CONTARINI, Domenico
Secondo dei due figli maschi di Giulio di Domenico del ramo contariniano detto dei Ronzinetti, e di Lucrezia di Andrea Comer, nacque a Venezia il 28 genn. 1585 ed ebbe, al pari del fratello Angelo, un'accurata istruzione. Ma, mentre questi sin dall'adolescenza mira con decisione all'affermazione politica, il C. pare ritrarsi nell'ombra, acconciandosi - pago d'assecondarlo e d'agevolarlo - ad una esistenza meno impegnativa. Lo stesso rapporto con il Marino - il quale, da Parigi, nel 1615, ricorre a lui per la consegna d'un pacco al "libraro" Scaglia e, nel 1619, suggerisce al Ciotti, qualora acquisti "qualche carta del Caraccio o del Tempesta", d'usare, per il recapito, la corrispondenza del C. col fratello allora ambasciatore in Francia - sembra un corollario pratico di quello che il poeta intrattiene con Angelo, limitato a plichi da ricevere e da spedire.
Non per questo il C. (che, nell'autunno del 1605, è nel novero dei "gentilhomeni" al seguito dell'ambasciata straordinaria d'omaggio a Paolo V) è figura scialba, anche se, certo più modesta in confronto a quella, a tutta prima soverchiante, del fratello. S'instaura tra i due una sorta di concertata divisione delle parti - le cui modalità, quando ormai sono da un pezzo collaudate, è possibile ricostruire grazie ad un consistente nucleo di lettere inviate dal C. ad Angelo specie tra il gennaio 1627 e il dicembre 1629 nel corso dell'ambasciata romana di questo - che contempla, appunto, la totale immersione di Angelo, rimasto scapolo, nella grande politica coi connessi onori ed oneri delle cariche più dispendiose e prestigiose. Il C., invece, il 28 nov. 1607, s'accasa vantaggiosamente con Paolina di Niccolò Tron, avendone un figlio, Giulio (1611-76) che diverrà, il 12 nov. 1651, procuratore di S. Marco sborsando 25.000 ducati, e cinque figlie, Chiara sposa a Tommaso Moccnigo, Maddalena maritata a Girolamo Dandolo, Laura che rimane nubile, mentre le due rimanenti finiscono monache nel convento veneziano di S. Caterina.
Tranquilla scorre l'esistenza del C. nel "ricco e nobile palazzo" prospiciente il "rio di san Luca nella contrà di san Benedetto", dalla cinquecentesca facciata marmorea, con uno spazioso cortile, con "maestose" scalinate, oggetto d'ammirate descrizioni; e sono per lui piacevoli pure le prolungate villeggiature nell'accogliente villa di Val Nogaredo, allietata da un giardino e da un'aranciera. Suo compito - e ciò lo distingue da Angelo e nel contempo lo rende a lui complementare - l'assidua vigilanza sul cospicuo patrimonio familiare consistente in un nutrito e differenziato assieme d'immobili: oltre al palazzo di famiglia, "case nella contrà di San Benetto", un'osteria a Rialto, una bottega in calle degli Stagneri, "case" a Padova, campagne nel Padovano nell'Opitergino a Motta di Livenza. È grazie a questo che il C. può permettersi di dare alle figlie sposate un'ingente dote, di spedire con regolarità lettere di cambio al fratello lontano, di pagarne gli incessanti dispendi anche se talvolta è costretto a metterlo in guardia e a pregarlo di non esagerare. "Ho veduto il conto che mi havete mandato" e, dopo tante fatture, "pochi denari mi restano nelle mani". Proprietario tutt'altro che distratto, segue con diligenza le rese, controlla l'onestà e la laboriosità dei fattori che non esita a licenziare se non ne è soddisfatto. E, tra questi, il più attivo sembra Matteo Vettorelli, "che serve per fattore alla Motta", a vantaggio del quale il C. disporrà, nel testamento del 30 ag. 1654, oltre ad un modesto lascito di 30 ducati, "che, in segno della servitù" da questo "prestata alla casa", venga dagli credi "tenuto in casa alla Motta tutto il tempo di sua vita". Frequenti gli spostamenti del C. ora a Motta, ora ad Este ove si concentra il grosso dei suoi terreni: per le "facciende della casa" è quasi sempre "fuori hor di qua et hor di là" scrive, con una punta d'esagerazione, al fratello. Nemmeno di carnevale si concede un divertimento indulge ad un momentaneo "disordine". Il 4 febbr. 