DOCETISMO (dal gr. δοκέω "sembro")
Gli eresiologi cristiani hanno qualificato come δοκηταί (doceti) tutti coloro che in varia guisa hanno negato la realtà "carnale" del corpo umano di Cristo, hanno messo in discussione la sua concezione e nascita umana, la realtà piena delle sue sofferenze e della sua morte. Poiché il docetismo tradizionale si esaurisce in sostanza nei primi tre secoli di storia cristiana, quando si era ben lontani dalla formulazione esatta del dogma cristologico e quando la realtà della natura umana del Cristo era sentita nella coscienza dei fedeli più nella sua realtà storica che come dato teologico, ci è difficile intendere oggi il docetismo come fu inteso allora. Nessun doceta ha mai negato la realtà del corpo di Cristo: esso fu piuttosto considerato come un ϕάντασμα, ma corpo reale, come reale si reputava il corpo degli angeli che nell'Antico Testamento ci sono raffigurati nel loro agire e comportarsi sulla terra né più né meno che come uomini. Per i doceti era inaccettabile la sola identità del corpo dì Cristo con un corpo carnale generato a norma di natura: per essi in Cristo uomo era assente la "sostanza della carne" (Harnack).
In linea pregiudiziale occorre osservare che eresiologi cristiani quali Epifanio, Filastrio, Ireneo, Tertulliano, S. Agostino, ignorarono, per quanto propensi a moltiplicare il numero delle sette ereticali, l'esistenza di una setta organizzata di cui le dottrine docetiche costituissero la caratteristica: le attestazioni di Ippolito (Philosophumena, VIII, 8-11; X, 16) e di Teodoreto (Ep. LXXXII) circa una setta docetica specifica non convincono. Il docetismo costituisce piuttosto una caratteristica comune di correnti e individui diversi: più che punto di partenza esso va oggi considerato, per intenderlo, come conseguenza di un particolare modo di raffigurarsi e d'interpretare tutto il messaggio cristiano. Per essere più precisi: nel valutare ogni posizione docetica o antidocetica non bisogna dimenticare che essa è sempre conseguenza di un particolare presupposto soteriologico ed escatologico. Nella polarizzazione di tendenze contrastanti prodotta dall'eterogeneo reclutamento dei fedeli in seno alle primitive comunità cristiane, la negazione della filiazione divina di Cristo (intesa in senso metafisico), l'affermazione che Cristo è uomo, figlio secondo natura di Giuseppe e di Maria, sono caratteristiche delle varie sette giudeo-cristiane, naturalmente portate a innestare il messaggio di Cristo sul patrimonio religioso giudaico e a interpretarlo realisticamente, eudemonisticamente si direbbe, come un messaggio di salvezza garantito dalla promessa di un prossimo ritorno di Cristo sulla terra a instaurare un regno di giustizia e di riscatto. Al polo opposto possiamo porre, almeno idealmente, il docetismo, il quale tradisce una raffigurazione del messaggio cristiano, specialmente per quello che riguarda il problema della salvezza, del tutto spiritualistica e intellettualistica e, quindi, come conseguenza, una parallela raffigurazione della persona di Cristo, concepita fuori della realtà umana e della storia.
È difficile pensare come si è fatto, che le dottrine, imbevute di spirito giudaizzante, combattute nella lettera ai Colossesi ci offrano il primo esempio di dottrine docetiche: meno problematico è il vederlo nei vaghi accenni contenuti nelle lettere giovannee (I Giov., IV, 2-3; II Giov., VII): ma è nell'epistolario ignaziano che si riscontra per la prima volta nettamente l'esistenza di dottrine docetiche. La preoccupazione con cui il vescovo di Antiochia si accinge nelle sue lettere (v. specialmente tutta la lettera agli Smirnesi e Trall., IX-XI; Magn., X-XI; Efesini, VII e XVIII,1, 2) a confutare e a combatterle ci mostra che esse dovevano essere assai diffuse nelle comunità dell'Asia Minore. Ridotta la natura umana del Cristo a un puro δοκεῖν (Smirnesi, IV, 2), conseguiva nella dottrina degli eretici smirnesi la negazione più completa della passione e resurrezione di Cristo (ibidem, V, 3), e quindi veniva a essere annullata l'opera di redenzione operata da Cristo per l'umano riscatto attraverso la sua passione, morte e resurrezione. Ed è questa la conseguenza più letale dalla quale Ignazio sembra voler premunire i suoi corrispondenti (Smirnesi, V, 3; VII, 4). Impossibile identificare con qualche sicurezza questi doceti asiatici: solo non è legittimo sostenere, come si fa spesso, che possano identificarli con i rappresentanti di quel cristianesimo giudaizzante da cui pure Ignazio cerca di tener lontani i suoi corrispondenti: l'epistolario ignaziano ci offre anzi a questo proposito un chiaro esempio di quella contrastante duplicità di tendenze che abbiamo cercato di mostrare presente nelle zone estreme delle primitive comunità cristiane.
