DIRITTO COMUNITARIO
Il d. c. costituisce un sistema giuridico complesso che trae vita dai trattati istitutivi delle tre Comunità europee, la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA), la Comunità Economica Europea (CEE) e la Comunità Europea dell'Energia Atomica (CEEA o EURATOM), sorte in attuazione di un disegno d'integrazione europea nel campo essenzialmente economico ma in vista anche del perseguimento del più ambizioso obiettivo dell'unificazione politica dell'Europa (v. anche cee, App. III, i, p. 338; IV, i, p. 401; paneuropa, App. II, ii, p. 500; europa, Europa Federale, App. III, i, p. 586; europeismo, App. IV, i, p. 752).
Pur non potendosi riferire a un sistema giuridico omogeneo, l'espressione ''diritto comunitario'', di uso comune, può quindi essere utilmente impiegata per designare globalmente le norme giuridiche che interessano le tre Comunità. A formare il d. c. concorrono diversi tipi di norme che possono raggrupparsi in tre grandi categorie: le norme contenute nei trattati istitutivi (nonché in quelli integrativi e modificativi degli stessi) e le norme poste da accordi con terzi stati, della cui appartenenza al d. internazionale non si può dubitare; le norme che riguardano la struttura delle Comunità, che costituiscono l'ordinamento interno delle stesse in quanto organizzazioni internazionali; infine, le norme emanate dalle istituzioni comunitarie per il perseguimento dei fini delle Comunità e destinate a trovare applicazione nell'ambito dell'ordinamento interno degli stati membri. L'eterogeneità delle norme che compongono il d. c. non impedisce tuttavia di configurare lo stesso come un ordinamento autonomo rispetto sia all'ordinamento internazionale sia agli ordinamenti interni degli stati membri e come tale dotato di proprie fonti di produzione giuridica, tra le quali è possibile configurare una gerarchia.
Fonti primarie del d. c. sono i già citati trattati istitutivi delle Comunità e i trattati che nel tempo hanno integrato o modificato gli stessi. Tra questi ultimi, merita particolare menzione l'Atto unico europeo, firmato a Lussemburgo il 17 e il 28 febbraio 1986 ed entrato in vigore il 1° luglio 1987, che rappresenta la più rilevante modifica finora apportata ai trattati istitutivi. Con l'Atto unico, infatti, gli stati si sono proposti di far progredire concretamente l'Unione europea, istituzionalizzando a tal fine gli organi della cooperazione politica europea, estendendo le competenze comunitarie a nuovi settori, modificando parzialmente il processo decisionale; tutto ciò non senza alcune ambiguità e contraddizioni che lasciano perplessi i fautori del più completo integralismo europeo. Ai trattati in questione ci si riferisce come alla ''costituzione comunitaria'', anche se le norme costituzionali andrebbero meglio individuate, all'interno delle fonti primarie, in quelle norme che disciplinano la struttura istituzionale della Comunità e i rapporti tra le istituzioni, il procedimento di produzione giuridica, la garanzia giurisdizionale del diritto comunitario, i rapporti tra l'ordinamento comunitario e gli altri ordinamenti giuridici.
Per conseguire gli obiettivi da essi posti, i trattati istitutivi hanno previsto procedimenti di produzione giuridica che configurano le fonti derivate del d. c., attraverso l'attribuzione alla Commissione e al Consiglio di un potere normativo. In particolare, il trattato CEE (art. 189) prevede, come principali atti idonei a creare norme derivate, i regolamenti, le direttive e le decisioni.
Il più importante atto normativo è il regolamento in quanto ha portata generale, è obbligatorio in tutti i suoi elementi ed è direttamente applicabile nell'ordinamento di ciascuno degli stati membri; ciò comporta che il regolamento ha un'efficacia diretta immediata senza che sia necessario alcun atto di recezione o di adattamento da parte degli stati, i cui organi competenti sono tenuti solo ad applicarlo e a garantirne l'osservanza. Stante la sua natura di atto a portata generale e di applicabilità diretta, il regolamento viene utilizzato in quei settori nei quali si voglia raggiungere una disciplina uniforme. Allorché tale obiettivo non è realizzabile o non appare indispensabile, si ricorre invece alla direttiva che ha come destinatari esclusivamente gli stati membri, i quali sono vincolati solo in ordine al risultato da raggiungere, restando liberi di adottare a tal fine le misure che essi ritengono più appropriate. La terza categoria di atti obbligatori è costituita dalle decisioni, le quali possono indirizzarsi agli stati come alle persone fisiche e giuridiche nazionali, ma non hanno portata generale in quanto sono riferibili ai soli destinatari. Le decisioni possono qualificarsi come atti normativi solo in alcuni casi; di regola esse hanno invece natura di atti amministrativi.