1628 così dice di sé al fratello: "io mi governo esquisitamente", se non altro perché "non haverei tempo d'applicarmi ad altro ch'ai negotii correnti". Sono in ballo il "negotio dell'acque dinanzi a questi signori sopra i fiumi", deve star "dietro" all'avvocato "acciò seguiti la vittoria". Non dimentica mai di "veder quanto dovemo havere", è sempre aggiornato sulle giacenze di "sorgo et formenti". Si cruccia se "il racolto si dimostra scarso assai", se "il frumento poco si vede"; solo "Dio benedetto", sospira, può salvarlo dalla disgrazia del "pessimo racolto". Purtroppo la piena del Livenza rovina i "sorghi" dei "miserabili contadini"; e sa che, durante la carestia, i "poveri contadini" vanno "mangiando... li radici di herbe bruciatì". Ma, nel contempo, senza un'ombra di scrupolo occulta nei magazzini il "formento" dell'anno precedente. "Lo vado tenendo con i denti - spiega al fratello - per avanzare nel prezzo". Una spietata logica ispira le sue mosse. La stessa che lo muove quando si tratta di combinare il matrimonio dell'unico figlio, il vero investimento per il futuro della casata; e perciò, nelle lettere al fratello, parla solo dì lui, dei suoi maestri, delle sue vesti, dei viaggi che intende fargli fare, mentre le figlie sembra non esistano. L'accasamento di due di queste si riduce a tirar sulla dote, ad una festa di nozze che si svolga "con honore" e, insieme, senza troppe spese; sta pertanto att ento che sul "fior di robba" ("vitelli esquisitissimi" ed ottimi vini) non s'avventi vorace "furia di gente", maledicendo "scalchi" e "servitori" pronti a "divorarci ogni cosa". Sposare le figlie è un fastidio oneroso, un obbligo di cui liberarsi alla svelta: "Dio ne sia lodato, mi sono sbrigato", esclama a matrimonio celebrato e festeggiato. Un'operazione da soppesare con cura, invece, quello di Giulio, sempre, comunque, in termini pratici. Piero Giustiman, tramite Federico Corner, gli propone "una sua figlia". Il C. si dichiara disponibile e ritiene non inadeguata la dote di 27.000 ducati. Viene stipulato il contratto. Di Manetta Giustinian, la futura nuora, il C. sa solo per sentito dire: viene "dipintami per bella, savia et virtuosissima". Ciò gli basta per rallegrarsi. "Io risento - così al fratello - quel contento che... potete immaginare". Unico neo nel gaudio il fatto che Giulio sia "un poco renitente". Eppure il C., "due o tre volte", gli ha elencato i vantaggi del "parentado"; ma il giovane con "parole" e con "gesti" mostra palesemente "che non gli piace maritarsi". Ciò non toghe che il C. lo costringa a farlo.
Risulta pure evidente dal carteggio la funzione di supporto nei riguardi di Angelo assegnata dal C. alla propria ridotta presenza politica: "io sto fuori di pregadi - scrive il 2 ott. 1627 -, me ne duole per rispetto vostro, poiché sempre occorre qualche cosa et esser in senato giova mirabilmente, come ben sapete. Se Dio benedetto volesse concedermi gratia ch'io potessi rimaner di zonta, sarebbe un buon punto. Farò quello che potrò e procurerò di esser" eletto, a costo di una rottura con Lazzaro Morosini che desidera lo stesso. Il C. contatta savi del Consiglio perché agevolino gli "interessi" dei fratello; si consiglia col segretario Franceschi "intorno al tempo" nel quale Angelo potrà "esser nominato consiglier"; dispone d'un "amico" influente che, dietro sua richiesta, fa anche "andar le balle non sincere"; bazzica la "porta dei pregadi" per sentire se ci sono "novità", per carpire indiscrezioni sui più minuti retroscena e dame, poi, conto al fratello lontano. Desumibile, infine, dalle lettere dei C. il suo disdegno da grande patrizio, per la "malignità" di "questa nostra città", ove "ognuno", anche il piccolo nobile spiantato, ciancia e "discorre a modo suo". Pur giudicando severamente l'intrigante ambizione dei Comer (coi quali è imparentato per parte di madre) e in ciò prendendo