Nello gnosticismo (v.), e in stretta relazione con i suoi presupposti soteriologici, le dottrine docetiche hanno più larga e decisa affermazione. Per lo gnostico non vi può essere redenzione attraverso la sofferenza e la morte di Cristo, il che avrebbe dovuto implicare un'unione dell'essere celeste con la materia impura, che, e soprattutto la carne, è identificata col male, mentre il Salvatore era sceso appunto sulla terra per affrancare gli uomini dalla materia: in altri termini, colui che aveva la missione di liberare l'uomo dal mondo della materia non poteva essere soggetto alle infermità e impurità della materia stessa. La redenzione umana è invece ridotta a un fatto puramente noetico: "la conoscenza del meccanismo che muove il mondo e la storia assicura allo spirito la pienezza della vita e la salvezza" (Buonaiuti, Frammenti gnostici, p. 74). L'umanità di Cristo è considerata dagli gnostici esclusivamente come l'organo della rivelazione, strumento per l'introduzione nel mondo della verità eterna; passione, morte e resurrezione di Cristo, sono da essi negate. Le prime due vengono spesso attribuite al Cireneo Simone, mentre Cristo "presa l'apparenza di Simone poté irridere i crocifissori. Egli infatti era una virtù incorporea, intelletto del padre innato e se ne tornò al padre" (Basilide, in Ireneo; v. Buonaiuti, op. cit., p. 74). Un breve frammento di Valentino conservatoci da Clemente (Stromat., VII, 59) e un altro passo conservato da Epifanio (Panarion, Haer. XXI, 7) oltre a mostrarci gli stretti legami che nel sistema valentiniano avevano cristologia e soteriologia, ci mostra altresì corme, agli effetti di quest'ultima, non avesse alcun valore l'opera di Cristo sulla terra, in quanto, scartata ogni possibilità di attribuire alla materia corporea di Cristo una funzione qualsiasi nell'economia della salvezza umana, delle tre categorie in cui può essere ripartito il genere umano, solo a quella degli πνευματικοί è possibile una salvezza assoluta (v. Buonaiuti, op. cit., p. 101).
Singolare, di fronte al docetismo degli gnostici, è la posizione di Marcione. Il Dio redentore marcionita, perfettamente separato dal Creatore, appare nel mondo non annunciato da profezia alcuna, senza essere atteso: la storia di Cristo sulla terra s'inizia con l'inizio dell'opera redentrice di lui nell'anno 15 di Tiberio quando egli apparì d'un tratto, essere puro, non sottomesso all'obbrobrio dell'umana generazione. A. Harnack ha asserito come sia gratuita affermazione degli avversarî l'accusa che Marcione abbia sostenuto come apparenti la passione e la morte di Cristo in quanto, se veramente per Marcione, δοκήσει ὁ Χριστὸς πέπονϑεν, l'apparenza della sofferenza va intesa unicamente con riguardo alla natura carnale del corpo che Marcione negava in Cristo. In realtà occorre andare più oltre per vedere come Tertulliano, polemizzando con grossolano realismo contro il docetismo marcionita, abbia di mira più gli effetti marginali che il nucleo essenziale di quella predicazione. Di fronte all'escatologia realistica difesa da Tertulliano, la visione marcionita del Regno ci appare di natura nettamente spiritualistica: il regno di Dio è il Vangelo, il quale s'identifica con il Cristo stesso, manifestazione a sua volta, immediata e improvvisa, del Dio buono contrapposto al Dio creatore della materia. Solo tenendo presente questo peculiare concetto del Regno, trova spiegazione lo stesso docetismo marcionita.
A prescindere da questo docetismo tradizionale, posizioni docetiche si sono volute riscontrare in talune affermazioni cristologiche di Clemente Alessandrino, Origene, Eunomio, Apollinare di Laodicea, Ilario di Poitiers, e nei cosiddetti aftartodoceti (v.). Ma se la cristologia di tutti questi può, specialmente per ciò che riguarda Apollinare, avere lontani punti di contatto, e puramente esteriori, con la cristologia docetica, completamente difformi sono i presupposti da cui essi sono suggeriti, senza contare che per alcuni di essi, Ilario di Poitiers per es., il netto realismo cui sono improntate le loro dottrine soteriologiche esclude ogni sostanziale connotazione docetica dalla loro cristologia. Posizione chiaramente e nettamente docetica, in senso gnostico-tradizionale, assumono invece in fatto di cristologia quelle correnti manichee che, camuffate sotto vesti cristiane, si diffusero nel bacino del Mediterraneo dalla fine del sec. III (v. manicheismo).
Fuori del cristianesimo si parla di docetismo buddhista per qualificare la tendenza, propria della filosofia del Mahāyāna, a trasformare in mitica la figura storica del Buddha.
Bibl.: Scritti di carattere complessivo: G. Bareille, in Dictionnaire de théologie catholique, IV, coll. 1489-1501: lavoro assai ampio e informato ma non sempre ben vagliato; migliori: A. Fortescue, in Hastings, Encyclopaedia of Religion and Ethics, IV, pp. 832-35; G. Krüger, in Hauck, Realencyklopädie für protestantische Theologie und Kirche, IV, pp. 764-65 (tratta esclusivamente, salvo pochi accenni di carattere generale, della setta dei doceti, denunciata da Ippolito). Vedi inoltre: J. F. Buthune-Baker, An introduction to the early history of christian doctrine, 3ª ed., Londra 1923, p. 79 segg.; J. Tixeront, Histoire des dogmes dans l'antiquité chretienne, I, Parigi 1915, passim (v. nell'indice); C. E. Raven, Apollinarianism, an essay on the christology of the early church, Cambridge 1923, p. 95 segg. e passim nella parte relativa alla cristologia di Apollinare (pp. 181-232); A. von Harnack, Marcion: das Evangelium vom fremden Gott, Lipsia 1924, p. 124 segg.; M. Niccoli, Docetismo e soteriologia, nel "De Trinitate" di Ilario, in Ricerche religiose, I (1925), pp. 261-274; E. Buonaiuti, Frammenti gnostici, Roma 1923, passim. I frammenti (nel testo e nella trad. italiana) dei vangeli apocrifi degli Egiziani e di Pietro a tendenze, specie il secondo, nettamente docetiche, in E. Buonaiuti, Detti extracanonici di Gesù, Roma 1925. Sul docetismo buddhista, v. M. Anasaki, in Hastings, Encyclopaedia of Religion and Ethics, IV, pp. 835-840.