Il d. c., sia primario che derivato, è assistito da un sistema elaborato di garanzie che trova la sua massima espressione nella giurisdizione esercitata dalla Corte di Giustizia delle Comunità. Composta, attualmente, da 13 giudici e assistita da 6 avvocati generali, la Corte ha il compito fondamentale di assicurare il rispetto del d. nell'interpretazione e nell'applicazione dei trattati (art. 164 tr. CEE, 136 tr. CEEA e 31 tr. CECA). A tal fine i trattati hanno attribuito alla Corte una serie di competenze di carattere obbligatorio, nel senso che, in difformità della regola della volontaria giurisdizione caratterizzante l'ordinamento internazionale, non è necessaria l'accettazione della sua giurisdizione. Nell'ambito di tali competenze la Corte giudica il comportamento degli stati membri riguardo agli obblighi derivanti dal d. c., emanando una sentenza di mero accertamento dell'esistenza o meno di una violazione; giudica altresì il comportamento delle istituzioni comunitarie che hanno il potere di emanare atti vincolanti, sotto il profilo sia della legittimità degli atti (dichiarando, se il ricorso è fondato, nullo o non esistente l'atto impugnato), che dell'omissione degli atti dovuti (cosiddetto ricorso in carenza). Tali giudizi possono essere promossi sia dagli stati, sia dalle istituzioni comunitarie, sia, a determinate condizioni, dai privati, limitatamente ai quali l'Atto unico (art. 11 che inserisce l'art. 168 A nel tr. CEE) ha previsto la possibilità di affiancare alla Corte una giurisdizione di primo grado.
A ulteriore garanzia di un'uniforme interpretazione e applicazione del d. c. negli stati membri, la Corte gode, a titolo pregiudiziale, di una competenza esclusiva a carattere non contenzioso, in base alla quale, su domanda delle giurisdizioni nazionali, essa interviene per interpretare le norme comunitarie o per controllare la validità degli atti delle istituzioni, con una sentenza che obbliga il giudice nazionale a uniformarsi alle sue statuizioni. L'esercizio di tale competenza, che appare la più tipicamente finalizzata all'obiettivo dell'integrazione giuridica dei vari ordinamenti nazionali, ha dato un notevole impulso alla costruzione comunitaria. Si è infatti instaurata una cooperazione tra i giudici nazionali e la Corte comunitaria che ha permesso a quest'ultima di formulare un'elaborazione estensiva della dottrina delle norme di effetto diretto (self-executing), consentendo in tal modo ai singoli soggetti nazionali d'invocare direttamente le disposizioni dei trattati a salvaguardia dei propri d., col risultato di costituire un ulteriore e più efficace presidio del d. c. che si è aggiunto a quello che i trattati affidano alla diligenza della Commissione e degli stati membri.
La Corte ha avuto altresì modo di riaffermare il primato del d. c. sul d. interno degli stati membri come principio fondamentale alla base del processo d'integrazione europea. In conseguenza, nessuna efficacia può essere riconosciuta a una norma interna contrastante con una norma comunitaria; alla stessa conclusione è infine pervenuta, dopo un laborioso cammino, anche la nostra Corte Costituzionale (sentenza n. 170 dell'8 giugno 1984, ribadita e completata da altre sentenze successive e in particolare dalla sentenza 113/85). Pertanto, anche il sistema delle fonti del nostro ordinamento, come quello degli altri stati membri, risulta integrato dal d. c., il quale, grazie anche a un'accentuata tendenza alla ''comunitarizzazione'' di nuovi settori di attività prima riservati agli stati, è pervenuto a uno stadio di evoluzione di ''sovranazionalità'' che sembra irreversibilmente indirizzato verso un modello d'integrazione prefederale.
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