le distanze dal discutibile appoggio loro fornito dal fratello ("purtroppo è vero che questi vostri Cornari sono giente da pratticarli alla lontana", è colpa loro se nascono tanti "rumori", insiste il C. con Angelo), pur comprendendo come la "prettensione" del figlio del doge al vescovado di Padova conferisca all'opposisizione di Renier Zeno l'aureola della moralizzazione e autorizzi anche i più sprovveduti a chiassose proteste, il C. resta pieno di sgomento e d'orrore di fronte all'emergere antagonistico dei nobili poveri. Alla reazione d'uomo d'ordine si somma una sorta di rigurgito classista: i patrizi squattrinati ai suoi occhi sono d'un'altra classe; se protestano si degradano ulteriormente. Renier Zeno, che li capeggia, è per il C. un esagitato, dagli interminabili discorsi pieni di "rabbia" e "colera". I suoi "fauttori" sono "mai nati", una "gran banda" di, "gente bassa", cui occorre che i "buoni cittadini" (quelli, cioè, dotati di "buon senso" e di "zelo del ben publico" tra i quali C. si annovera) sbarrino il passo. Il C. è sconcertato e spaventato dal contenuto e dal tono estrernistici degli interventi di Zeno: pericolosissimi, per lui, "certi concetti" dai quali sono soprattutto "allettati" i suoi vociferanti "partiggiani". Egli non esita, infatti, a proclamare di "voler che tutti", nobili ricchi e nobili poveri beninteso, "siarno eguali et di voler far ch'ogn'uno possi andar a capello rispetto ai debitori". Queste e "mille altre sue chimere" lo fanno eleggere, nel maggio del 1629, con sbalordimento e riprovazione di chiunque - come il C. - sia assennato, procuratore di S. Marco. Per fortuna c'è il riflusso della nobiltà impoverita e Zeno viene emarginato: è in preda alla "colera", registra compiaciuto il C., sentendosi "procurator di cartone", destituito d'ogni "luogo", bloccato nell'aspirazione a diventare savio del Consiglio. A questo punto il C. può anche guardare a Zeno con divertita ironia. Il C. d'altronde sa ironizzare e sorridere, come dimostrano i suoi gustosi schizzi di patrizi che l'accostano per strada facendogli "intender", a bassa voce e con fare circospetto, i loro desideri in fatto di cariche. Venata di sarcasmo l'informazione ad Angelo del ringraziamento di Carlo I d'Inghilterra per il dono del "ritratto" di Marco Trevisan e Nicolò Barbarigo, i due amici "eroi"; è "cosa ridicolosa" precisa Contarini. E, quando "il loro ritratto" viene esposto in una bottega in Merceria, si augura, un po' stizzito, che "ogn'uno si fermerà a vederli et penso vi si riderà".
Politico a tempo limitato il C. ("soggetto che ha atteso più agli affari privati che a' publici" dirà di lui un nunzio pontificio), psicologicamente distaccato ché il centro dei suoi interessi quotidiani sta altrove, per il quale le vicende pubbliche occupano parecchio spazio delle sue missive al fratello solo quando sente il suo status insidiato, quando percepisce con apprensione la minaccia latente nel tentato arrembaggio, da parte del settore impoverito della nobiltà, ai privilegi oligarchici. La politica - il cui ambito è stato avvedutamente circoscritto sì che non invada il campo, ben protetto e ben gestito, dei suoi impegni familiari, sì da evitare l'allontanamento, per ambasciate o per rettorati, sia pure temporaneo, da Venezia - si risolve, allora, per il C. nella frequentazione dei Senato, ove, peraltro non si mette in luce, anzi scansa di prendere la parola. Esperto conoscitore dei meccanismi interni al suo andamento, è scaltrito nel piccolo cabotaggio delle elezioni e delle sostituzioni, è attento costantemente a favorire, in questo, il fratello. In buoni rapporti con la casta dei segretari, il C. è uomo influente, anche se in forma non vistosa: ottiene permessi di transito per granaglie; alleggerisce la responsabilità di chi è accusato di concessa ospitalità a banditi; trova soddisfacenti sistemazioni per i figli di chi lo serve; è prodigo di raccomandazioni e, a sua volta, oggetto di