La disapplicazione di un atto normativo è un potere che spetta a un qualsiasi giudice nel corso di un giudizio, ai fini della risoluzione di un’antinomia all’interno di un ordinamento giuridico (Criteri di risoluzione delle antinomie). La disapplicazione è infatti, al pari dell’abrogazione o dell’annullamento, uno dei modi di cessazione di efficacia di un atto normativo, ma, mentre l’abrogazione e l’annullamento hanno una incidenza erga omnes, la disapplicazione ha incidenza soltanto inter partes, cioè limitatamente alle parti del giudizio.
Suscettibili di disapplicazione possono essere non solo gli atti regolamentari, ma anche gli stessi atti legislativi: è da rilevare, anzi, che la disapplicazione della legge costituisce la tipica modalità attraverso cui si esplicita il c.d. sindacato diffuso di costituzionalità, affidato – come nel caso degli U.S.A. a partire dal 1803 – non ad un organo costituito ad hoc (Corte costituzionale), ma ad ogni singolo giudice.
La disapplicazione nell’esperienza repubblicana. - Per quanto riguarda l’esperienza giuridica italiana, un potere di disapplicazione è stato riconosciuto sin dai primi anni susseguenti l’Unità d’Italia nei confronti dei regolamenti non conformi alla legge e degli atti amministrativi illegittimi (l. n. 2248/1865, all. E). Il giudice ordinario poteva allora solo disapplicare l’atto e non, invece, annullarlo, in virtù del principio della separazione dei poteri, per cui, invece, il potere di annullare o rivedere l’atto spettava solo all’amministrazione, tenuta però a conformarsi ai giudicato dei tribunali. Questo potere del giudice ordinario è rimasto anche dopo la creazione di una giurisdizione amministrativa – in virtù della scarsa incidenza del potere disapplicativo del giudice ordinario – con l’istituzione della IV Sezione (l. n. 5992/1889) e, qualche anno più tardi, della V Sezione del Consiglio di Stato (l. n. 62/1907). La ripartizione dei compiti delle due giurisdizioni, infatti, è stata concepita come posta su due diversi piani: da un lato, al giudice amministrativo competeva la cognizione degli interessi legittimi, mentre al giudice ordinario quella dei diritti soggettivi (distinzione poi fatta propria all’art. 103, co. 1, Cost.); dall’altro, al giudice amministrativo spettava l’annullamento dell’atto illegittimo, mentre alla giurisdizione ordinaria competeva la disapplicazione dello stesso.
All’interno di questo quadro generale, tutt’oggi vigente nelle sue coordinate fondamentali, va detto però che la questione del riparto di giurisdizione si è ulteriormente complicata, soprattutto a seguito delle riforme amministrative degli anni novanta del Novecento (basti pensare, ad esempio, al d.lgs. n. 29/1993, che ha conferito la cognizione del rapporto di lavoro di pubblico impiego esclusivamente al giudice ordinario): a partire da ciò, il legislatore, infatti, ha attribuito la giurisdizione esclusiva su determinate materie o al giudice amministrativo o al giudice ordinario, a prescindere dalla situazione giuridica soggettiva di vantaggio oggetto di lesione, con la conseguenza che, in alcune materie di giurisdizione esclusiva, il giudice ordinario avrebbe potuto non più soltanto disapplicare l’atto, ma anche annullarlo. Tuttavia, un limite a questo modus operandi è stato posto dalla stessa giurisprudenza costituzionale, che ha ribadito nel 2004 il fondamento costituzionale della distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi e, dunque, la diversa esistenza e funzione svolte dal giudice ordinario e dal giudice amministrativo.
Va poi detto che la disapplicazione non riguarda solo gli atti amministrativi e i regolamenti, arrivando a investire la stessa legge. A tale fenomeno si assiste in ragione della partecipazione dell’Italia ex artt. 11 e 117, co. 1, Cost. al processo di integrazione europea, per cui – come confermato dalla Corte costituzionale a partire dal 1984 – il giudice italiano che si trovi di fronte ad una contrasto tra una legge di provenienza statale ed una delle fonti comunitarie (oggi dell’U.E.), è tenuto a disapplicare (più correttamente: a non applicare) la prima e ad applicare senz’altro la seconda, con il solo limite dei principi fondamentali e dei diritti inalienabili garantiti nella Costituzione italiana.
Criteri di risoluzione delle antinomie