documentario
documentàrio s. m. – La forma cinematografica, nata con il cinema stesso (le ‘vedute’ dei Lumière) e incentrata sulla ‘vita colta sul fatto’ e sul documento reale, ha visto negli anni Duemila, nell’era dei format televisivi come i reality show, che mentre si appellano al reale lo mistificano, un singolare sviluppo. Nell’epoca dell’informzione mediatica inflazionata da immagini che pretendono di restituire gli avvenimenti in presa diretta, il d. si caratterizza per una poliedricità e differenziazione di proposte e di indagini sullo ‘statuto del reale’. Si è così sviluppata una funzione critica del d. rispetto al controllo delle immagini da parte della società dello spettacolo, e il cinema si è fatto avamposto di una visione della realtà difforme dall’illusione che il filtro mediatico riverbera su di essa. Nuovi autori hanno privilegiato il ‘rischio del reale’ rispetto alla costruzione della finzione, e film come lo statunitense Fahrenheit 9/11 (2004) di Michael Moore, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes, hanno evidenziato con piglio militante e controinformativo, le mistificazioni politiche dei poteri costituiti. Il 2001, con l’attentato alle Twin towers e con i fatti del G8 di Genova, è stato un anno cruciale perché venisse in luce sia il potenziale di ambiguità della presa diretta sulla scena di un crimine terrorista epocale, sia la forza testimoniale dei mille occhi di telecamerine digitali che hanno documentato i disordini genovesi. Sono così nati film collettivi come gli italiani Un altro mondo è possibile (2001) e Lettere dalla Palestina (2002), il portoghese O estado do mundo (2007), la coproduzione 11 settembre 2011. Si è aperta la strada a un d. di creazione, che ha permesso anzitutto di ridefinire linguisticamente i precedenti del cinema-verità. L’attitudine documentaria è confluita nell’invenzione, contaminando finzione e d. stesso, ridelineando la forma del docu-drama. Ne è venuta fuori una lingua comune dove il taglio metacinematografico, la forma diaristica, la sperimentazione del montaggio, la forza incarnativa della testimonianza reale, il flusso delle durate reali, il lavoro sulle immagini di repertorio, trovano di volta in volta soluzioni formali di stile autoriale. In tal senso hanno lavorato nel d. cineasti in cui decisiva è la vocazione ‘nomade’ al viaggio di scoperta del reale, tra politica e storia, antropologia e trasfigurazione, come W. Herzog, R. Kramer, W. Wenders, A. Gitai, A. Kiarostami, C. Akerman, P. Costa, J. Demme, R. Depardon, G. Bertolucci, J.C. Rousseau, G. Reggio, J. Zangke. In tali casi ci si può riferire a una forma di d. narrativo dove emerge una sorta di drammaturgia del reale, una dialettica tra formalizzazione del paesaggio e forza documentaria, nella tensione tra globalizzazione e regionalismo, sopravvivenze culturali e omologazione. Come nelle campagne di Mondovino di J. Nossiter (2004), nel deserto dei Gobi di La storia del cammello che piange (2005) di L. Falorni e B. Davaa, nei sobborghi argentini di The take (2004) di A. Lewis, scritto dalla teorica no global N. Klein, nel monastero di Die Große stille (2005; Il grande silenzio) di P. Groning, nella Barcellona segreta di De nens (2004) di J. Jordà, nella scuola rurale di Être et avoir (2002; Essere e avere) di N. Philibert, nella Russia derelitta degli emarginati di Kto Bolche (2000) di V. Kanevsky e di Retour à Kotelnitch (2003) di E. Carrère o Mesto na zemle (2001; Un posto sulla terra) di A. Aristakisian, nella Germania in trasformazione dopo la caduta del muro dei film di T. Heise. Una direzione indicata dal lavoro di alcuni maestri del d. attivi negli anni Duemila, nei cui film il luogo viene interrogato dallo sguardo e la materia filmica si compone intorno alla potenza di una comunità, o di una esperienza individuale o collettiva che affonda le radici nel vero ma assurge a forma espressiva affidata alla realtà delle immagini, sempre al presente, anche quando si riferiscono alla memoria di un popolo. Così nel distretto industriale cinese in disfacimento di Tiexi Qu (2003; Il distretto di Tiexi) di W. Bing, interrogato a cavallo tra i due secoli 20° e 21° da uno sguardo lucido e dolente; nei mendri amministrativi dello Stato dell’Idaho o nelle sale prove del Ballet de l’Opera de Paris o nei camerini e sulle scene del Crazy horse osservati implacabilmente dall’occhio di F. Wiseman, rispettivamente in State Legislature (2006), La danse (2009) e Crazy horse (2011); nel possente archivio memoriale di rare immagini che circoscrivono l’emanciparsi dei popoli lavorate e rimontate da Y. Gianikian e A. Ricci Lucchi Inventario balcanico (2000) e Oh, uomo (2004). Il panorama italiano del nuovo d. ha ben assimilato tali lezioni di sguardo, vuoi indagando la trasformazione sociale e politica del Paese come nei film di G. Pannone, B. Oliviero, D. Vicari, vuoi spingendosi in zone calde del mondo come l’Egitto della Primavera araba del pluripremiato Piazza Trahir (2012) di S. Savona, vuoi esplorando una zona oscura della percezione come quella dei bambini fotofobici di The dark side of the sun (2011) di C. Hinterman, vuoi ripercorrendo in forma diaristica la memoria femminile e materna come in Un'ora sola ti vorrei (2002) e Vogliamo anche le rose (2005) di A. Marazzi, vuoi illuminando zone nascoste del nostro sud, tra memoria arcaica, emarginazione, storia minima, come nei film di T. Cotronei, A. Lavorato e F. D’Agostino, L. di Costanzo, M. Sannino, G. Cioni, M. Frammartino. Mentre, con grande novità di linguaggio, autori come G. Gaudino, I. Sandri, C. Salani, M. Santini, P. Marcello hanno composto un personale ‘atlante’ di immagini con d. incentrati sulla dimensione del viaggio, sul paesaggio umano e sul sentimento collettivo del mondo.