pressioni e solleciti. Certo sembra un navigatore accorto, e non privo di tratti affabili, nelle pratiche del sottogovemo; è lieto se può fare un favore anche perché, così, sente rafforzato il proprio prestigio. "Procurerò - scrive il 28 nov. 1645 ad un patrizio - il luogo dei malefficio per il suo vicario" a Brescia, purché vi sia eletto podestà "signor mio confidente". Nel trasmettere, il 29 luglio 1645 un "memoriale" al genero Girolamo Dandolo, gli chiede due righe di ricevuta, "acciò che possa far veder" al postulante di riguardo (si tratta d'un arcivescovo) che "ho essequito i commandi suoi". A lungo e ripetutamente membro del Senato o della zonta, più volte nel Consiglio dei dieci, talvolta savio del Consiglio (ed è in veste di "consiglier più vecchio e vicedoge" che nel marzo del 1655 sollecita l'elezione del successore al defunto doge Molin), unico incidente nella sua esistenza intenta a contemperare "domestici negotii" e presenza pubblica l'addebito d'oltre 5.129 scudi addossatogli per un ammanco emerso durante i tre mesi in cui C. è stato provveditore alla "cassa degl'ori et argenti". Si tratta d'un "intacco" operato tra il gennaio 1637 e l'ottobre 1641, antecedente, quindi, all'ingresso, del 28 giugno 1642, del C. nella "carica". La condanna, perciò, inflitta al C. e ai due colleghi al "rimborso" è "una giustitia - così si sfoga il C. scrivendone, il 17 ott. 1645, ad un amico - alla turchesca". Egli, di per sé, non deve "render conto di giro di scrittura et di accomodamento di essa"; semmai va ascritto a suo merito l'aver permesso l'accertamento dell'"intacco", i cui "rei" sono "confessi e convinti", che sarebbe rimasto, altrimenti, "sepolto... et posto nell'oblivione". Pur colla "riputatione" intatta il C., comunque, subisce il "torto" ed il "gran pregiudicio" dell'"iniqua e ingiustissima sententia" del Collegio, peraltro "intromessa" dai capi dei Consiglio dei dieci. La somma sborsata resta bloccata in "cecca". Né il C. rinuncia a ricuperarla; solo che, così dal testamento del 1654, non l'esige a gran voce finché dura la guerra col Turco. Ormai assai avanti con gli anni, ormai libero da obblighi verso il fratello ché questi è morto, ormai delegata al figlio procuratore la rappresentanza, in sede pubblica, della famiglia, il C. sta assaporando la dolcezza dell'autunno nel verde di Val Nogaredo, quando lo raggiunge la turbante notizia dell'elezione, del 16 ott. 1659, a doge. "Ambitione", così nel testamento del 24 genn. 1674, dalla quale era "lontanissimo..., riconoscendomi poco atto a sostenere questa gran dignità". Sorta di Cincinnato, privo di "cure ambiziose" a detta d'un anonimo patrizio, "ascese a questo grado non per merito delle qualità personali, né per vigore di broglio", ma per volontà soprattutto dei Giustinian (suoi parenti per via della nuora) "onnipotenti dei voti di tutti i consigli". Quasi imbarazzati i contemporanei di fronte all'esilità del suo profilo politico. Ha sostenuto "la dignità senatoria più col lustro della famiglia che per la qualità cospicua degli impieghi esercitati" scrive riguardoso Andrea Valier; "non fu mai huomo di ricchi talenti" calca la mano l'anonimo, riconoscendo, in compenso, che il C. è, tuttavia, "giusto, amichevole". Certo non gode di "molta opinione"; per trentasei anni "portò continuo giro e raggiro nelle volute di pregadi". Tutta qui la sua biografia politica. All'unanimità dei voti dei quarantuno elettori subentra lo sconcerto per la evanescenza dei connotati specifici. E un aggravante il fatto sia pessimo oratore: "non pronto a parlare da huomo", insiste acido l'anonimo, non possiede certo le parole che si possano attendere da "principe in collegio". Privo della statura del "capo", ci si consola all'idea sia, in compenso, "di buon cuore".
Superate, ad ogni modo, le difficoltà dell'esordio contrassegnato dalla distribuzione di 2.000 ducati al popolo, sciolto l'iniziale iinpaccio della lingua, il C. non fu doge indecoroso.
