi-Weiss, ... Venezia e... Turchia dal 1670 al 1684..., in Arch. ven-tridentino, VIII (1925), pp. 42 n. 4, 70-100 passim; IX (1926), pp. 99-155 passim, M. Heyret, P. Markus von Aviano..., München 1931, pp. 108, 201, 282; Id., P. Marcus von Aviano.... Einführung in... Korrespondenz, München 1937-46, I, pp. 15, 241; II, pp. 287, 399; III, p. 88; L. von Pastor, Storia dei papi..., XIV, 2, Roma 1932, pp. 53 n. 2, 97 n. 3, 144, 145, 421 n. 4, 428; A. Pino Branca, La vita economica degli Stati it., Catania 1938, p. 409; F. Nicolini, L'Europa durante la guerra di succ di Spagna..., II, Napoli 1938, pp. 347, 422; Id., Wicostorico, a c. di F. Tessitore, Napoli 1967, pp. 312 s. e, in nota, 110, 115; F. Antonibon, Le rel. ... di amb. ven., Padova 1939, pp. 59, 72, 106; The L. von Ranke manuscripts of Syracuse University..., Syracuse, N. Y., s. d., pp. 68 s.; Sacra ritumm congregatio ... beatificationis... venerabilis... Marci ab Aviano ... positio..., Città del Vaticano 1956, pp. 288-291, 294 ss., 330 s., 415 s.; Disp. degli amb.... Indice, Roma 1959, pp. 79, 117 s., 242 s., 329; P. Savio, Dispacci dell'amb. C..., in Arch. ven., s. 5, LXVII (1960), pp. 42-75; Id., ... Marco d'Aviano..., in L'Italia francescana, n. s., XXXV (1960), pp. 333 ss.; XXXVI (1961), pp. 204, 207; XXXVII (1962), pp. 52 s., 58; S. Serena: S. Gregorio Barbarigo..., Padova 1963, pp. 151 s.; G. Castellani. Una questione di cerimoniale alla corte pontificia..., in Strenna dei romanisti, XXV (1964), pp. 113 s.; T. M. Barker, Double Eagle and Crescent. Vienna's Siege..., New York 1967, pp. 367 ss.; M. Muraro, Palazzo Contarini a S. Beneto, Venezia 1970, pp. 26 s.; E. Eickhoff, Venedig, Wien un die Osmanen..., München 1970, pp. 366, 413; Z. Zlatar, Stavaranie Svete Lige i Dubrovacka Republika (La formazione della sacra lega e la Repubblica di Ragusa), in Jugoslovenski istorijski Casopis, XIV (1975), pp. 32 n. 8, 41 ss.