Malgrado il poco "vigore" insito nel "gelo" intorpidente dell'età, si conserva, nell'aspetto, "asciutto assai" e ancora "robusto", come scrive di lui, l'8 luglio 1662, l'inviato sabaudo Girolamo Solaro di Moretto. "Parla poco", osserva; "non ha gran voce", ma, d'altra parte, "porta una serenità maestosa in faccia". "Affettuosissimo principe" lo loda Andrea Valier.
Signorile e generoso il C. s'accattiva la benevolenza del popolo e non è sgradito alla nobiltà, anche se da questa partono dei pungenti appunti: Pietro Basadonna gli ricorda, dopo che si è comportato a mo' di re con un ambasciatore, che non è "principe sovrano"; un savio del Consiglio, pregato dal C. colto da malessere di concludere un suo discorso, rifiuta di abbreviare e prosegue a parlare; il procuratore Andrea Contarini, avversario del figlio Giulio, gli fa astiosamente presente come un dono di pelli d'inviati moscoviti sia di spettanza pubblica. Memorabile il "signor Francesco, non potemo e non dovemo lodarla" con cui il C. accoglie gelidamente Francesco Morosini nell'agosto 1661, palesemente riprovando la sua condotta di capitano generale da Mar. Particolarmente accentuato il tono fastoso impresso dal C. alle vicende - le nozze dei nipote Angelo, il battesimo del figlio di questo - di per sé private della sua casa, che assunsero rilevanza pubblica presenziandovi egli nella forma più solenne e principesca.
Dopo oltre un armo di quasi totale immobilità, il C. muore, "per resolutionem" come scrive il nunzio, il 26 genn. 1675 venendo sepolto nell'"arca" di famiglia della chiesa veneziana di S. Benedetto.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Avog. di Comun, 55, c. 70v; Ibid., Senato, Secr., reg. 114, c. 31v; Ibid., Notar., Testam., 1166/114; 1168, c. 103v; Arch. Segr. Vat., Nunz. Venezia, 93, c. 728; 115, c. 31r; Venezia, Biblioteca del Civico Museo Correr, Archivio Morosini Grimani, 389; 390; 394; 397; 398; 400; 483/1; 487/16; 498; 518; 568; 582/5; Ibid., ArchivioTiepolo, 5; 117; 210; Ibid., Codici Cicogna, 759/II, pp. 234, 249; 772; 824; 1107/13; 1317/1; 1364/4; 1378/15; 2004/1; 2109, pp. 1. 13-14, 65, 81-92; 2520/2, 20, 36, 43; 2523 (è questo il codice con le lett. del C. al fratello); 2524/66, 70, 100, 123, 126; 2525/6; 2527/18; 2534/8; 2538/25; 2542; 2737/2; 2942/1, 4; 2987/4; 2994/VII e Treviso, 9; 2996/Pago; 3151; 3152; 3153; 3156; 3174/19; 3236; 3237; 3277/3 passim; 3282/91, 93; 3412/14; 3414/19; 3416/2; 3418/11; 3419/16, 18; 3420/1; 3424/1; 3429/20; 3430/25; 3434/11; 3470/Bergamo e Brescia, 11 e Chioggia, 2-17; 3472/23 e Vicenza; 3473/II, 13, 16; 3474/I, 10 e VI; 3475/III, 5-49 e V e IX, 1; 3478/VI, 9 e VIII, 5; 3490/1; Ibid., Commissione, 27, cl. III; Ibid., Mss. Correr. 299; Ibid., Mss. Donàdalle Rose, 261;Ibid., Mss. Malvezzi, 130/17; Ibid., Mss. P. D., 218; 581/31, 377; 616/4; 670/37; 756/51, 60, 61; 757/33, 55; 758/29; 761; 763/34; 764/57; 765/72; 822/8; 828/7; 832/76; 833/3; 836/78-90; 923; 1052/238, 254, 259, 326, 327, 367, 371, 402, 500, 505, 570, 581, 603; 1295/21; 1349/1-55; 2481/17; Ibid., Mss. WcovichLazzari, 22/7; Lett. d'uom. ill... del sec. XVII..., Venezia 1744, p. 41 (dovrebbe essere il C., non un fantomatico "Dionisio Contarini", il proprietario della "bella casa a S. Benedetto", cui un'abbondante nevicata, all'inizio del 1608, "ha sfondato il tetto"); O. B. Marino, Epistolario..., a cura di A. Borzelli - F. Nicolini, I, Bari 1911, p. 189; Id., Lettere, a cura di M. Guglielminetti, Torino 1966, pp. 198, 227, 231; L. Matina, Ducalis regiae Lararium, Venetiis 1659, con dedica al C. a pp. 305-307; Applausi... nella elettione del... C. ... da gli Infaticabili.... a cura di G. B. Doni, Venetia 1660; B. Nani, Historia della Rep. veneta, in Degl'ist. delle cose ven., Venezia 1720, VIII (questa prima parte è dedicata al C.), p. XV; IX, p. 434; F. Sansovino, Venetia... nobilissima..., Venetia 1663, pp. 118, 133, 393, 747; Le rel. univ.... di Luca di Linda et da M. Bisaccioni tradotte, Venetia 1664, p. 604; F. F. Frugoni, Candia angustiata, Venetiis 1669, pp. 5-9; G. Bucelino, Vita... S. Gerardi Sagredi..., /in oppido / Sangallensi 1672, dedic. al C.; G. Fiorelli, Detti e fatti... del Senato e patritii... consecrati al... C., Venetia 1672; N. Amelot de La Houssaye, Hist. du gouvernement de Venise, Paris 1676, pp. 208-212, 235 s.; A. Valier, Storia della guerra di Candia, II, Trieste 1859, p. 138; Calendar of State Papers... of Venice, a cura di A. B. Hinds, XXXII, London 1931, p. 107; XXXVI, ibid. 1937, p. 258; XXXVII, ibid. 1939, p. 311; Le cron. bresciane..., a cura di P. Guerrini, V, pp. 13, 26; Pontida... Docc. per la storia del monastero di S. Giacomo.... a cura di P. Lunardon - G. Spinelli, in Bergomum, LXX (11976), 3-4, p. 34; Raccolta di privilegi.. concernenti... Brescia..., Brescia 1732, pp. 117, 153, 163, 205, 223, 346, 354-355, 369-370; F. Macedo, Elogia in... duces..., Patavii 1680, p. 116; A. M. Vianoli, Historia veneta, II, Venetia 1684. pp. 660, 719; N. Doglioni, Le cose notabili... di Venetia..., Venetia 1692, p. 137; G. Graziani, F. Mauroceni... gesta, Patavii 1698, p. 200; C. Freschot, Rerum... gestarum... synopsis..., Norimbergae 1715, p. 137; A. Arrighi, De vita... F. Mauroceni..., Patavii 1757, pp. 221, 274; Cronaca veneta..., I, Venezia 1787, p. 150;P. Daru, Hist.... de Venise, V, Paris 1821, pp. 77 s., 139; Biografia universale..., VIII, Venezia 1840, p. 151; Serie dei dogi..., II, Venezia 1840, n. CIV; E. A. Cicogna, Delle Inscr. Ven., V, Venezia 1842, pp. 11, 185, 340; VI, ibid. 1853, p. 988; Id., Saggio di bibl. ven., Venezia 1847, nn. 1212, 1789, 2411 s., 3398; A. Gloria, Lucrezia degli Obizzi..., Padova 1853, p. 9; F. 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Ferrari, Imss. concernenti Pola in bibl. ven., in Atti e mem. della Soc. istr. di arch. e st. Patria, LXXVII (1977), pp. 185s.; Bibl.... ed. giuridiche, I, 1, Firenze 1978, pp. 503 s., 550 s.; Liturgia pietà... al Santo, a cura di A. Poppi, Vicenza 1978, p. 178; L. Pagnoni, ... chiese parrocchiali bergamasche..., Bergamo 1979, p. 209; P. Ulvioni, Accademie... Il caso veneziano, in Libri e documenti, V (1979), 2, pp. 50, 72 n. 182; M. De Biasi, Ilgonfalone di S. Marco, Venezia 1981, pp. 20 s., 49; G. Mazzatinti, Inv. dei mss. delle Bibl. d'It., LXXI, pp. 165 s.; LXXXV, p. 48; LXXXVII, pp. 71, 74; LXXXIX, pp. 7, 110; XCL, pp. 7, 79.